don Ignazio Beghi – Ritiro d’Avvento
Canto: Il seme
Il Signore ha messo un seme
nella terra del mio giardino,
il Signore ha messo un seme
nel profondo del mio mattino.
lo appena me ne sono accorto
sono sceso dal mio balcone
e volevo guardarci dentro
e volevo vedere il seme.
Ma il Signore ha messo il seme
nella terra del mio giardino,
il Signore ha messo il seme
all’inizio del mio cammino.
Io vorrei che fiorisse il seme,
io vorrei che nascesse il fiore,
ma il tempo del germoglio
lo conosce il mio Signore.
Il Signore ha messo un seme
nella terra del mio giardino,
il Signore ha messo un seme
nel profondo del mio mattino.
La bellezza del canto che abbiamo appena ascoltato trovo stia tutta nel verso “Io appena me ne sono accorto sono sceso dal mio balcone”. Non c’è nulla di più desiderabile nella vita di un fatto che ci faccia subito mettere in moto, che ci faccia lasciare la comodità del nostro balcone per scendere giù in strada, nel nostro giardino, a contemplare curiosi l’opera di un altro. Se proviamo a trovare dentro di noi la forza che ci fa alzare dalla stanchezza o dalla tristezza che spesso viviamo, non troviamo nulla che abbia la freschezza di questo: “appena me ne sono accorto sono sceso dal mio balcone”. Non è da dentro di noi che viene l’energia per riprendere in mano la vita ma dall’opera di un altro che pianta un seme, che ci fa una promessa. Il seme è proprio il simbolo per eccellenza di un bene promesso. Bisogna custodirlo e curarlo, ma certo porterà la fioritura e il frutto.
Che grande grazia vivere con la trepidazione decritta dal canto: “Io vorrei che fiorisse il seme, io vorrei che nascesse il fiore”. Non uno scorrere anonimo del tempo, ma un’attesa vigile e attenta di qualcosa che ora è piccolo e discreto, ma che sta crescendo verso una bellezza e una fecondità che ancora non conosciamo. Solo l’opera di altro può ridestare in noi una vita così fresca e densa, attenta e ricca. Solo se qualcuno pone nella nostra vita una promessa grande, affidabile, allora siamo tirati fuori dal groviglio dei nostri pensieri e ricominciamo a guardare al mondo e a noi stessi con gratitudine e stupore. Questo è vivere un’attesa.
Domani, con la prima domenica di Avvento, inizia un nuovo anno liturgico. E, come ogni anno, ricomincia proprio dall’Avvento. Il primo gesto che la Chiesa propone a tutti i cristiani per iniziare un nuovo anno è vivere queste quattro settimane di attesa per il Natale del Signore. L’anno della Chiesa non riparte subito dalla nascita di Gesù, ma da un’attesa. Ogni anno la Chiesa ci chiede di vivere un tempo il cui contenuto sia la sola attesa di Gesù che sta per venire. Con questa semplice indicazione, siamo invitati a riscoprire il valore dell’attesa come dimensione essenziale della vita umana.
Come la Quaresima ci insegna che la conversione è un’esigenza così essenziale per la nostra vita da dedicare alla penitenza i quaranta giorni che precederono la Pasqua, così l’Avvento ci suggerisce che una vita senza attesa non è una vita umana.
Una vita in cui non si attende niente, nella quale non si spera nulla dall’avvenire, è una vita nella quale lo scorrere del tempo non ha alcun senso. Se il tempo scorresse senza essere vivificato da nessuna attesa, che senso avrebbe il passare dei giorni? Una vita dove il tempo passa senza scopo è una vita sprecata. La Chiesa ci educa a dare consistenza al tempo insegnandoci a riempirlo di attesa. Non un’attesa qualsiasi, un’attesa generica e vuota che il domani sia migliore dell’oggi. Al contrario, essa è l’attesa precisa della venuta di Gesù. Cioè, l’attesa dell’incontro con Lui. La Chiesa ci educa a dare al nostro tempo la forma dell’attesa di Cristo.
Quest’anno, però, non attendiamo solo la nascita di Gesù. La notte di Natale, il papa aprirà la Porta Santa della Basilica di San Pietro dando inizio al Giubileo della Speranza. Vediamo di nuovo che l’attesa alla quale la Chiesa ci invita non è generica. È invece l’attesa precisa del compiersi di una promessa. Quest’attesa di una promessa che si compie è il primo significa che Gesù dà alla sua stessa venuta nel mondo.
