Noa Pothoven.

Trasformare i dubbi in domande [A. Cività]

Sono rimasto turbato da ciò che ieri si leggeva su qualsiasi testata giornalistica […]: “Eutanasia a 17 anni dopo lo stupro”, in Olanda. Una notizia che mi ha fatto ragionare molto, ma inutilmente (tanto ragionamento conduce all’errore) […]

Perché mi ha scosso? […] perché è aberrante pensare che una adolescente decida autonomamente di porre fine alla propria esistenza. Cosa ha spinto Noa Pothoven a chiedere l’eutanasia? “Diverse violenze sessuali a partire dall’età di 11 anni”.

La ragazza aveva dichiarato di “non sopportare più di vivere a causa della sua depressione”. Soffriva di anoressia e di stress post-traumatico. “Non ero viva da troppo tempo, sopravvivevo, ed ora non faccio più neanche quello. Respiro ancora, ma non sono più viva”. 

Non entro nel merito del dramma personale della giovane Noa […] Quello che però mi chiedo è: di fronte ad una simile sofferenza, la morte è davvero la risposta?

Cara Noa, avevi diciassette anni, una vita davanti, una vita donata (da Madre Natura o da Dio o da chi vuoi tu) per essere felice […] l’importante nella vita “non è cadere mai, ma rialzarsi sempre”. Col tuo gesto, l’hai data vinta a chi ha strappato la tua innocenza, la tua infanzia. 

Ma io non ce l’ho con te Noa, lo so che tu sei una vittima innocente. Il tuo unico errore è stato quello di non esplicitare i tuoi dubbi in domande [i dubbi sono domande non esplicitate, che ti logorano dentro] perché nel chiedere, nel chiedere insistentemente il perché del tuo dolore avresti senza dubbio trovato chi quel dolore l’avrebbe accolto, facendolo suo, e che avrebbe iniziato a domandare insieme a te. E come una reazione chimica, quella tua domanda ne avrebbe suscitate altre cento, mille, migliaia. E allora sì che una risposta l’avresti avuta, una risposta che non è convenzionale, che non avrebbe chiarificato il senso del tuo dolore: l’avresti trovata nel volto di quelle persone che avrebbero domandato con te, nel loro sguardo buono – uno sguardo che ti avrebbe insegnato che, aldilà di ogni sofferenza, non sei sola, e che saresti ancora stata capace di amare e di amare la vita, capace di essere felice.

Non credo che la colpa sia tua, amica mia. La colpa è di un sistema malato che ci impedisce di chiedere, che ci costringe a tenerci i nostri dubbi, a nascondere la sofferenza[…]

Credo che il problema del nostro oggi sia un problema di educazione. Ci educano alla morte e non alla vita: ci dicono “non preoccuparti, che se non ce la fai, hai gli strumenti per farla finita” invece di “non preoccuparti, che se non ce la fai, ti aiutiamo noi, non sei solo”. 


Non era libera di decidere [L. Grotti – Tempi]

Noa Pothoven ha davvero «vinto» la sua battaglia, come scrive Repubblica, lasciandosi morire di fame e di sete domenica, nel salotto di casa sua addobbato con palloncini colorati, ad Arnhem, in Olanda? […]

Tutti i giornali hanno scritto che «Noa ha scelto di morire». Ma come sottolineato dallo psichiatra Eugenio Borgna su Repubblica: 

«Noa non era libera di decidere. Con una depressione provocata dalle terribili violenze, non era libera nelle sue scelte. Era prigioniera nelle sue decisioni da una visione della vita frutto della malattia psichiatrica. Le ferite dell’anima sono spesso più profonde e dolorose di quelle del corpo, ma io resto convinto che la psiche si può risollevare. Non sa quanti casi ho avuto di ragazzi che volevano morire, cercavano con ostinazione la fine. Sembrava una decisione netta, lucida, definitiva. Ora è solo un brutto ricordo. Perché dalla depressione si può riuscire a guarire. Soprattutto a 17 anni, quando la vita è ancora all’inizio e le risorse interne ancora forti».

