La voce unica dell’ideale

Incontro di don Julián Carrón con i maturandi di Gioventù Studentesca →

Amici, questo momento della vostra vita è particolarmente decisivo, perché in noi, in ciascuno di noi, c’è una battaglia in atto tra la «voce unica dell’ideale»1 (come abbiamo cantato), che tutti sentiamo vibrare dentro di noi, e tutte quelle circostanze che tante volte cercano di schiacciare questa voce, per cui non sappiamo da che parte andare.

Questa è una lotta che ciascuno di voi vive dentro di sé, e perciò questo momento è particolarmente drammatico, perché scelte come quelle che state per prendere sono determinanti nella vita, perché uno comincia a prendere consapevolezza di tutti i fattori e vede emergere il proprio volto: «Io che ci sto a fare al mondo?». E capisco benissimo il dramma che ciascuno può vivere in questo periodo della vita; è un periodo che ci costringe a scegliere; state per finire, occorre scegliere, occorre incominciare a scegliere, non è che la vita ci aspetta; occorre scegliere, perché non scegliere è già una scelta; di fatto, tutti alla fine delle superiori scelgono, si pongono nella vita con un volto, e c’è questa lotta: «Non fermarti alla corte delle anime nane che ripetono i gesti e non sanno capire. Non salire al castello dei giovani giusti che adorano il sole»2. Invece l’ideale ci invita a lottare contro questa riduzione. La prima consapevolezza che dobbiamo avere è di questa lotta in atto.

La seconda questione è la strada, sapere la strada per raggiungere quell’ideale, perché «cammina l’uomo quando sa bene dove andare»3. Ci insegna don Giussani: «Solo nella chiarezza e nella sicurezza l’uomo trova l’energia per l’azione»4. Per questo vogliamo aiutarci a chiarire quello di cui abbiamo bisogno per poter vivere, per poterci buttare nella vita, perché è un’esigenza del momento in cui vivete, un’urgenza che nasce nel profondo del vostro essere, la scoperta che la vita è vocazione.

1) A CHE VALE LA PENA VIVERE?

La prima questione della vocazione, che dobbiamo guardare in faccia, non è che cosa scegliere, questa è la conseguenza. La prima questione è quella che urge tante volte ai nostri cuori: «Ma io perché ci sono? Perché sono al mondo? A che vale la pena vivere? A che serve l’io? A che serve il mio io?». Come vedete, è la questione della vita, la questione fondamentale di ciascuno di noi. La primissima decisione è prendere sul serio questa domanda, questa urgenza, perché, come dice R.M. Rilke, «tutto cospira a tacere di noi»5 per farci agire secondo altri criteri. Fermare questa domanda significherebbe far violenza alla natura dell’uomo, significherebbe uccidere la natura dell’uomo, cioè bloccare il nostro io nel proprio slancio verso la vita. Per questo siamo insieme questa mattina, anzitutto per non bloccare questa domanda, per non bloccare la voce dell’ideale.

Immaginiamo che un pezzo di qualsiasi cosa, per esempio la ruota di una macchina, si domandasse: «Qual è la mia utilità? Che cosa ci sto a fare qua?». Lo si potrebbe comprendere soltanto all’interno del rapporto, nel suo nesso con tutta la macchina, perché ogni pezzo del reale si capisce nel suo nesso con il tutto. Per questo, se ci domandiamo: «A che cosa serve la mia vita? Che cosa sono chiamato a fare?», la questione è trovare il criterio che ci leghi al tutto, «quel criterio seguendo il quale l’uomo rende se stesso utile al mondo in modo tale da camminare sempre di più verso la sua personalità, verso la sua felicità, […] non verso la sua perdita»6. Attenzione, perché questo è fondamentale: non è che servire il mondo significhi una perdita di noi, ma il servizio al mondo è il guadagno di noi, è la realizzazione di noi. Capire questo è fondamentale, perché tanti pensano che l’unica modalità di realizzare se stessi sia auto affermarsi (non affermarsi in rapporto alla totalità, bensì in rapporto a sé) e per questo, poi, finiscono da soli in un nascondiglio, domandandosi che senso ha la vita. Per questo è così decisivo. Per la mia realizzazione io devo capire che cosa sto a fare al mondo, perché senza di questo inesorabilmente mi perdo. Ma come capire questo? Come capire che cosa sto a fare al mondo? A che cosa sono utile?