Nel Vangelo secondo Luca viene descritta la prima volta che Gesù prende la parola davanti al popolo d’Israele. La scena si colloca subito dopo le tentazioni che Gesù affronta e vince nel deserto. È proprio l’inizio della sua vita pubblica:
Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. (Lc 4, 16-21)
Gesù, per farsi conoscere dagli uomini, per far capire al suo popolo chi lui fosse veramente, si colloca dentro le promesse che Dio aveva fatto al suo popolo. Il luogo prediletto da Gesù per farsi riconoscere è proprio un’attesa. Se il popolo non avesse vissuto un’attesa viva del compimento di queste parole che Dio aveva consegnato loro per mezzo del profeta Isaia, non avrebbe nemmeno potuto riconoscere che Gesù era proprio il compimento di quelle promesse.
Proviamo a figurarci con più precisone come si è svolta la scena così come l’evangelista la narra. Luca usa molti verbi in questo brevissimo racconto: “entrò nella sinagoga”, “prese il rotolo”, “lo aprì”, “trovò il passo”. Soprattutto alla fine: “riavvolse il rotolo”, “lo riconsegnò” e “sedette”. C’è come un’enfasi teatrale sulle azioni di Gesù. In effetti, il tutto sembra svolgersi secondo una grande sapienza da regista. Gesù parla al popolo di una promessa, di un’attesa, e subito trova il modo di far vivere alla folla radunatasi nella sinagoga un’esperienza di attesa. Con gesti chiari e solenni Gesù sale a leggere la Scrittura poi, nel silenzio teso e attento che segue la proclamazione della parola di Dio, tace. E allora avviene che gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Nessuno consce il cuore dell’uomo come Gesù e lui sa bene che le persone davanti a lui se non attendono nulla, non si renderanno conto della portata di quello che sta per dire e le parole che vuole annunciare sono di grande importanza.
La Chiesa fa lo stesso con noi, sospende tutto e si dispone solo ad attendere Gesù che nasce. Cambiano i colori delle vesti liturgiche, si cambiano i canti, si accendono le candele per la corona di Avvento. Tutto diventa un’attesa di qualcosa di grande. La Liturgia vive di questa sapienza da maestro di Cristo. Gesù, nascendo come uomo, ha saputo usare tutto ciò che è umano: il nostro pensiero, la nostra immaginazione, i nostri sensi, i nostri sentimenti, ha usato tutto per farsi conoscere e riconoscere. Una sapienza che trasforma sempre in esperienza concreta quello che viene annunciato. È la stessa cosa che la Chiesa fa con la liturgia.
Questo brano dell’inizio della vita di Gesù – insieme a tanti altri nei quali il Signore rimprovera sia i dottori del popolo sia i propri discepoli per l’ottusità e la trascuratezza con la quale hanno vissuto l’attesa per il compimento delle promesse di Dio – questo brano, dicevamo, ci mostra quanto Gesù desideri incontrare un cuore che attende.
Non è un miracolo o un segno grandioso quello che Gesù propone alla gente che ha davanti ma piuttosto il compiersi di una promessa. La promessa di cui il popolo stava attendendo, o avrebbe dovuto attendere, il compimento è descritta con precisone dalle parole del profeta Isaia: mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio […] a proclamare l’anno di grazia del Signore. Che cosa è l’anno di grazia di cui parla il profeta, l’anno nel quale il Signore viene: a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi (Is 61,1), di che anno sta parlando? Del Giubileo.
Gesù descrive la sua venuta nel mondo come il compiersi del vero e definitivo Giubileo. Proviamo allora a capire cosa sia questo Giubileo, cosa capivano le persone che ascoltavano Gesù quando lo sentivano pronunciare queste parole, cosa intendevano per Giubileo e quindi come noi, oggi, dobbiamo intendere il fatto che la venuta di Gesù è il vero Giubileo.