La domanda, come scrive Michela Marzano su Repubblica, è allora un’altra: «C’è stato chi, con Noa, ha provato a capire cosa ci fosse dietro il suo “voglio morire”? C’è stato chi le ha detto “le vieto di farlo”?». Il ministero della Salute olandese, per appurarlo, ha avviato «un’ispezione sanitaria per verificare se è necessario aprire un’indagine» sulla sua morte.

In attesa che tutti i tasselli della vicenda siano messi al loro posto, non ci si può nascondere dietro a un dito. Quando la legge sull’eutanasia è stata introdotta in Olanda, 1.882 persone ne hanno fatto richiesta. In 15 anni le morti sono aumentate del 250 per cento. Il diritto di morire non è riconosciuto solo a chi ha una malattia terminale, ma anche a chi soffre in modo «insopportabile». Dementi e depressi vengono ormai regolarmente soppressi nel nome «dell’empatia, dell’etica e della compassione».

Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere dice di «rinunciare alla tentazione arrogante di giudicare Noa». Ma non è una ragazza afflitta da mali profondi che ci si permette di giudicare, bensì una società che stabilisce candidamente quando una vita è degna di essere vissuta e quando no. Lo ha dichiarato a Tempi la modella tetraplegica neozelandese Claire Freeman, che oggi si batte contro la legalizzazione dell’eutanasia, ma che in passato ha tentato più volte il suicidio e alla quale i medici arrivarono a proporre la “buona morte” in Svizzera per alleviare le sue sofferenze: 

«È sconvolgente come si sono comportati. Avevo appena tentato di suicidarmi e loro, guardandomi, vedevano solo la mia disabilità. Non mi hanno chiesto come andava la mia vita, se lavoravo troppo, se provavo dolore, non hanno cercato di capire o approfondire la mia depressione. Hanno solo pensato: “Soffre, è su una sedia a rotelle: è ovvio che voglia morire”. Loro mi hanno dato la possibilità di scegliere, è vero, e nello stesso istante in cui mi hanno offerto questa possibilità hanno svalutato la mia vita. Ritenevano infatti una vita disabile non degna di essere vissuta. E allora lo pensavo anch’io, perché ero depressa, stufa e arrabbiata. Ma sbagliavo». […]


Una richiesta di aiuto che nessuno ha colto [R. Quaglia – Bussola Quotidiana]

La notizia della morte della diciassettenne Noa ha riaperto la discussione sull’eutanasia; ma il problema vero non è l’eutanasia. Noi abbiamo liquidato la faccenda riducendola a un caso di sofferenza depressiva in seguito a violenza di stupro. Trovata la “causa” ci siamo subito sentiti assolti ed esonerati da qualsiasi riflessione e approfondimento del caso. Ammetto di non sapere molto né della ragazza né delle circostanze, ma sono uno psicologo e so che dietro ogni “desiderio” di morte c’è un impasto affettivo alla cui formazione concorrono molti fattori. Lo stupro è stato probabilmente un elemento importante nel favorire un tale tragico esito, ma non ha deciso – da solo – né la depressione né la morte.

Quale, dunque, il problema? Il problema di Noa è che era il problema di Noa; vale a dire era soltanto suo e di nessun altro. Ora che l’abbiamo commiserata possiamo voltare pagina. Eppure Noa non voleva morire! Lei lo ha comunicato su Instagram, scrivendo: «Voglio arrivare dritta al punto: entro un massimo di dieci giorni morirò». Questa è una richiesta di aiuto, non di morte. Chi vuol morire non annuncia la propria morte, né le persone depresse hanno la “forza” di scrivere o di intrattenere, sia pure virtualmente, rapporti. Dichiarando di voler morire, Noa stava in realtà chiedendo una ragione per continuare a vivere, perché lei, nella sua vita, da sola, non riusciva a trovarla. La ragazza portava dentro di sé un dolore al quale non sapeva dare un significato. Sicuramente si è fatto di tutto per salvarla. Si è ricorso a medici, ad esperti vari, ma il suo male non era nel corpo ma nella mente, una volta chiamata anche anima.