Per rispondere a questa domanda occorre capire qual è il senso del mondo, qual è il significato del mondo. E questo, amici, per noi è misterioso: qual è il senso della totalità, qual è il senso del mondo, della storia? Come diceva san Paolo: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi»7. Sarebbe veramente difficile scoprire il senso del mondo – o, in altre parole, Dio –, e perciò la mia utilità in questo mondo, se rimanessimo nel buio, in questo mistero: «Per tutta la vita la vera legge morale sarebbe quella di essere sospesi al cenno di questo ignoto “signore”, attenti ai segni di una volontà che ci apparirebbe attraverso la pura, immediata circostanza.

Ripeto: l’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze»8. In termini teologicamente eruditi, san Tommaso afferma: «La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori»9.

Ma il Mistero ha avuto pietà di noi; vedendoci così smarriti, ha avuto pietà di noi ed è entrato nella storia per rivelarci ciò che noi da soli non possiamo penetrare, è diventato uomo per aiutare gli uomini a essere se stessi, per svelare il senso ultimo del mondo e aiutarli a capire il significato della vita. Gesù Cristo ha usato un’espressione per descrivere qual è il significato del mondo: il regno di Dio. Tutto il valore della realtà è costruire il regno di Dio, è partecipare alla costruzione di questo regno, cioè partecipare alla costruzione di un mondo che corrisponda all’Ideale che si è fatto carne. Perciò ha dato un contributo fondamentale per capire il nostro posto nel mondo. Il valore mio e il valore tuo stanno nella misura in cui collaboriamo al regno di Dio, nella misura in cui aiutiamo l’umanità a camminare verso la felicità. Perché è soltanto partecipando a questo regno – che è il riconoscimento della Sua presenza tra noi – che il singolo può raggiungere la propria felicità, il proprio compimento.

Su ognuna di queste frasi voi dovete lavorare chiedendovi: è vero o non è vero? Non è che adesso ripetete le frasi come una sequenza logica e il problema è finito; no! Voi dovete domandare, perché altrimenti non capirete la portata di quello che ci diciamo e dopo deciderete a vanvera perché non avete capito. In questi passaggi si gioca veramente la vita. Perciò, questo è un momento prezioso, fondamentale, per fare un salto nella consapevolezza di chi sono io, di che cosa sto a fare al mondo e qual è il senso del mondo.

«Per la scelta della vocazione, dunque, il criterio non può essere che uno: come io, con tutto quello che sono spiritualmente e intellettualmente, come temperamento e come educazione e come fisico, posso servire di più il regno di Dio»10.

2) LA SCOPERTA DELLA VOCAZIONE

Come posso capire i segni che mi consentono di chiarire come io posso servire di più il regno di Dio? Devo individuare quel complesso che io sono per poter capire come posso usare tutto quello che ho, tutto quello che mi trovo addosso e che mi è stato dato, per l’utilità del regno di Dio.

Prendo quel che dice don Giussani e lo suddivido, per chiarezza, in tre grandi criteri.

Il primo criterio da guardare è il complesso di inclinazioni o doti naturali. Ciascuno di noi si trova addosso una serie di capacità, desideri, impeti, un temperamento. Sono doni preziosi che dobbiamo mettere al servizio di qualcosa d’altro. Ci sono dati, tutti questi doni, per qualcosa nella vita, per usarli, per vivere: come io posso usare tutti questi doni che il Signore mi ha dato per servire di più il regno di Dio? «Per esempio, c’è un temperamento di intelligenza che sembra scemo quando si applica alla matematica ed è genialissimo quando si tratta di costruire […] un racconto: è un genio letterario, che in matematica sembrerebbe scemo. Se lo forzano a fare il Politecnico, gli impediscono un rendimento per l’umanità»11. Se ci sono il professore, il padre, la madre, il bambino, la tata, il cane che dicono: «No, tu devi fare il Politecnico», ti “ammazzano”. Sembra banale, non potrai essere contento, non potrai rendere, non potrai servire; tu non hai trovato il tuo posto al mondo e per questo sarai fregato, perché tu scegli qualcosa dal di fuori non avendo fatto i conti con i tuoi doni. «C’è, per esempio, un tipo che è geniale nell’arte musicale. Se lo si costringe a fare Diritto Pubblico e Privato, certamente si diminuisce il rendimento per l’umanità di quell’individuo, e quindi si rende più pesante il suo cammino, ché le due cose coincidono sempre. L’intensità o la bellezza… la bellezza del cammino – siccome la bellezza è lo splendore del vero – coincide con l’utilità che realizziamo nel mondo […]. La bellezza del cammino corrisponde all’avverarsi della nostra vocazione. Quindi, per individuare questo condizionamento [questo complesso di doni ricevuti, di inclinazioni, di doti], innanzitutto occorre l’attenzione alle proprie doti naturali, o capacità [a quello per cui io ho una tendenza, ho una facilitazione, ho un genio]. Come si chiama quel fenomeno che porta a galla le doti, le capacità naturali? Si chiama “inclinazione”, l’inclinazione. […] La natura ci introduce agli ideali, ma sempre attraverso un gusto o una inclinazione, al piacere, o al bisogno. […] Perciò, la prima grande regola pratica è […] la semplicità»12, la sincerità di guardare e riconoscere e abbracciare questi doni come il primo segno che la realtà mi offre per capire che cosa ci faccio io nel mondo. L’errore più grave che si può commettere nel determinare la propria vocazione «è il porsi in una condizione di diffidenza verso le proprie inclinazioni, verso il gusto, verso il piacere in quanto è autentico, […] in quanto è nativo»13.