Il Giubileo cui Gesù si riferisce è descritto nel Libro del Levitico. Questo libro della Bibbia è molto particolare, contiene tutte le norme che regolano la vita di Israele, le leggi che Dio ha dato al suo popolo sul Sinai durante l’Esodo. Lo scopo di queste norme è disegnare una vita che sia espressione della libertà ricevuta in dono da Dio con la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. La liberazione dalla schiavitù è l’evento che definisce il volto del popolo dell’Alleanza. Israele è un popolo di liberati, sono i liberati del Signore. Nulla sulla terra dovrebbe togliere loro questa libertà che hanno ricevuto in dono da Dio.
Se leggiamo il Levitico, troviamo questa descrizione del Giubileo:
Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; [corno, in ebraico, si dice yobel, da qui dovrebbe venire il temine “giubileo”] nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia.
Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mieti-tura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangia-re il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà. (Lv 25, 8-13)
Ci sono tre aspetti che caratterizzano il Giubileo. Il primo riguarda il rapporto con la terra, cioè con le cose del mondo. In quell’anno non si semina e non si miete, non si lavora, si lascia che la terra torni incolta prima di rimetterci mano. In questo modo, l’uomo fa esperienza che la terra, ciò di cui vive, è un dono che riceve continuamente da Dio. Anche a livello espressivo, dopo un anno in cui i campi solo lasciati senza cura, è come se l’uomo li ricevesse nuovi. È il segno di una realtà che viene donata nuova, con la freschezza della nuova Creazione.
Il secondo aspetto riguarda i rapporti tra le persone. Ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia significa che se qualcuno era stato costretto a vendere sé stesso o i propri famigliari come schiavi per saldare debiti, quell’anno non solo i debiti ancora da pagare venivano condonati ma anche la libertà già barattata veniva restituita. In un popolo di liberati dal Signore, la schiavitù non può aver posto. Se anche si insinuerà per le vicende non sempre lineari della vita, alla fine verrà sempre periodicamente cancellata. È il segno che i rapporti tra gli uomini vengono ricostruiti, ristabiliti così come erano all’origine. Colui che fino a ieri era il tuo padrone, da oggi è di nuovo tuo fratello; il debitore non teme più creditore; l’accusato e l’accusatore non han-no più bisogno di litigare. In questo anno di grazia, vengo restituiti l’uno all’altro come fratelli: sono tutti liberati dal Signore, nessun altro è il padrone delle loro vite.
Soffermiamoci un istante su questi primi due elementi. Col Giubileo, la realtà viene restituita all’uomo con la sorpresa e la gratitudine del dono, come se la Creazione si rinnovasse e il mondo venisse guardato come appena uscito dalle mani del Creatore. Quest’esperienza di una realtà nuova è tutta definita dalla consapevolezza che essa è un dono. Non è tanto la novità in quanto tale che il Giubileo vuole esprimere ma la gratitudine per un dono che ogni giorno Dio fa all’uomo. Tutto ciò che esiste è creato e donato ora, nell’eterno presente di Dio. Ma è così difficile guardare al mondo con questo sguardo libero e grato che diventa necessario istituire un rito, il Giubileo appunto, perché si impari sempre di nuovo a godere della realtà come dono.
Quando è stata la prima volta che Israele ha guardato il mondo intorno a sé con questo stupore colmo di gratitudine? L’abbiamo accento prima, il Giubileo è il rito col quale, in ogni generazione – i 50 anni che intercorrono tra una ricorrenza e la successiva – Israele fa memoria dell’Esodo. Proviamo a immaginare il popolo che si raduna sulla spiaggia del Mar Rosso dopo la miracolosa traversata all’asciutto tra le due pareti d’acqua. Appena l’ultimo carro è ormai al sicuro, il mare si richiude travolgendo l’esercito del faraone. Il nemico è annientato e l’impenetrabile massa dell’abisso d’acqua separa orami definitivamente il popolo dagli egiziani. Dopo giorni di paura, fatica, la partenza nella notte, la fuga nel deserto inseguiti dai carri egiziani; in quest’alba Israele si sveglia e non è più in pericolo. È libero, nulla lo più minacciare. È definitivamente libero.
Alla luce di quell’alba, la terra che a poco a poco andava emergendo dall’oscurità della notte ormai passata, sarà apparsa al popolo d’Israele come se la guardasse per la prima. Conoscevano il mondo, certamente, era la stessa terra di sempre, ma ora erano liberi. Dio li aveva appena liberati e stava preparando per loro una Terra Promessa. Tutto era nuovo perché tutto era un dono appena ricevuto. La celebrazione del Giubileo voleva restituire a tutto il popolo questo sentimento, questo giudizio, o meglio questo giudizio che diventava anche sentimento delle cose. Esse sono un dono di Dio, sono nuove, tutte nuove, sempre nuove, perché ogni giorno ci vengono donate da Dio.
