Elogio della fragilità

Alessando D’avenia – Corriere della sera →

 

«Matteo e il suo essere diverso mi hanno insegnato che la vita non è mai povera, ma povero è lo sguardo con cui la si guarda e per un’adolescente questa è la miglior medicina nei momenti di sconforto. Quando ho preso consapevolezza della situazione ho provato un enorme senso di paura e solitudine. Con il tempo e con l’aiuto dei miei genitori, ho capito che dovevo trovare il coraggio di cercare la bellezza della fragilità di mio fratello e lui è sempre più consapevole della sua originalità. Il bello dell’unicità e quindi della diversità è il bello della vita, e Mat con le sue grandi fragilità lo insegna. Per cosa voglio spendere la mia vita? Per difendere la bellezza delle cose fragili». A scrivere è Beatrice di 14 anni, la figlia di Marzia e Paolo: «Siamo i genitori di un’adolescente e di un bimbo speciale di undici anni. Volevamo condividere un racconto di Beatrice per un concorso scolastico. Pensiamo sia nato grazie a quanto scrivi. Grazie per aver camminato accanto a noi». Si riferivano alla lettura, non facile per una quattordicenne, de «L’arte di essere fragili», ma un ragazzo è disposto a percorrere tutto lo spazio impervio dell’anima per strappare un senso alla vita, come sapeva bene Leopardi: «il possesso di sé stessi suol venire o da bisogni e infortuni o da qualche passione grande; e per lo più dall’amore».

Il racconto di Beatrice comincia così: «Avevo tre anni quando è nato mio fratello e il nome l’ho deciso io: Matteo. Ero piccola per capire ciò che stava accadendo a quello che era il mio bambolotto e poi sarebbe divenuto la parte più importante e vera di me. Poi si è chiarita la patologia di Matteo (come se ce ne fosse bisogno: per me Mat era lui, non la sua patologia!): sindrome di Edward. Mat ha iniziato a pronunciare qualche parola a cinque anni e l’avevo ribattezzato “l’ottavo nano: Rognolo”, poiché piangeva in continuazione ed era perennemente arrabbiato con il mondo. A ogni suo capriccio, per strada, al supermercato o in chiesa, si sdraiava sul pavimento e piangeva, urlava, si dimenava. Che rabbia! Mi stupiva il fatto che i miei non lo rimproverassero e ciò mi indisponeva ancor più. Avere un fratello, con cui non poter condividere nulla e con il privilegio di avere i genitori sempre attaccati, m’infastidiva enormemente. Oggi ridimensionerei tutto e chiamerei quel sentimento semplicemente e comprensibilmente gelosia fraterna. Un giorno di marzo pioveva fortissimo. Matteo piangeva, osservavo incantata le gocce che si rincorrevano sul vetro e cercavo di attribuire un aggettivo a ciascuna: io regalavo parole agli altri mentre mio fratello era prigioniero di quelle stesse parole. Improvvisamente sono esplosa in un pianto inconsolabile. È stata la prima volta in cui ho avuto la consapevolezza che Mat sarebbe stato diverso dagli altri. Molti miei amici vedono l’essere diverso come un limite, un’inferiorità. Forse perché viviamo in un mondo in cui apparire è più importante dell’essere, ma poi in fondo tutti cerchiamo autenticità e Mat insegna che è la fragilità stessa a renderci unici, autentici e perciò credibili. Spesso vedo che le persone anche adulte rimangono in superficie e non si appassionano alla vita. Una giornata con Mat sarebbe in grado di cambiare il loro sguardo. Lui è grato per le nuvole, la pioggia, il vento, i fiori gialli che crescono lungo i marciapiedi, il sole che fa capolino dalle nuvole. Io rimango incantata e al tempo stesso contagiata dal suo sguardo di meraviglia sul mondo».

Da queste righe emerge un punto nevralgico dell’educazione: che ne facciamo del dolore e della fragilità? Tendiamo a nasconderli ai ragazzi e fatichiamo a dar loro un senso, immersi in una cultura in cui felicità è sinonimo di successo, infallibilità, perfezione. Eppure, se considero la mia vita, i momenti in cui sono cresciuto sono frutto di crisi più o meno dolorose che non cambierei, anche se quando vi ero immerso sarei voluto fuggire. Solo grazie a chi avevo vicino ho potuto affrontarle e, lentamente, renderle linfa vitale.