Possiamo riassumere: le doti, il temperamento, le tendenze da cui siamo costituiti sono quelle che dobbiamo guardare perché sono ciò attraverso cui il Mistero ci chiama, dandoci queste capacità, queste inclinazioni dentro la carne; non ci manda un angelo, ma ci plasma dentro le nostre viscere per dirci a che cosa ci chiama, perché è Lui che ci ha fatto così. Perciò anche l’orientamento professionale, per esempio, dovrà tener conto di queste tendenze native come il modo per incamminarsi dove Dio, attraverso le capacità che ci dona, ci chiama. Ti chiama, ma ti chiama non dall’esterno, ti chiama dandoti tutte queste inclinazioni.

Secondo criterio: le condizioni inevitabili o le circostanze inevitabili. Dice don Giussani che «la circostanza inevitabile è certamente – come dire? – la cosa più amica che abbiamo al mondo, perché è il fattore più evidente della nostra esistenza. Perché nella valutazione delle nostre inclinazioni e delle nostre doti, spesso c’è la possibilità dell’incertezza, o la paura»14… Non tutti sono Mozart e hanno la chiarezza dei doni e delle doti così chiaramente dall’inizio; a volte non è così evidente, mentre le circostanze inevitabili sono evidenti e uno, per esempio, può voler fare astronomia perché è veramente dotato per questo, ma – pensiamo – per una circostanza familiare, per mancanza di risorse, una circostanza veramente inevitabile, non può farlo, perché la famiglia ha avuto un crollo economico con la crisi. Allora risulta che deve andare a lavorare. Circostanze inevitabili determinano la possibilità o no di fare certe cose: uno vuole fare ciclismo o andare alle Olimpiadi perché è veramente dotato atleticamente,ma ha un incidente e rimane zoppo. Per capire che cosa sta a fare al mondo la prima mossa non è arrabbiarsi, ma accettare questa circostanza inevitabile. Immaginate che quello, diventato zoppo, fosse lì tutto testardo a dire: «No, io voglio andare alle Olimpiadi»; sarebbe una cocciutaggine, un capriccio! Dal punto di vista vocazionale, don Giussani dice: «La circostanza inevitabile è al mille per mille con sicurezza assoluta indice della strada da percorrere. Perciò non esiste nulla di più amico, di più facilmente amico nostro, della circostanza inevitabile, del fatto»15.

Aggiungo un aspetto fondamentale, una notazione fondamentale: niente è fatalità in questo, il destino non è il fato: tutto, ma tutto, risulta strumento di vocazione! Tu sei sicuro che facendo l’atleta potresti raggiungere la tua pienezza e la tua soddisfazione meglio che attraverso quella circostanza inevitabile? No. Abbracciare questo incidente come parte del cammino al destino è aspettare curioso come il Signore se la caverà per portarmi alla felicità attraverso il mio essere zoppo. Ma non introduce un dubbio! Non sono lì a lamentarmi per tutta la vita, anzi: questa condizione inevitabile diventa elemento fondamentale attraverso cui il Mistero mi farà raggiungere il destino, l’ideale, la felicità. Se invece ci fermiamo all’arrabbiatura, sarà la tomba, perché nella vita si possono avere tanti incidenti di percorso che sono inevitabili, ma se noi non avessimo la possibilità che la vita continui ad avere senso (e pensiamo che possano raggiungere lo scopo soltanto certe persone con certe capacità), dipenderemmo soltanto dal caso. Invece qualsiasi circostanza è parte del raggiungimento del destino, della felicità. E questo è veramente liberante, perché la felicità non dipende dalla riuscita mondana, ma dal mio servizio al tutto, al regno di Dio (perciò può essere lo stesso fare il portinaio o il ministro).