Come questo è possibile? Come può l’uomo riguadagnare questo possesso vero e quindi libero del mondo che lo circonda? Non certo con le proprie sole forze. E infatti il Giubileo è un atto liturgico. È, nel linguaggio ebraico, un memoriale. È la stessa parola che usiamo anche noi cristiani per descrivere una dimensione dei sacramenti. Ciò di cui si fa memoria è la liberazione che Dio ha operato con l’Esodo. Ma le opere di Dio sono stabili come la sua volontà che le compie. Sono atti che non passano perché li ha compiuti Colui che è eterno e onnipotente. La salvezza che Dio ha operato non è un fatto del passato ma è la natura del rapporto tra il Signore e il suo popolo. È un presente stabile, stabilito per sempre. Israele ha semplicemente bisogno di far memoria di questa salvezza già accaduta e sempre operante nella storia per gustarne di nuovo i frutti.
Perché tutto ciò è così importante? Perché la salvezza non è mai qualcosa che può venire semplicemente dall’iniziativa dell’uomo. Se così fosse, il Giubileo sarebbe, nella migliore delle ipotesi, una sorta di rivoluzione voluta e imposta da alcuni e subita da altri. Gli aspetti sociali ed economici che il Giubileo comportava nella vita del popolo erano senz’altro dei cambiamenti esteriori di alcune condizioni di proprietà ma questi cambianti sarebbero solo l’esito di un atto di forza, imposto dall’autorità politica, se non fossero il frutto dell’opera di Dio.
Se il Giubileo non si fondasse sulla memoria dell’Esodo, se non fosse un atto liturgico nel quale tutto il popolo fa memoria di un’iniziativa divina che viene prima di tutto, che fa sorgere il popolo stesso liberandolo dalla schiavitù, non sarebbe che un atto violento. La società perfetta tra gli uomini, quest’utopia inseguita per secoli dall’umanità, ha sempre avuto questo esito di tragica imposizione violenta quando non ha voluto riconoscere che la pace tra gli uomini è possibile solo quando gli uomini sono in pace con Dio. Cioè, quando riconoscono che tutto ciò che sono e possiedono viene da Dio come dono. In altri termini, se non si parte dalla verità di un Dio creatore e salvatore, è impossibile raggiungere la verità sull’uomo.
Infatti, anche solo immaginare di poter guadagnare uno sguardo nuovo e libero sulle cose e sul mondo con le nostre sole forze ci appare difficile, ma se guardiamo ai rapporti comprendiamo bene che è impossibile. La seconda caratteristica del Giubilo che abbiamo osservato, la restituzione di tutti i rapporti alla fraternità che Dio ha voluto quando ha chiamato tutti a libertà salvando il popolo dalla schiavitù, ci mette sotto gli occhi la nostra incapacità a salvare ciò che in fondo abbiamo di più caro: i rapporti con le persone cui vogliamo bene.
Questo è un grande paradosso, o meglio, un grande mistero. Se il problema che più ci affligge è proprio quello di vivere insieme agli altri in modo umano, apparentemente la soluzione sarebbe a portata di mano. Basta che ci accordiamo su come vogliamo vivere, che troviamo un modo per risolvere i conflitti, che decidiamo come regolarci nei rapporti. Se tutto fosse così facile, non vedremmo quello che ogni giorno ci mostrano giornali e notiziari sul mondo. Ma non è appena la guerra, o meglio le moltissime guerre e miserie, che piagano l’umanità che ci mostrano la nostra impotenza. Pensiamo al vicino di casa con cui abbiamo litigato per una sciocchezza; all’amico da cui ci sentiamo traditi che non riuscimmo più a guardare in faccia; la sorella o il fratello che non sono mai d’accordo su nulla; al padre o al figlio che non riescono più a trovare le parole per ricostruire un rapporto. Non serve guardare lontano per vedere che il male che rode i nostri rapporti viene da molto vicino, da dentro di noi.
