Femminicidio [aggiornato2]

Man's clenched fist opposite woman's hand holding heart

L’ultimo femminicidio che ha scosso l’Italia ha sollevato giustamente un grande clamore mediatico. Il dibattito però, intriso spesso di reazioni emotive e riduzioni ideologiche, più che illuminare sotterra il problema sotto la retorica. Per questo proponiamo alcuni articoli di giudizio che esplorano il problema e soprattutto allargano l’orizzonte.

Non basta un corso per educare i sentimenti

Costanza Miriano

Credo nella buona fede della maggior parte delle persone che si pongono il problema di evitare che vengano uccise delle persone, in generale, e in particolare che vengano uccise donne da uomini che le hanno amate o desiderate in modo patologico. È ovvio, non credo ci sia nessuno che non sia addolorato di fronte a questi fatti, e tutti vorremmo fare qualcosa per evitare che si ripetano.

Credo però che ci sia chi vuole approfittare di questa vicenda, come certo mondo femminista e certi militanti omosessualisti, e poi credo che ci sia chi improvvisa, e per esempio si lascia condizionare dall’emotività di chi ha perso una persona cara, come i familiari di Giulia, che pur meritando tutta la nostra solidarietà del mondo, non per questo diventano dei fari spirituali: arrivare a far leggere la lettera del padre nelle classi, o citarla nell’omelia durante la messa – sentito con le mie orecchie – no, proprio no. Questo gravissimo delitto – gravissimo, straziante, dolorosissimo – non può essere elevato a sistema (“gli uomini sono tutti violenti”), e di conseguenza non si possono proporre soluzioni che partono dal presupposto che si tratti di un fatto diffuso, e che si possa prevenire con delle azioni di massa. L’assassino si era già rivolto ad alcuni terapeuti, quindi evidentemente la psicologia non basta. L’assassino non era un patriarca, un uomo di potere, ma al contrario un ragazzo in una posizione inferiore – quanto a successo negli studi – rispetto alla vittima. Come possiamo parlare di patriarcato o di rieducazione? Sono proprio categorie sbagliate, che non c’entrano nulla.

Proviamo a riavvolgere il tempo per tre mesi, poniamo. Siamo a settembre. C’è un ragazzo ossessionato dalla ex. Avere fatto dei corsi a scuola potrebbe salvarlo dall’abisso, se non sono riusciti diversi psicologi in un lavoro uno a uno? Cosa potremmo fare, oggi, per impedire quello che è successo? Chi mai si aspetterebbe che dietro un ragazzo “per bene” si nasconde una furia capace di tanta crudeltà? La verità è che la società di oggi si illude di sterilizzare il male, di cancellare il mistero della sofferenza (eutanasia, eugenetica, che brivido quel prefisso eu), di educare l’essere umano con delle buone norme. La differenziata, l’inclusività, la correttezza.

La verità è che il cuore dell’uomo è un mistero, è un abisso. La verità è che l’amore è un sentimento molto forte, violento direi, che scatena il possesso, in tutti, uomini e donne, pur in modalità diverse. Fino a qualche decennio fa un esoscheletro – quello della società chiamiamola borghese – ci conteneva tutti. Eppure comunque il male esisteva. Oggi abbiamo rimosso il senso del limite, l’orizzonte ultraterreno è stato asfaltato totalmente, siamo in un deserto di regole e prospettive che ci illudiamo di far fiorire con dei corsi di buone maniere, imposti dalle agende dettate dagli organismi sovranazionali. Ma il cuore dell’uomo non si guarisce e non si accontenta di questo, è un mistero, il male purtroppo esiste, e non ci sono corsi che tengano. Lo mostrano i paesi del nord Europa dove il fenomeno della violenza sulle donne è molto più grave che in Italia, eppure la parità di genere è attuata alla grande, in certi casi si sono dovute ristabilire le quote blu, invece che rosa. Eppure non ha funzionato.

Dare una risposta strabica a questo dramma, cercando di raccontare gli uomini come tutti cattivi, e le donne tutte buone, e vittime (ci sono anche donne che cercano di dare fuoco alla sede di ProVita, per dire, ci sono donne che uccidono la madre, è cronaca di questi giorni, donne incapaci di custodire la vita loro affidata) non serve a nulla. L’uomo e la donna sono toccati dal male (chi crede dirà “feriti dal peccato originale”) in eguale misura, ma in modi diversi. L’uomo fa il male in modo più fisico, violento, mentre la donna può essere tentata di controllare gli altri, di manipolarli. Il punto è cercare di accogliere i nostri limiti, l’egoismo maschile e la volontà di controllo femminile, chiedere la grazia di imparare ad amare, e per farlo occorre necessariamente lavorare sulle diversità.

Usare questi terribili episodi di cronaca per raccontare una subalternità femminile non è leale. Le donne oggi stanno vivendo una stagione di grandi possibilità, e basta lamentarci! Siamo libere, possiamo decidere di fare qualsiasi cosa, studiare, scoprire il mondo, fare imprese sportive o guidare governi, niente ci è più precluso.

Una richiesta di parità lamentosa come quella della retorica comune nega la realtà, semplicemente. Vedevo ieri una pubblicità che denunciava la mancata parità di guadagni tra uomini e donne nello sport. Il cartellone pronosticava il raggiungimento della parità nel 2155. Io mi sono messa a ridere da sola, pensando a mio marito costretto a vedere una partita di calcio femminile al posto della Champions: il calcio maschile è mille volte più bello da vedere, perciò la gente lo guarda, perciò gli sponsor investono su una cosa che la gente guarda, perciò gli atleti sono più pagati. Punto, Non è un complotto: il gesto di un Messi non lo farà mai nessuna donna, Djokovic è maschio, c’è un abisso fra uomini e donne nello sport e ci sarà sempre. È naturale che sia più bello da vedere lo sport maschile (a parte, che so la ginnastica artistica) e il mercato ne tiene conto.