Terzo criterio: il bisogno sociale, o meglio, il bisogno del mondo e della comunità cristiana. Dovete guardare in faccia il mondo in questo momento storico: che bisogno ha? La Chiesa, che bisogno ha? La comunità cristiana, che bisogno ha? Ciascuno deve guardare che cosa percepisce come più urgente, perché ci possono essere epoche e situazioni in cui l’urgenza di una dedizione totale a Dio è più forte, in un altro momento è più decisivo che ci siano uomini in mezzo alla realtà, nel lavoro, nella famiglia, che possano testimoniare dall’interno delle viscere della società dove tutti vivono che cos’è la vita, qual è il senso del vivere. Anche così noi possiamo scoprire a che cosa siamo chiamati.

«Il giudizio deve scaturire dal complesso di questi fattori messi insieme. Ma questo comporta un’altra considerazione: senza riflessività e senza un paragone – il paragone dialogico – con la comunità nella sua funzione tipica, cioè con chi guida la comunità, è inevitabile che il nostro modo di procedere sia istintivo e meccanico. Per tutte le cose noi riflettiamo, mentre per questo, da cui dipende tutta la strutturazione della nostra vita nel suo valore più personale, lasciamo fare automaticamente quel che sentiamo dentro. Occorre riflettere; e riflettere significa paragonarsi al proprio destino, al proprio fine, a Dio, allo scopo della vita, al servire il regno di Dio. Chi ha ancora il problema intatto deve sentire il dovere di recuperare immediatamente questi criteri; e chi ha alle spalle fattori ineliminabili, anche lui, sia pure in altro modo, deve recuperare gli stessi criteri»16. Immaginate di vincere al lotto, guadagnate qualche milione; la cosa normale è domandare a qualcuno dove mettere i soldi per non perderli facendo un investimento folle, no? Domandare non è un dovere,ma è un interesse: mi interessa fare questo paragone per non perdere i soldi. Certo, alla fine decido io, ma mi piacerebbe decidere con tutta la consapevolezza per metterli a frutto al meglio. Se questo succede con i soldi, immaginate che cosa succede con la vita: voglio essere sicuro di aver presente tutti quei fattori che mi consentono una decisione completa, perché la ragione è la consapevolezza di tutti i fattori.

3) LA SCELTA DELLA VOCAZIONE 

Con tutto questo sono due le questioni fondamentali da decidere, due sono le scelte fondamentali che ciascuno di noi è chiamato a fare nella vita.

