Annalisa Teggi – Presenta “La Sorpresa” di G. K. Chesterton
Partecipando a una riunione nella scuola materna di mio figlio ho scoperto che di recente si sta rivalutando e valorizzando l’outdoor education, l’educazione all’aperto.
In sintesi, i pediatri e i pedagogisti si sono accorti che fuori dalle ristrette aule scolastiche il bambino sta meglio e apprende di più; e si suggerisce, dunque, alle scuole di incentivare, anche in situazioni climatiche non perfette, le attività all’aperto. Cosa accade all’aperto? I bambini hanno l’opportunità di fare esperienze concrete, che li coinvolgono singolarmente, ma stimolano anche l’aggregazione in gruppi di interesse; la natura fornisce spontaneamente occasioni didattiche (si studia l’ombra, la caduta degli oggetti, si contano le foglie); gli spazi ampi favoriscono l’attività motoria e riducono il rischio di obesità; infine, stare all’aria aperta riduce la possibilità di contrarre i virus, che invece proliferano al chiuso. Fantastico.
Ebbene, a qualcuno verrebbe da pensare che, forse, questa sia un po’ come la scoperta dell’acqua calda, visto che i nostri nonni, senza esimi studiosi alle spalle, hanno conosciuto poche aule scolastiche, ma – almeno i miei – hanno conosciuto molti campi. Lo stesso Giovannino Guareschi ricorda nella sua autobiografia che, da piccolo, sua madre lo metteva fuori dall’uscio di casa la mattina presto con un tozzo di pane in mano e vestito di una tunichetta senza mutandine, cosicché fosse libero di espletare in assoluta comodità i suoi bisogni durante la sua giornata all’aria aperta.
A essere onesti, più che una scoperta banale, quella della outdoor education è una scoperta originale; è la nostra origine. Il brevetto appartiene al nostro Creatore. Lui ci ha letteralmente sbattuti fuori dalla sua testa: ha preferito per noi il campo aperto di un mondo libero, piuttosto che lo scrigno bellissimo e perfetto della sua Idea. La Sorpresa che Chesterton ci consegna tra le mani è il sorprendente atto d’amore che sta all’origine della Creazione e che sussiste tutto nel paradosso della lontananza: per amare qualcosa, devo vederla nella sua interezza e quindi allontanarla da me.
Meno possiedo una persona, più la amo. Lo capisce anche un semplice burattinaio, come l’Autore protagonista, il quale conosce intimamente tutti i pupazzi che ha costruito, eppure questa specie di conoscenza non gli basta, li vuole vedere «essere» al di fuori del racconto che ha creato per loro. Lo capisce anche un semplice burattinaio, ma a dire in vero non è così scontato comprenderlo.
Il perfetto alter ego di questa commedia (cioè il libro che sarebbe bello leggere insieme a quest’opera teatrale di Chesterton) è il famoso capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein: è il testo che più di ogni altro esplora un’idea di Creazione come atto volitivo ed egoistico. Il dottor Victor Frankenstein, a differenza del burattinaio- Autore di Sorpresa, desidera infondere la vita a una creatura umana per uno scopo molto chiaro e tutt’altro che generoso: «Una nuova specie mi avrebbe venerato come suo creatore e sorgente di vita; molti esseri perfetti e felici avrebbero dovuto a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe potuto aspettarsi una devozione così totale dalla propria prole quale io avrei meritato dalla mia». Sarebbe possibile attribuire questo medesimo pensiero a una divinità creatrice: Dio creò l’uomo per essere amato e riverito da una specie mortale che doveva a Lui la sua esistenza.
Plausibile; eppure quest’ipotesi si riduce a un progetto meschino e infinitamente meno esaltante se paragonato a quel che, invece, scintilla nel desiderio del burattinaio – Autore di Chesterton: «Questa gente merita di essere viva; essi sono tutto, tranne che vivi. Sono intelligenti, complicati, combattivi, brillanti; traboccano di vita eppure non sono vivi. […] Io vedo questa gente dal di dentro, le loro molte sfaccettature, le loro potenzialità; mi rendo conto che sarebbero capaci di figurare in centinaia di trame e commedie. I segreti di ciascuno mi sono familiari, eppure cosa sia ciascuno e dove sia ciascuno, una volta concluso il mio racconto, non lo so».
Questo struggimento – che culmina nel grido commovente «voglio che siano, e non che facciano» – è assai più simile a ciò che mosse il Creatore a plasmarci di materia corruttibile, ma viva.