L’esperienza del Giubileo, l’esperienza del condono e del perdono che restituisce gli uomini gli uni agli altri come fratelli, non è un’iniziativa umana. È l’agire di Dio che libera ciascuno dal proprio male e restituisce quella altrimenti impensabile possibilità di amare. È questo il terzo aspetto caratteristico del Giubileo biblico. Più che un aspetto ne è il cuore, il centro, il significato. Il Levitico è un testo normativo, prescrive le leggi che il popolo deve osservare per vivere in quella comunione con Dio che è l’Alleanza stabilita sul Sinai. Ma il cuore dell’uomo non cambia per una legge, non può essere prescritto un cambiamento intimo del proprio cuore perché non è qualcosa che un uomo possa fare da sé. Quello che viene prescritto è invece un culto, un atto liturgico, la celebrazione del Giubileo. Come ogni liturgia, esso vuole esprimere la novità che Dio introduce nella vita di ciascuno attraverso alcuni gesti particolari che sono espressivi di questa novità e allo stesso tempo lascia al centro non l’agire dell’uomo ma il memoriale di ciò che Dio ha operato e sempre di nuova opera.
Tutto ciò ci riporta al Vangelo di Luca. Cominciamo a capire perché Gesù an-nuncia, con la sua venuta, l’inaugurarsi dell’Anno di Grazia vero e definitivo. Tutta quest’esperienza di novità e recupero nella sua verità originaria della realtà e dei rapporti ha il suo centro in una grande esperienza di liberazione. Esperienza che la Bibbia esprime con l’immagine dell’acqua. Il mare che travolge e distrugge definitivamente l’esercito del faraone garantendo una libertà sicura e duratura al popolo di Israele, richiama le acque del Diluvio universale con le quali Dio aveva annientato tutti i malvagi dalla terra per permettere a Noè e alla sua stirpe di ricominciare una nuova vita in un mondo rinnovato perché purificato. Allo stesso tempo, le acque del Mar Rosso prefigurano le acque del Battesimo che scaturirà come sorgente eterna di perdono dal costa-to di Cristo aperto sulla Croce.
Ecco che tutto il cuore dell’anno Giubilare israelitico si ritrova nel cuore stesso di Cristo, in quella sorgente di perdono che Gesù non vede l’ora di aprire per permettere ad ogni uomo di rinascere alla fonte della sua Misericordia. E sarà proprio il sempre più urgente e acuto riconoscimento che solo il perdono di Dio può permettere all’uomo di ricominciare, sia come singola persona sia come società, a portare ad affermarsi nella Chiesa la celebrazione del Giubileo.
In effetti, ci è voluto più di un millennio di storia cristiana prima che si rendesse chiara la necessità e la possibilità di celebrare un Giubileo anche nella vita della Chiesa. Il precedente più prossimo al primo grande Giubileo indetto da papa Bonifacio VII per l’anno 1300 è la Perdonanza dell’Aquila voluta da papa Celestino V nel 1294. Questa speciale indulgenza che papa Celestino V volle concedere a tutti coloro che fossero entrati nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila tra la sera del 28 e la sera del 29 agosto ha un significato particolare. Non è ancora un Giubileo vero e proprio ma la concessione di un perdono particolare, un’indulgenza per tutti i peccati commessi dal Battesimo fino a quel momento per chiunque fosse entrano nella Basilica e si fosse sinceramente confessato e comunicato. Come possiamo vedere, il Giubileo di Bonifacio VIII non farà altro che estendere questo privilegio a tutti i giorni di un anno mettendo come condizione il pellegrinaggio a Roma sulla tomba degli Apostoli.
Cosa rende così particolare la Perdonanza dell’Aquila? Se guardiamo all’epoca in cui fu istituita, tra fine del ‘200 e l’inizio del ‘300 troviamo un momento di grande ricchezza e benessere in tutta l’Italia. A detta di molti storici, il 200 fu il secolo più splendente che la nostra nazione abbia mai avuto. Basta pensare che proprio in quegli anni veniva composta da Dante il capolavoro della Commedia. Ma sono molte le testimonianze artistiche che ci raccontano un’epoca segnata non solo da una singolare ricchezza ma anche da grande apertura e creatività umana e spirituale. Eppure, quegli anni furono anche segnati da lotte senza fine tra comuni italiani, tra i principi e la Chiesa, tra i sovrani e imperatori d’Europa tra loro e contro il Papa. La stessa elezione di Celestino di Celestino V, un monaco eremita ultra ottantenne dopo un conclave durato mesi, ci trasmette l’idea di una Chiesa incastrata in giochi di potere che non riesce neanche a mettersi d’accordo su quale Papa eleggere. Insomma, un contrasto molto forte tra una ricchezza sempre più vasta e ostentata, da una parte, e dall’altra divisioni e conflitti che scavavano sempre più a fondo sembrando sempre più insanabili.