  1. a) La vocazione come scelta dello stato di vita

Ci sono due stati di vita fondamentali: uno è quello «normale», naturale, di porsi, cioè, di fronte a Dio attraverso la mediazione di un’altra persona»17. Che cosa vuol dire porsi davanti a Dio attraverso la mediazione di un’altra persona? Che, innamorandoti, la persona che più ti fa vibrare, che più ti apre, che più ti rilancia, che più ti richiama a qualcosa d’altro è mediatrice: tu sei chiamato ad aprirti alla totalità attraverso questo fatto che ti è capitato, che ti trovi addosso. Se Dio ti dona quella persona, non è per bloccarti lì, ma per aprirti di più al Mistero, per aprirti di più a quella totalità per cui tu sei fatto: allora incominci ad avere qualche segno di qual è la vocazione a cui Dio ti chiama. Tu cammini verso il Destino attraverso una mediazione, nella compagnia della mediazione di un altro o di un’altra. In questo senso uno segue la grande legge che unisce l’uomo a Dio attraverso la realtà mondana, e uno così dice: «Io con questa persona vado in capo al mondo», vado al destino, sono chiamato ad andare al destino con essa perché mi richiama di più allo scopo della vita. Non è che questa persona mi possa rendere felice, perché non mi renderà felice – attenti, perché in questo sbagliate sempre –, in quanto il mio desiderio è troppo grande e dove questo si mette più in evidenza è proprio qui: nessuna persona ti fa ridestare tutto il desiderio di felicità come quella persona lì,ma allo stesso tempo nessuna è più incapace di compierlo come quella persona lì. Per questo non si deve rimproverare al marito o alla moglie questa incapacità, ma capire che essa è parte della vocazione, che quella persona ti è data per ridestare tutto il desiderio di camminare insieme verso Colui che lo compie (per questo è una vocazione, perché è la possibilità di raggiungere il destino). Se tu, invece, identifichi il destino con quella lì e ti blocchi, succede come a tutti: «Ah, adesso so perché sono nato». Quale diventa nella vostra testa l’utilità per il mondo? Volere questa qua, punto! «Perché devo andare oltre? Perché devo aprirmi oltre?». Dopodiché soffocano e si separano perché non ne possono più: tanto sono fatti l’uno per l’altra che non ne possono più! Se facciamo questo errore, finiamo come vediamo che finiscono tanti adesso, perché non capiamo la natura dell’esperienza amorosa, di quello per cui il Mistero ci fa così: per aprirci di più a Colui che può riempire la vita. «Nell’ambito cristiano la realtà di questo stato [che è fare una famiglia] è fondamentale perché ad esso viene affidata la possibilità stessa del prolungarsi del regno di Dio nel mondo [attraverso i figli]»18.

Ma nella vita della Chiesa c’è un altro stato di vita, che è quello della verginità, «che costituisce anch’essa una funzione fondamentale e che apparirà anche più chiaramente se noi recuperiamo il motivo ultimo ed esauriente per cui ci si offre a Dio: questo motivo è l’imitazione di Cristo [Cristo, il Mistero fatto carne, ha messo nella storia una modalità di essere utile al regno di Dio che è vivere per questo regno, vivere per fare la volontà di Dio dando tutta la propria vita a questo: è proprio quello che ha fatto Gesù, che non ha fatto una famiglia, ha dato tutta la sua vita a questo]. L’imitazione di Cristo è la legge di tutti i cristiani, però nella scelta di uno stato di questo genere essa oggettivamente tocca il suo vertice [una vocazione alla verginità tocca il suo vertice], perché è l’imitazione dello stato di Cristo nella sua pienezza. Lo stato di Cristo nella sua pienezza era un rapporto col Padre che, da un certo punto di vista, come persona, non era mediato da nulla [così come nel matrimonio il rapporto con il Padre è mediato da un altro, qui il rapporto con il Padre non è mediato da nulla]»19. Coloro che sono chiamati a questo stato sono chiamati a un rapporto unico, immediato, diretto, con il Mistero. Questa è la verginità: Dio chiama, Dio introduce nella vita un seme, un’esperienza del vivere tale per cui ti rende così pieno, così grato, ti rende possibile un’esperienza di vita per cui dici: «Io voglio questo», e questo ti rende libero per dare tutta la vita, non per mutilarla. È per una pienezza, non prima di tutto per un sacrificio, è per l’essere stato affascinato da Cristo che uno può sentire l’urgenza di dargli tutto: «Io sono per te, Cristo». Attenzione, nessuno pensi a questa strada per altro motivo che non sia questa pienezza! Non è perché è più perfetta, non è perché è più bella, no; è che uno vive sospeso su un pieno e non vuole perderlo per nulla al mondo, tanto è vero che le persone che se lo trovano addosso forse avevano pensato all’altra strada, non avevano mai pensato a questa, e si trovano addosso una tale pienezza che dicono: «Questo è troppo, troppo bello per non seguirlo». Per questo dice don Giussani: «Cristo, con la sua verginità, non era un mutilato. Perciò il concetto di rinuncia, se indica il riverbero psicologico che l’esistenza genera in quel caso, dal punto di vista del valore, dal punto di vista ontologico non è rinuncia a qualche cosa, ma è l’addentrarsi in un possesso più profondo e più finale delle cose. La verginità di Cristo era un modo più profondo di possedere la donna, un modo più profondo di possedere le cose. Questo ha avuto, per così dire, il suo compimento nel fatto della resurrezione, attraverso la quale Cristo possedette tutte le cose come noi le possederemo alla fine del mondo. In questo senso la verginità, nell’ambito della comunità cristiana, è la situazione paradigmatica, esemplificativa, ideale cui si devono riferire tutti»20. È il paradigma, l’esempio, l’ideale non di un non-possesso, bensì di un possesso più vero.