Anche noi esseri umani, egoisti come siamo, ci rendiamo conto che l’essere venerati ci dà molto meno gusto dell’amare qualcuno. Una madre si esalta vedendo il figlioletto che gattona, e poi comincia a camminare incerto… e poi si allontana da lei; si esalterebbe molto meno di un figlio che rimanesse fermo in ginocchio a mostrarle una timorosa riverenza per averlo messo al mondo. Questo è l’abisso tra l’egoismo di Frankenstein e il desiderio del burattinaio: è facile credere che un Creatore crei per volontà di dominio, ma è molto più corrispondente alla misura ragionevole e affettiva del nostro cuore rendersi conto che un Padre si mise all’opera per bisogno di amore; per poter amare più compiutamente i figli che immaginò nella sua mente.
Chi conosce Chesterton, apprezza la sua capacità nel riuscire a proporre riflessioni significative, magari su cose date per assodate, a partire da un punto di vista ribaltato o paradossale. Così, ad esempio, nel romanzo Uomo vivo egli suggerì l’ipotesi che se guardassimo casa nostra con gli occhi di un ladro, anziché con gli occhi annoiati di chi ci abita dentro da-non-so-quanti-anni, cominceremmo a considerarla un vero scrigno pieno di gioielli. Nella commedia Sorpresa accade la stessa cosa, riguardo a un tema che ha ferito e segnato l’intera letteratura del ‘900, vale a dire il dibattito culturale e sociale in cui Chesterton era immerso. L’uomo del XX secolo aspettava invano Godot (cioè Dio, che in inglese è God); in molti casi Godot pareva un altero e spocchioso personaggio che rifiutava ogni invito a presentarsi agli appuntamenti implorati dall’uomo.
Per insinuare l’ipotesi verosimile che, probabilmente, era l’uomo ad avere la vista un po’ appannata e fosse quindi incapace di riconoscere il Godot che puntualmente non mancava gli appuntamenti, occorreva un grande rovesciamento di scena. L’azzardo di Chesterton in quest’opera teatrale è guardare le cose non dal punto di vista umano, che s’interroga senza capire, ma dal punto di vista divino, che agisce con lungimiranza. Oltre a Frankenstein, un altro grande interlocutore di questa commedia è il teatro di Pirandello. Senza scendere nel dettaglio di raffinate analisi letterarie mi limito a suggerire quest’indicazione: se il genio di Pirandello ci ha consegnato il bisogno umano di conoscere il creatore, quella drammatica domanda dei personaggi in cerca di Autore, Chesterton ci ha consegnato la meravigliosa evidenza di un Autore in cerca di persone, un creatore a cui non è bastato avere dei personaggi ideali, ma non vivi.
Godot non è sparito, Godot si è messo tra il pubblico… e non per lavarsene le mani, ma perché le persone potessero sporcarsi fino in fondo le proprie mani nella conoscenza di sé e fossero protagonisti attivi del disegno della Creazione. Dei burattini sono capaci di recitare la loro parte in un racconto perfetto, delle creature umane in carne e ossa danno vita a qualcosa di molto diverso.
E questo è un altro aspetto su cui il dottor Frankenstein s’inganna e Chesterton ci illumina. La creazione, cioè l’esistenza reale, presuppone di per sé l’opposto della perfezione, perché si fonda sulla libertà delle creature. Dal copione si passa all’avventura. Il dottor Frankenstein s’immaginava di dar vita a una razza di gente perfetta e felice, ma questo non può accadere in un mondo reale. E, in merito a ciò, s’innesta un altro vitale paradosso, su cui è importante spendere qualche parola: la realtà è più piccola del racconto. Così, infatti, dice il burattinaio-Autore, ma cosa intende? Ecco le sue parole: «Dentro questa grande scatola su ruote, ma non al di fuori di essa, c’è un universo davvero felice; non molto spazioso, ma nobilmente felice e, perciò, credo che questo mio piccolo mondo sia più ampio di quello grande che c’è fuori».
Il regista, nel suo piccolo teatro, crea una piccola storia perfetta, in cui le gesta dei suoi personaggi ospitano una virtuosità e magnanimità molto più grandi di quelle che s’incontrano nella realtà. Strano ma vero, la grandezza della virtù perfetta può essere ospitata solo in un racconto piccolo; perché è efficace e sintetica. È un lampo che raggiunge l’apice dello splendore in un millesimo di secondo. Fuori dal racconto, c’è l’ampiezza della realtà, che non è grandezza, bensì una sostanza diluita: il reale è vasto e lungo perché ospita figure umane imperfette, capaci di gesti e sentimenti molto più piccoli, e che perciò hanno bisogno di più tempo e tentativi per agire. Il paradosso dunque è: la realtà è grande (vasta) perché è fatta di personaggi piccoli (imperfetti), il racconto è piccolo (breve) perché è fatto di personaggi grandi (perfetti). E si potrebbe anche dire: l’ideale è più grande del reale; un racconto piccolo ospita un ideale grande e una realtà grande ospita gesti piccoli.