Non è uno scenario molto diverso da quello che vediamo anche oggi, forse perché non è molto diverso da quello che è un mondo assoggettato alle sole logiche umane. C’è un’ingiustizia e una malvagità che segna i nostri rapporti, quello che la Chiesa chiama Peccato originale, dalla quale non riusciamo a liberarci da soli. Ecco la grande intuizione di Celestino V, per ricostruire i rapporti tra gli uomini, la cosa più urgente non è un accordo politico o un patto sociale, ma un intervento di Dio, il dono del suo perdono. Nelle circostanze sconfortanti nella quali può ritrovarsi la nostra storia personale o quella del mondo, non c’è, infondo altra speranza se non che Dio intervenga. Nessuno tra le guerre e le crisi pensa al perdono di Dio come al bene più urgente. In un certo senso, è perfettamente sensato. In fondo, è impossibile pretendere il perdono da Dio, non sarebbe più un’opera sua ma sarebbe qualcosa di immaginato alle nostre condizioni. Invece, ciò che ci serve è proprio la sua libera iniziativa e non il nostro ennesimo tentativo di salvarci da soli.
È questa, in fondo, la gioia dell’Avvento, in qualunque condizione ci troviamo ora, se siamo attenti alla nostra situazione, ci accorgiamo che abbiamo bisogno che qualcuno dall’alto venga a salvarci. Ma Lui è già venuto, è già nato, è già all’opera nella storia. È una speranza vera la nostra perché si basa sulla certezza che Lui è già venuto. Ma se non lo attendiamo, se il nostro cuore non ha la semplicità magnifica di Celestino V che riconosce con umiltà come l’unico vero cambiamento nel mondo può venire solo da Dio, non ci accorgeremo nemmeno della sua nascita.
Quello che il Giubileo celebra è dunque, innanzitutto, una salvezza già accaduta. Il Giubileo serve a fare memoria di una possibilità nuova di guardare al mondo, agli altri e a sé stessi che Dio ha già portato nella storia. Un cambiamento e una novità che Gesù, nascendo, ha già reso possibile nella storia del mondo e quindi nella nostra storia personale.
Come allora la Chiesa ha declinato ed espresso la celebrazione del Giubileo? Se è vero che esso prende forma dal Giubileo biblico che abbiamo osservato poco fa, essa ha anche dato all’Anno santo un significato nuovo perché ha portato a compimento quanto nel Giubileo antico era solo preannunciato. Ci sono tre grandi gesti che la Chiesa indica per vivere il Giubileo: il pellegrinaggio sulle tombe degli Apostoli, l’acquisto delle indulgenze, la confessione sacramentale. Proviamo a vedere più da vicino che significato proprio hanno questi gesti.
Il gesto che più caratterizza il Giubileo è senz’alto il pellegrinaggio a Roma sulle tombe degli Apostoli. Mettersi in cammino verso una meta precisa è un gesto che esprime molte dimensioni dell’uomo, concertiamoci su quelle che derivano dall’essere un pellegrinaggio giubilare. Innanzitutto, ci si mette in cammino verso Roma perché qualcuno ci attende. La certezza del perdono che ci viene offerto, sapere che un amore indistruttibile mi attende, mi mette in moto. È questa certezza che fa partire il mio cammino, la mia risposta. E che tipo di risposta è il cammino del pellegrinaggio? Il significato che ha sempre assunto, e tutt’ora conserva, è la penitenza. Davanti al perdono che mi viene offerto sono finalmente libero di guardare al mio male senza il timore che i miei peccati mi schiaccino definitivamente. È questa libertà che deriva dalla certezza del perdono promesso che permette la penitenza, cioè la strada umile e semplice per iniziare a cambiare la mia vita.