L’altro giorno, nella pausa della lezione in Cattolica, è venuta una ragazza che, dopo anni di fidanzamento,mi ha detto: «A me piacerebbe tornare a quel primo momento, a quel primo barlume del rapporto con il mio moroso», quando ancora non si erano sfiorati: questa è la verginità! E perché questa ragazza dopo anni ha ancora nostalgia di quell’istante? Perché tutto ciò che è successo dopo non ha ricreato neanche un brandello della pienezza che aveva sperimentato allora. Questa ragazza è ancora fidanzata, ma desidera questo, desidera un possesso dell’altro così, e l’essere posseduta dal suo ragazzo così, come in quel primo commovente istante. La verginità è un modo più profondo di possedere la donna, un modo più profondo di possedere le cose. E oggi, che è l’Ascensione, è la festa di questo: quando Cristo risorto è entrato nella profondità delle cose, possedendole. Anche noi le possiederemo alla fine del tempo, è un compimento vero affettivamente parlando, perché è quello a cui sono chiamati tutti: «La verginità, dunque, nella vita della Chiesa [nel regno di Dio], rappresenta la funzione suprema, tanto è vero che la storia della Chiesa ha identificato la testimonianza nelle sue forme supreme in due punti: la verginità e il martirio. La verginità, nell’ambito della comunità cristiana, costituisce funzione e testimonianza al fine della vita»21. In essa possiamo gridare a tutti: «Guarda che ciò per cui tu ami la tua morosa, il tuo moroso, ciò per cui ti sposi, ciò per cui hai figli ha un nome che ti grido con la mia vita: Cristo. Ed è possibile ciò per cui tu sei fatto avendo la moglie e i figli, esiste, te lo testimonio. Perché? Perché io ho dato la vita a questo e la mia vita non esisterebbe, non ci sarebbe se non ci fosse Lui. Sarebbe impossibile se Cristo non fosse entrato nella storia e ci avesse affascinati così tanto per poter vivere di Lui».

Quale delle due strade abbracciare, allora? «La scelta tra l’una e l’altra strada non può essere una “creazione” nostra, ma deve essere una “ricognizione” nostra. Dobbiamo riconoscere qualche cosa per cui siamo stati destinati. Non deve essere una decisione nostra nel senso che la nostra volontà costruisca la propria posizione, ma nel senso che la nostra libertà aderisca alla indicazione che ci segna la strada»22. Allora la questione fondamentale per la scelta della vocazione è educarci al Mistero, educarci a essere tutti spalancati, tesi a scoprire i segni attraverso cui io posso capire a che cosa sono chiamato.

E questo tante volte è complicato, amici. Perché siamo fatti per il “dunque”, dobbiamo arrivare alla chiarezza e perciò vogliamo accelerare il cammino quando non ci è ancora chiaro – ci sentiamo addosso uno strano disagio, un’impazienza–. Siccome questa posizione è vertiginosa, vogliamo superarla subito e tante volte sbagliamo; invece di aspettare che vengano fuori i segni attraverso cui il Mistero mi dà tutte le indicazioni a cui obbedire, o decidiamo noi o facciamo decidere a un altro. Perché la strada è, in fondo, un’obbedienza; è un’obbedienza che ha dentro tutto quello per cui io sono stato fatto, che tiene conto di tutti i fattori che mi rendono veramente me stesso, non è una decisione “mia”.

  1. b) La vocazione come scelta della professione

Tutto quanto abbiamo detto ci aiuta a capire anche la strada della scelta della professione da svolgere, ma vorrei sottolineare fondamentalmente una cosa. «La concezione moderna della vita mai si dimostra così lontana dallo Spirito di Cristo come in questo punto. Il criterio con cui la mentalità di oggi abitua a guardare l’avvenire fa centro il tornaconto, o il gusto, o la facilità dell’individuo. La strada da scegliere, la persona da amare, la professione da svolgere, la facoltà cui iscriversi, tutto è determinato così da erigere a criterio assoluto l’utilità particolare del singolo. E ciò appare talmente ovvio e scontato che il capovolgimento del richiamo sembra, anche a troppi galantuomini, una sfida al buon senso, una infatuazione, una esagerazione. Sono accuse ripetute anche da educatori che si sentono cristiani, o da genitori peraltro preoccupati della buona riuscita umana dei figli. I giudizi nelle situazioni private e pubbliche, i consigli per ben vivere, gli ammonimenti o i rimproveri, tutto è detto da un punto di vista da cui è totalmente assente la devozione al tutto e la preoccupazione del regno, ed esiliata la realtà di Cristo»23. Possiamo essere di Gs, possiamo aver incontrato Cristo, ma nel momento decisivo delle scelte fondamentali Egli non c’entra nulla. Perciò è drammatico questo momento, soltanto a dirlo mi vengono i brividi; immagino che brividi verranno a voi che dovete scegliere, tanto è contrario a tutta la mentalità in cui siamo immersi.

