
Fabio Lalli – Interferenze
Qualche giorno fa, uno dei miei figli è tornato a casa con un buon voto. Un risultato costruito con impegno e costanza, dopo un inciampo iniziale, ma senza clamore.
Lo ha detto con un tono tranquillo, quasi in transito tra un piatto di pasta e il prepararsi per andare a fare sport.
L’ho guardato, forse anche preso da altro, ho detto “Bravo”, e ho continuato in quello che stavo facendo.
Nessuna pausa. Nessun gesto.
Nessun piccolo rito che segnalasse che quella cosa lì, anche se non straordinaria, aveva comunque un valore.
Ci ho pensato solo dopo, nel silenzio della casa, quando ognuno era tornato alle proprie attività.
Mi sono reso conto che avevo riconosciuto… ma non celebrato.
Che avevo registrato il fatto, ma non l’avevo reso memoria.
Mi sono chiesto: perché non celebriamo?
Forse perché ci sembra superfluo. O troppo solenne.
Forse perché abbiamo paura di sembrare retorici, o poco professionali, o deboli.
O forse — e questa è l’ipotesi che mi pesa di più — ci siamo semplicemente abituati a correre.
A passare oltre. A lasciar scorrere anche le cose buone.
Siamo immersi in una cultura in cui si celebra ciò che si mostra, non ciò che si sente.
Esiste una sovraesposizione della celebrazione mediatica: premi, record, performance.
Ma le conquiste autentiche, quelle silenziose, quotidiane, fatte di costanza o fatica vera, non fanno post, non fanno rumore.
E così passano.
Celebrare è solo un gesto da mettere in vetrina?
Oppure può essere un gesto interiore, privato, persino muto?
Per me, celebrare non è mai stato sinonimo di euforia.
Non servono palloncini, né brindisi. Celebrare è fermarsi un attimo.
Rendere visibile a se stessi, o a chi c’è accanto e ci ha aiutato, che qualcosa è accaduto e che vale la pena notarlo.
È una forma di comprensione.
Una piega nella giornata che dice: questo passaggio non lo voglio attraversare distratto.
Nel lavoro accade lo stesso. Spesso.
Si fanno review per analizzare.
Si fanno retrospettive per correggere.
Ma quante volte ci fermiamo a dire: questa cosa, semplicemente, ha retto?
Nei team osserviamo gli obiettivi, ma dimentichiamo i passaggi intermedi.
Nelle aziende pianifichiamo roadmap, ma non segniamo le tenute invisibili.
E nei progetti personali corriamo al prossimo step…
…ma quando ci riconosciamo il fatto di essere ancora in piedi?
E fuori dal lavoro?
In famiglia, tra amici, nelle relazioni lunghe, chi si prende il tempo di dire:
“Questa cosa che hai fatto, anche se piccola, è bella”?
Non celebriamo abbastanza. Ma a volte basterebbe poco.
La celebrazione è una forma di manutenzione del senso.
Non serve per ingrandire. Serve per fissare.
Serve per non far sbiadire ciò che vale.
È una parentesi che protegge.
Una forma di gratitudine che radica.
Un atto che rende durevole ciò che altrimenti evapora nel flusso.
Non deve essere grande, né visibile.
Ma deve esistere.
Eppure, da sportivo e agonista, da sempre celebro i risultati. Ma ultimamente mi sono accorto di esser meno attento, e ho ricominciato a farci più caso.
Ai piccoli successi, ai passaggi completati, ai risultati che sembrano “normali”. E mi sforzo di non farli passare sotto traccia solo perché non sono titolabili.
Un sorriso in più.
Un “Sei soddisfatto?”
Un abbraccio in ritardo.
Un “me lo ricordo”.
Un “ti voglio bene”.
Una carezza a una cosa ben fatta, anche se nessuno l’ha vista.
Sono quei gesti, microscopici ma intenzionali, a dare continuità a ciò che costruisce la nostra traiettoria.