Don Michael Konrad – Fraternità e Missione
In queste settimane sto rileggendo I fratelli Karamazovdi Dostoevskij. Uno dei temi fondamentali del romanzo è l’importanza dell’amicizia. Vivendo in un monastero Alëša Karamazov, il personaggio centrale del racconto, impara lo sguardo di Cristo sulla realtà e sugli uomini da un anziano starec. Dopo la morte di quest’ultimo, torna nel mondo dove tutti lo cercano e desiderano averlo come amico personale. I due rapporti più significativi si istaurano però con suo fratello Mitja e con un gruppo di ragazzi.
L’amicizia tra Alëša e Mitja ci mostra quanto abbiamo bisogno di amici per poter guardare noi stessi con amore. Mitja, che ha un carattere pieno di contraddizioni, viene a un certo punto incarcerato per aver ucciso suo padre. Subendo tale accusa ingiusta, egli sviluppa in carcere una sete immensa di Dio. Vuole vedere Dio, ma più ancora vuole essere visto da Dio. «Fra mille tormenti: io sono! Al rogo: io sono! Me ne sto attaccato alla colonna, ma esisto, vedo il sole, e se non vedo il sole, so che c’è. E sapere che c’è il sole, è già tutta la vita». Solo se Dio esiste, la vita dell’uomo ha un senso. «Come farà l’uomo ad essere virtuoso senza Dio?» si chiede senza sosta Mitja. Chi potrebbe amare, chi potrebbe ringraziare, se la sua vita fosse esclusivamente frutto del caso?
In questa situazione drammatica, quando quasi tutti lo abbandonano, l’amico vero, Alëša, diventa per Mitja portavoce di Dio. Poche ore prima del processo, osa chiedere a suo fratello se crede che lui abbia ammazzato il padre. Assicurando di non aver mai dubitato un momento della sua innocenza, Alëša “restituisce a Mitja la vita”. Per credere in se stesso, ha infatti bisogno di un amico che guardi la sua vita con uno sguardo benedicente; che lo corregga, se è necessario, ma che anzitutto lo contempli con gli occhi misericordiosi di Dio e lo veda nella sua verità che il mondo ignora. Confortato dalla fiducia dell’amico fratello, Mitja trova le forze per sopportare la difficile prova del processo contro di lui. Penso che anche noi, come Mitja, abbiamo bisogno di amici per poter affermare il valore della nostra vita.
Nell’ultimo capitolo del romanzo Dostoevskij racconta invece il funerale di Iljuša, un bambino spesso deriso e maltrattato dai suoi compagni. Durante le ultime settimane della malattia del ragazzo, Alëša era pian piano riuscito a portare tutti i compagni a riconciliarsi con Iljuša. Dopo il funerale Alëša rivolge un discorso ai ragazzi per spiegare loro l’importanza per la loro vita di questo tempo vissuto sotto la sua guida: «Per quanto possiamo diventare cattivi – che Dio non voglia – quando ricorderemo il giorno in cui abbiamo sepolto Iljuša, come lo abbiamo amato negli ultimi giorni della sua vita e come, in questo momento, ci siamo parlati da amici, allora anche il più cattivo fra di noi non oserà, dentro di sé, ridere di quanto è stato buono e nobile in questo momento! Potrebbe accadere che proprio questo ricordo lo distolga da un grande male ed egli potrà riflettere e dire: “Sì, allora ero buono, coraggioso e onesto”».
Mi piace molto questa chiusura dei Fratelli Karamazov. Nello spazio dell’amicizia possiamo davvero fare esperienza di essere meglio di quanto ci ritenevamo, esperienza che ci conferisce irrimediabilmente un volto nuovo. Scrive von Balthasar: «Ci sono alcuni che aspettano solo uno che li ami, per diventare ciò che avrebbero potuto essere da sempre. È anche possibile che solo l’amante, con questo suo sguardo misterioso e creatore, scopra nell’amato delle possibilità del tutto ignote a colui che le possedeva, e che sarebbero risultate a lui non credibili». Nessuno di noi può diventare se stesso, sviluppare tutte le sue qualità morali e spirituali, senza avere attorno a sé degli amici che credono in lui.