Così ha fatto Pierluigi Cappello, morto a 50 anni nel 2017, paralizzato dal petto in giù da quando ne aveva 16 per un incidente. Nella sua autobiografia descrive il risveglio dopo lo scontro in moto e la scoperta di essere estraneo al suo corpo. Accanto a lui, quando apre gli occhi, trova i genitori, dai quali attende parole a cui aggrapparsi, ma «intravede sua madre, seduta, ha il viso rosso, si trattiene, poi non lo fa più, si alza in piedi e va via senza dire niente». Chi gli ha dato la vita deve trovare il coraggio di rimetterlo al mondo, ridarlo alla luce. Cappello è diventato poeta proprio per andare a caccia delle parole perdute, che a poco a poco ha ritrovato grazie alle cure pazienti dei suoi e grazie alle letture, decisivo e salvifico il primo libro letto dopo l’incidente (non a caso Moby Dick), così è diventato una delle voci più autentiche della nostra poesia. Come per Beatrice, il dolore è accolto e superato grazie ai genitori e alle parole di chi ci ricorda che la nostra esperienza, anche la più dolorosa, è umana, ha senso, cioè un significato e una direzione. Forse per questo ricevo tantissime lettere di ragazzi su come affrontare la sofferenza, propria e altrui. Molti di loro sono imprigionati nel dolore muto e chiedono parole a uno sconosciuto, per trasformarsi da infanti (letteralmente «chi non ha parola») in fanti, cioè non solo «chi ha la parola», ma chi può andare alla guerra della vita. Il dolore muto è il tarlo dell’anima, scava fino a sgretolarla, se non si interviene. Solo nella misura in cui apre spazi di cura e parole, il dolore è abitabile, perché come dice un personaggio shakespeariano: «ognuno può padroneggiare un dolore, tranne chi l’ha». Questo coraggio è quindi chiesto a chi incontra il patire altrui, perché piangere e parlare contemporaneamente è impossibile.

Così accade a una bambina nel parco Steglitz di Berlino. Non riesce più a trovare Brigida, la sua bambola di pezza. Un uomo s’imbatte nella piccola paralizzata dal pianto. Non la ignora né la consola, ma fa suo quel dolore, e comincia a raccontarle una storia: Brigida è partita per un viaggio e scriverà regolarmente alla padroncina per raccontarle tutto. Lui è il postino delle bambole e le recapiterà le lettere. Così i due si incontrano regolarmente al parco, l’uomo legge le storie dei viaggi della bambola aiutando la bambina ad accogliere il dolore, rendendolo sensato. Lettera dopo lettera la piccola trasforma la perdita in consapevolezza del fatto che Brigida è felice del suo viaggio: e così la lascia andare. L’uomo muore un anno dopo il loro primo incontro, felice di quell’epilogo, si chiamava Franz Kafka. Partendo da questo episodio biografico raccontato da Dora Diamant, ultima fidanzata dello scrittore della «Metamorfosi», Jordi Sierra i Fabra ha scritto un romanzo breve che immagina l’intera storia («Kafka e la bambola viaggiatrice»), facendo emergere che solo il dolore a cui si dà casa, cioè tempo, cura e parole, fa crescere, e il compito è affidato a chi accoglie il sofferente e ne fa proprie le ferite, e così cura nell’altro la sua stessa carne.

Qualche tempo fa una giovane coppia ha chiesto alla maestra della figlia di comunicarle della morte della nonna, perché loro non sapevano come fare. Siamo disarmati di fronte al dolore, se inadeguate sono le narrazioni e le risorse capaci di dargli un senso, ma proprio quel dolore ci obbliga a trovarle. La sofferenza smaschera i limiti di una cultura che basa la felicità sul successo delle prestazioni: la fragilità è rimossa come tabù o colpa, anziché accolta come la nuda condizione umana. Essere fragili è un lusso che oggi più che mai dobbiamo concederci per liberare le risorse che la paura di non essere abbastanza imprigiona. Educare è introdurre alla realtà, e la realtà ha la stoffa della fragilità: così Beatrice trova parole per Mat, Kafka per la bimba, e Cappello per sé e i lettori: nell’ultima poesia scrive infatti che per vivere serve «costruire una capanna/ di sassi rami foglie/ un cuore di parole/ qui, lontani dal mondo/ al centro delle cose/ nel punto più profondo».

Solo la fragilità e il dolore, presi per mano dall’amore (tempo, cura, parole), ci portano nel punto più profondo del mondo, in cui abitano gli uomini spogliati dalla bugiarda pretesa di autosufficienza, causa di ogni amara solitudine. Solo quando un uomo carica sulle sue spalle il dolore altrui, allora il dolore è abitabile e superabile, come Simone di Cirene costretto dai soldati a portare la croce di Cristo, gesto indagato con tenacia da Andrea Tarabbia nel recente «Il peso del legno»: «Simone sente che quel morituro gli appartiene in virtù del gesto che ha fatto per lui». E questo vale per ogni vita fragile: un bambino in grembo, un malato, una persona sola, perché soltanto il gesto che difende la vita, per quanto faticoso sia, la moltiplica. Riparare i viventi è il segreto di chi vuole farsi e dirsi vivo, perché la soluzione al dolore non è una spiegazione, ma una compagnia.

Il letto da rifare oggi è trovare il coraggio di non scappare dal peso del dolore, ma scoprire che proprio chi soffre ci chiama, ci appartiene e ci salva, come Mat, 11 anni, per Beatrice, 14 anni.

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