La prima parte della commedia mette in scena proprio la grandezza sintetica dell’ideale: i personaggi, abitando solo nel racconto (cioè nell’Idea perfetta del loro autore), si comportano al meglio e sono dei giganti di virtù, per questo la storia è breve, piccola. Tutto si compie in fretta perché tutto è al meglio. Cosa manca? La libertà, un copione non già scritto ma da scrivere.
Si apre una grande finestra, passando da un personaggio che «fa il bene» a una persona che «può fare il bene», tra un’azione prestabilita e la libertà di poterla compiere o meno; e questa finestra che si spalanca, introducendo il libero arbitrio dei protagonisti (cioè delle persone reali) richiede uno spazio più ampio, più lungo e articolato, proprio perché deve ospitare il percorso emblematico di una creatura libera, che partecipa in modo del tutto imprevedibile alle azioni che la coinvolgono.
Nella seconda parte della commedia lo spettatore rivive la stessa storia incontrata in precedenza, ma calata nel realtà, vissuta da persone reali e non più da personaggi ideali. Tutto si complica, tutto si allunga, tutto si offusca come il chiar di luna all’inizio del secondo atto. Però, anche in questa atmosfera annebbiata, resta una memoria atavica del disegno perfetto originale, la nostalgia di una condizione ideale; la manifesta il Poeta al cospetto della Principessa: «Tutta questa scena che si svolge tra di noi è duplicata da qualche altra parte… oh, che importa, mi arrischio a dirlo: ci sono due voi e due me; oppure noi, qui, siamo solo le ombre delle nostre vere persone, che da qualche altra parte risplendono in piena luce. Tutto questo è già successo prima… conoscete la sensazione a cui mi riferisco. O succederà… o sta succedendo ora… e sta succedendo meglio. Da qualche altra parte, voi ed io stiamo parlando, ma io lo sto facendo senza vergognarmi e voi mi state ascoltando senza essere così sdegnosa».
Conosciamo bene questo sentimento del Poeta, conosciamo bene quell’insoddisfazione che ci lacera quando constatiamo che le nostre azioni non corrispondono pienamente a quello di cui noi ci sentiamo capaci. Non è ansia di perfezionismo, o meglio, può esserlo, ma in ogni caso il perfezionismo è un affluente minore della nostra grande nostalgia dell’ideale. C’è, da qualche parte (nella mente del Padre), la nostra vera persona, in tutta la sua luminosa unicità e bellezza. Ma qui e ora c’è la creatura che il Padre ha voluto amare catapultandola nel mondo. Ci ha giocato un bello scherzetto, ci ha messi alla prova. Qualche scettico potrebbe giudicare crudele questa scelta del Creatore; io mi azzardo a dar ragione al Re di Fontarabia, quando risponde al Poeta: «voi sapete bene che l’unico modo per vincolare un gentiluomo è di dirgli che è libero».
Dio ha preferito trattarci da gentiluomini, piuttosto che da marionette. Un uomo deve avere l’opportunità di dimostrare che è un gentiluomo, deve poter dar prova di essere quello che in piena coscienza e deliberato consenso sceglie o tradisce una proposta di matrimonio, cioè di legame con il mondo e con chi l’ha fatto. Qui e ora, nella realtà, siamo alla prova; abbiamo lo spazio e il tempo per far vedere chi siamo e per capirlo noi stessi. Siamo nell’outdoor education, educazione all’aria aperta. E anche gli eruditi e gli studiosi sono arrivati a capire che stare all’aria aperta fa bene all’uomo. A dire il vero, non fa bene solo a lui.
Nella tragedia classica esisteva la figura del deus ex machina: la divinità entrava in scena quando l’intreccio della trama degenerava in modo irrisolvibile e la sua presenza metteva a posto le cose. Merito di Chesterton, in questa commedia, è aver «usato» l’espediente del deus ex machina per farci la sorpresa finale: quello di porgere al lettore in modo eclatante e allo stesso tempo ragionevolissimo il bisogno dell’Incarnazione. Il Dio cristiano non si è calato sulla scena umana per mettere fine alla storia, bensì innanzitutto per essere compagno degli uomini. Si è fatto Uomo tra gli uomini, che è molto più complicato che essere un Dio tra gli uomini. Se della religione cristiana si può dire che è una outdoor education (un cammino educativo nell’aria fresca, libera e drammatica della realtà per ritornare alla casa del Padre da gentiluomini liberi e non da schiavi mansueti); se di conseguenza si può dire, in nome della sacralità della libertà, che gli uomini sono tutti fuori, allora del Dio cristiano si può dire che sia il più fuori di tutti. Perché, nella sua infinita libertà, ha scelto di buttarsi dentro l’orizzonte incasinato del mondo reale.