Ora, la mente guarisce quando sente di essere compresa. Capita a tutti di essere in ansia e non riuscire a dormire per un problema, ma poi quando si riesce a parlarne alla persona che dorme accanto a noi improvvisamente ci si addormenta, mentre l’altro/a non dorme più: l’ansia si è come trasferita da una mente all’altra. Quando sentiamo che chi ci ascolta sente quello che noi sentiamo, è allora che si apre una fessura di luce, o di fiducia, nel nostro animo, non ci sentiamo più soli e comincia la nostra guarigione. Comprendere i figli è parte essenziale della funzione genitoriale. Sentirsi compresi vuol dire sentirsi amati.

Gli esperti con le loro pillole, i loro sondini, e le loro cure “tecnologicamente avanzate” non potevano aiutare Noa. Alla fine quale sembra essere stata la risposta data alla ragazza? «Se vuoi morire fai pure! Quello che potevamo e dovevamo fare lo abbiamo fatto. La nostra coscienza ci assolve».

A quanto riferiscono i giornali, «lo stato olandese aveva acconsentito alla sua morte decidendo, in accordo con la famiglia, di non intervenire» e «i suoi genitori hanno accettato la sua scelta» (Giulio Meotti, Il Foglio, 6 giugno 2019). In una parola, come società, ce ne siamo lavati le mani. Questo è il problema vero: la nostra società ha individui esperti in ogni settore professionale, ma non ha più persone affettivamente adulte, vale a dire in grado di “sopportare” la dipendenza dei più giovani, facendosi carico delle loro angosce, delle loro paure, o della loro rabbia.

Noi adulti non siamo più in grado di angosciarci dell’angoscia dell’altro, né di tollerarne l’aggressività, soprattutto qualora l’altro (chiunque egli sia: neonato che piange, figlia anoressica, allievo indisciplinato, ecc.) si trovi in una condizione di dipendenza.

Di fronte al caso di Noa, al suo disperato messaggio, lo Stato ha abdicato al proprio dovere, al suo primo compito: quello di proteggere e di aiutare le nuove generazioni a crescere. Abbiamo ormai Stati composti soltanto di elettori, i quali per i governanti sono numeri e percentuali sicuramente utilizzati, come si augurava Giordano Bruno, per promuovere la “virtù” del popolo.

Per Noa non si è trovato nessuno in grado di “comprendere”, cioè di “prendere con sé” il suo dolore, “soffrendo insieme con lei”? Non c’è stato nessuno capace di intrattenere con lei argomenti di speranza. Quel che è drammatico in una società che ha smarrito il senso tragico della vita è che si continua a celare una vacuità diventata insopportabile dietro un’apparenza di rispetto per l’altro, di tolleranza per ogni originalità, di comprensione per ogni stravaganza, di accoglienza di ogni capriccio dichiarato diritto. Famiglia e società si sono allineate: si concede tutto rispettivamente ai figli e agli elettori “per toglierseli di torno” o “per farseli amici”. La nostra società che vuol essere “corretta” è semplicemente “compiacente”.

In quanto “genitori”, forse noi pensiamo di esser progressisti e moderni, forse ci illudiamo di amare i nostri figli con la nostra permissività, fino a esaudire ogni loro richiesta e ad appoggiare ogni loro scelta, persino la scelta di morire. Nessuno di noi può né deve giudicare i genitori di Noa, ma dobbiamo riconoscere che nessuno ha saputo mostrarle quanto quella scelta fosse, per chi l’amava, dolorosa; forse Noa sarebbe viva se avesse sentito che la sua morte provocava, in chi diceva di amarla, una dolorosa angoscia non inferiore a quella da lei provata. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che nessuno ha provato, in un estremo tentativo di disperazione, di parlare a Noa che forse la vita non finisce con la morte cerebrale, che forse dopo questa vita c’è una vita eterna, che forse c’è Dio.

 

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