Chi ha fatto l’esperienza di un pellegrinaggio a piedi di qualche giorno ha certamente sperimentato una progressiva essenzializzazione durante il cammino. Dopo alcune decine di chilometri, tante cianfrusaglie nello zaino si rivela-no come peso inutile e si comincia a liberarsene. L’aiuto dei compagni di cammino si rende sempre più necessario e allora antipatia o screzi vanno naturalmente in secondo piano. A poco a poco emerge con chiarezza quello che è il vero motivo del cammino: andare alla ricerca di ciò che conta davvero, dell’essenziale. Altri motivi perdono nel tempo il loro peso e con essi anche tante preoccupazioni vengono ridimensionate. Il cammino del pellegrino diventa così l’esperienza concreta di quella essenzializzazione a ciò che conta davvero che sta sperimentando la sua anima. La penitenza non ha altro scopo che far emergere con forza ai nostri occhi e al nostro cuore ciò che conta veramente.
In un certo senso, quel senso di stupore per una realtà donata di nuovo come creata per me, in questo istante, è ciò che un pellegrinaggio può offrire a chi intraprende la strada almeno desiderando di mettersi in cammino verso ciò che conta davvero. Il gesto del pellegrinaggio è quindi una strada semplice e concreta che la Chiesa ci indica per dare seguito al desiderio di cambiamento che sorge in noi dalla promessa di perdono, il desiderio che la vita sia alleggerita da tante cose e preoccupazioni secondarie per trovare il suo vero gusto nella ricerca di ciò che conta davvero.
La seconda dimensione che caratterizza il Giubileo è la possibilità di ottenere un’indulgenza, per noi o per i nostri cari defunti. È certamente uno degli aspetti più suggestivi ma anche più misteriosi della grazia del Giubileo. Guardiamo più da vicino il suo significato. Quando commento il male mi sto sempre, più o meno consapevolmente, allontanando da Cristo. Questa lontananza non è mai senza effetti perché ferisce il rapporto tra me e Lui e un rapporto ferito non può mai ripartire unilateralmente per mia iniziativa. Solo Gesù, con la sua grazie che liberamente mi concede, può far si che quel male non sia un ostacolo definitivo al rapporto tra noi. in altre parole, è chiaro che la remissione dei peccati avviene unicamente in forza della grazia di Cristo e di niente altro.
C’è però un altro aspetto, il male che ho compiuto pesa sulla mia esperienza di uomo con i suoi effetti personali e sociali. Pensiamo alla menzogna. Se comincio a dire una piccola bugia per coprire qualcosa che ho fatto, presto dovrò dirne una più grande per non tradirmi. E così, in breve, mi troverò impigliato in una rete di menzogne. L’ira funziona allo stesso modo, se comincio a sfogare rabbia o violenza contro l’altro presto sarò intrappolato nel ricatto della vendetta e del risentimento. Il peccato costruisce questa gabbia intorno alla mia vita, per questo si parla di schiavitù del peccato. Ecco, tutti questi effetti non sono cancellati con il perdono di Cristo. Sono entrati nella nostra realtà di uomini ed ora pesano, rodono da dentro tante situazioni che ci troviamo a vivere.
La grazia dell’indulgenza entra proprio a questo a livello, ed è qui il mistero. Come può la Chiesa intervenire su un dato del tutto personale, il superamento esistenziale della mia colpa? La Chiesa risponde che essa può attingere ad un tesoro inesauribile che sono i meriti di Cristo e dei santi e così “garantire la copertura dei nostri debiti”. Nel mondo non c’è solo tanto male, ma anche e soprattutto una sovrabbondanza di bene, di santità, che spesso è nascosta ma non per questo è meno reale. La Chiesa ci invita innanzitutto a guardare questa verità: non esiste un male più grande dell’amore di Cristo. Nessuna condizione personale, per quanto tragica o disperata, può ostacolare il desiderio di Gesù di venirmi a salvare.
Allo stesso tempo ci invita a guardare in modo nuovo il valore che ciascuno ha agli occhi degli altri: la mia personale salvezza dipende anche dalla tua santità così la mia santità può essere un aiuto reale al compimento della tua vita. Solo Cristo dona questa comunione profonda tra le membra del suo corpo, la Chiesa. Nel grembo della Chiesa facciamo esperienza che la salvezza non può che venire dall’amore infinto e indistruttibile di Cristo, ma questo suo amore ci apre gli uni agli altri, rinnova i rapporti tra di noi, ci fa scoprire di nuovo figli amati di Dio e quindi fratelli tra di noi.