Capite perché è una lotta? La lotta in noi è tra seguire la voce unica dell’ideale (che sia quella a indicarci la via) o farci inghiottire dalla mentalità del mondo. Se non ci diciamo questo, non siamo amici; io ve lo dico perché vi sono amico, perché la questione è lo scopo della vita, la questione è che cosa stiamo a fare qua. Se noi, in questo momento chiave della decisione, non colleghiamo la scelta della professione a che cosa stiamo a fare qua, ci perdiamo per strada. «“Che cosa il tutto potrà darmi? Come ottenere il più possibile vantaggio dal tutto?”: questi sono i criteri immanenti della saggezza più diffusa e del buon senso più riconosciuto. Invece la mentalità cristiana travolge quelle domande, le contraddice, le mortifica, e rende gigante proprio l’imperativo opposto: “Come io potrò donarmi con quel che sono, servire di più al tutto, al regno, a Cristo?”. Questo è l’unico criterio educativo della personalità umana come l’ha redenta la luce e la forza dello Spirito di Cristo»24.

«Nella scelta del lavoro e della professione deve venire a galla quella terza categoria cui è stato accennato [prima]: i bisogni della società. Ma per il cristiano questi non possono essere un criterio isolato da un altro concetto più profondo: il bisogno della comunità cristiana»25. Allora che significa in fondo questa disponibilità se non prontezza, disponibilità alla vocazione? È questo che dobbiamo chiedere: che il Signore ci dia la grazia di vedere tutti i segni che ci consentano di identificare la vocazione in modo tale da non sbagliare la strada e di renderci disponibili – perché a volte possiamo vederlo con una chiarezza solare e non essere disponibili –.

«La profonda disponibilità di tutta la propria vita nel servizio al tutto è di estrema importanza proprio anche per comprendere quale sia la funzione che si è chiamati a svolgere, quale sia la personale vocazione»26. Perché la vocazione, amici,non è un comando,nessuno vi comanda niente qua, questa mattina, neanche Cristo ha dato un comando; è un suggerimento, un invito, una possibilità intravista, e vi lascia tutta la libertà. Dopo quanto abbiamo detto, tutta la libertà, drammaticamente, è nelle vostre mani.

Incontro di don Julián Carrón con i maturandi di Gioventù Studentesca – Roma, 16 maggio 2010

1 C. Chieffo, «Parsifal (Canzone dell’ideale)», in Canti, Coop. Edit. Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 236.

2 Ivi.

3 C. Chieffo, «Il popolo canta», inCanti, op. cit., p. 238.

4 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 119.

5 R.M.Rilke, «Elegia II», in Liriche, Sansoni, Firenze 1942, v. 42, p. 379.

6 L. Giussani, Intervento alle Vacanze Maturati, Campitello, 28-30 luglio 1964 [Archivio di Cl].

7 At 17,26-27.

8 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 189.

9 San Tommaso d’Aquino,Summa Theologiae, I, 1, 1.

10 L. Giussani, «La vocazione della vita», in Tracce Litterae Communionis, n. 6, giugno 2005, p. 2.

11 L. Giussani, Intervento alle Vacanze Maturati, Campitello, 28-30 luglio 1964 [Archivio di Cl].

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 L. Giussani,«La vocazione della vita», in op. cit.,p.4.

17 Ibidem, p. 2.

18 Ivi.

19 Ivi.

20 Ibidem, pp. 2-3.

21 Ibidem, p. 3.

22 Ibidem, p. 4.

23 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 120.

24 Ibidem, pp. 120-121.

25 L. Giussani, «La vocazione della vita», in op. cit., p. 5.

26 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 121.

 

 

1 Commento

  1. Queste inserzioni sono ottime! Avanti così, bellissima comunità che aiuta a diventare Persone e non Individui!

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