Tutto ciò ci porta al gesto forse più importante del Giubileo, così importante e centrale che ci viene donato anche per ogni giorno della vita: la Confessione. Con tutto quello che abbiamo detto, sarebbe forse solo una ripetizione sottolineare come la grazia del perdono, che ci ridona uno sguardo e un rapporto nuovo col mondo e con gli altri, non può che venire dallo sguardo di Cristo su di noi che ci restituisce alla nostra vera natura di figli amati del Padre, di figli perdonati. Per questo vorrei fare solo un’osservazione. L’esperienza del perdono è il centro del Giubileo, implicitamente lo era già nell’Antico Testamento mentre con Cristo il perdono offerto sulla Croce si spalanca a tutti gli uomini di tutte le epoche.
Se tutto ciò rimane solo conoscenza, una dottrina vera ma semplicemente saputa, non cambierà mai la nostra vita. La confessione è la grazia che Cristo ci dona, nella Chiesa, di fare esperienza del suo perdono, il perdono che Lui vuole rivolgere direttamene e personalmente a me, non per i peccati ma per i miei peccati, non per il male ma per il mio male.
L’esperienza straordinaria e commovente dei tanti peccatori che incontriamo nei vangeli è offerta a noi, oggi, nel confessionale. Ciò che stupisce nel perdono che Gesù concede non è innanzitutto la potenza della sua divinità che cancella il male. Non aveva bisogno di farsi uomo affinché la sua onnipotente divinità cancellasse i nostri peccati. Lui ha voluto che gli uomini e le donne che lo incontravano facessero esperienza del suo cuore umano commosso e ferito dal male. Dall’adultera al ladrone sulla croce, dal ragazzo indemoniato alla morte di Lazzaro: ogni volta che Gesù è venuto in contatto col male ha esposto il suo cuor umano a lasciarsi ferire dal dolore delle persone che aveva davanti. E come sappiamo dalla Croce, dal suo cuore ferito non sgorga altro che perdono e redenzione.
Tutto il male che tocca il cuore umano di Gesù fa scaturire una sorgente inesauribile di perdono. È questa la nostra certezza. È così importante per Gesù che un cuore si lasci ferire dal male per donare il suo perdono che chiede in prestito ai suoi sacerdoti il loro cuore umano così da soffrire in esso e con esso e alla fine concedere il suo perdono. Questo desiderio di Cristo di farsi prossimo al mio male, di soffrirlo su di sé personalmente per annullarne il potere, è l’esperienza che mi è offerta nella confessione. In questo mirabile sacramento facciamo esperienza del perdono, cioè della Misericordia ma la Misericordia è il volto di Dio nella storia, cioè il volto di Gesù. È lì che facciamo esperienza, conosciamo di più, chi è Gesù. La grande certezza è che nessun male che raggiunge il cuore di Cristo può sopravvivere. Il Giubileo sia per noi l’esperienza di affidare al cuore di Cristo tutto il nostro male perché Lui lo distrugga col suo perdono.
Per un usare un’ultima immagine, il Giubileo richiama anche al fatto che alla fine dovremo rendere conto della nostra vita, ci mette davanti alla verità che alla fine della storia ci sarà il Giudizio di Dio. In quel giudizio, non saremo da soli davanti al Giudice ma Cristo, che ha dato la vita per noi, sarà il nostro avvocato. Non ha senso nascondere al nostro avvocato i nostri delitti, quanto meglio li conosce, tanto meglio potrà difenderci. L’unica cosa che dobbiamo temere quel giorno è di essere accusati di un male che non abbiamo confidato a Lui. Quel giorno non vogliamo che Cristo si rivolga noi dicendo: “Perché non me lo hai confidato? Ti avrei salvato anche da questa accusa”. Ma sarà un giudizio molto particolare, perché Cristo sarà il nostro avvocato, ma anche il nostro giudice. Farà di tutto per salvarci. Il Giubileo sia questo affidarsi pieno di fiducia a Cristo che vuole donarci il suo perdono quel perdono che solo può dare fondamento alla nostra speranza. Il perdono che rende nuove tutte le cose.