Aggiungiamo un tassello contro la retorica sul patriarcato: non credo che oggi ci sia in giro un solo padre che non sappia cambiare un pannolino. Magari lo fanno con meno piacere delle mamme, perché la cura è scritta nel cuore femminile, mentre la protezione lo è in quello maschile. Però lo sanno fare, a differenza di cinquanta anni fa (quando peraltro i pannolini non c’erano, e le donne si dovevano occupare di lavarli). E vedo ovunque padri presenti, che sono coinvolti nell’educazione dei figli e nella gestione di tutto (a volte con il rischio addirittura di pendere più sul versante della cura che non su quello della guida). Quindi, di quale patriarcato esattamente stiamo parlando? Se a partire da episodi isolati facciamo una diagnosi sbagliata, proponiamo inevitabilmente una cura sbagliata.

Infine, per quanto riguarda l’educazione a scuola, che dire? Chi la propone non conosce i ragazzi, evidentemente, che sono insofferenti alle nostre prediche, e con proposte poco attraenti si rischia l’effetto opposto. I ragazzi vogliono essere infiammati di desiderio verso un bene e una bellezza maiuscoli, se ne fregano delle nostre regolette. Principalmente da noi vogliono vedere che viviamo con coerenza per una bellezza che ci scalda il cuore. E questa è una cosa che non si insegna con i corsi, ma solo con la vita, e quindi spetta ad adulti che vivano con i ragazzi una vita che dimostri di valere la pena (perché la vita è anche una pena, la croce esiste, la grande rimossa…). Nessuno a scuola educa a rubare o uccidere eppure nel mondo succede continuamente. I ragazzi sono cercatori di Assoluto, e noi adulti non ne siamo testimoni credibili, purtroppo.

Detto questo, tutto ciò non c’entra col mistero del male che è scattato nella testa di un ragazzo, purtroppo. Non ci sono corsi che tengano, di fronte al Mistero. Magari se ne potessero fare…



L’ALTRO E’ IL SEGNO DEL MISTERO

Matteo Severgnini – Repubblica

Caro Direttore, davanti ai recenti fatti di cronaca, che interpellano l’umanità di ciascuno di noi, si impone una domanda: l’uomo può bastare a sé stesso? O come direbbe Leopardi “ed io che sono?” e, dunque, “che significa amare?”. L’urgenza di una risposta riguarda tutti, la famiglia e la scuola, innanzitutto, ma anche il mondo della politica e del lavoro, della cultura, dello sport e della comunicazione, perché sulla fiducia nel rapporto umano si fonda l’intera società.

Il ripetersi di tragedie come quella di Giulia Cecchettin chiama in causa ogni adulto a recuperare la coscienza dello scopo e di un rinnovato entusiasmo nel grave compito dell’educazione: offrire alle giovani generazioni l’ipotesi di una proposta unitaria di senso che essi stessi, sostenuti da una compagnia stabile, possano in prima persona verificare, avventurandosi nell’umana esistenza divenendone protagonisti.

Per questa ragione ci sentiamo chiamati a offrire, in una società plurale, il nostro contributo con una proposta di vita che introduca a riconoscere il mistero profondo, insito in ogni persona.

Il poeta Rilke spalanca ad un orizzonte di significato fecondo e promettente quando scrive: «Questo è il paradosso fra l’uomo e la donna: due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno». La persona amata è «segno» non può rispondere esaustivamente al desiderio infinito di essere amato presente nel cuore umano.

L’altro è segno della sua e della mia dipendenza originaria da un Mistero più grande di noi, come ci ha insegnato don Giussani quando, ad esempio, raccontava di aver rivolto a due giovani abbracciati incontrati per strada una strana domanda: «Cosa c’entra questo con le stelle?», ridestando il nesso tra il particolare e il tutto, ridonando l’adeguata proporzione tra quell’abbraccio e un destino più grande.

«Riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose» (Pasolini), riconoscere l’altro come segno, realtà irriducibile, non in mio possesso, mi sospinge ad una sua “venerazione”, piuttosto che ad un consumo estenuante, finanche letale.

Quell’«amore più grande (…) pienezza della quale l’altro è segno» si è rivelato nella storia nel volto di Gesù da cui è nato il popolo cristiano che instancabilmente tenta e prega di vivere amando l’altro con gratuità; l’iniziativa del cardinale Pizzaballa, che si è offerto come ostaggio in cambio della liberazione di altre persone sequestrate, e la mobilitazione di tante persone per la Colletta Alimentare ne sono testimonianza. Nell’abbraccio di quell’«amore più grande» è possibile giungere fino a dare la vita per l’altro, piuttosto che strappargliela.


GUARDARE IN FACCIA IL MISTERO DEL MALE IN COMPAGNIA DI COLUI CHE LO HA VINTO

Mario Dupuis – Tempi

Caro Filippo, ora che nel silenzio di una cella tedesca sei davanti a te stesso, prima di avere tutti i riflettori disumanamente puntati su di te al tuo ritorno in Italia, non puoi certamente non riconoscere il male che hai fatto, anche se vorresti rimuoverlo, quasi estraniandoti dalla realtà.

Eppure tu non sei fatto per il male, nessun uomo è fatto strutturalmente per il male, nessun uomo nasce per essere destinato ad essere “mostro” o pervertito. Eppure accade, è accaduto in te… ma allora, mentre si spendono le analisi dei saggi che hanno un gran da fare in questi giorni nei talk show e mentre qualcuno dice che se avessi frequentato l’ora di “educazione sentimentale” alle superiori forse non saresti arrivato a tanto, che cosa può permettere che questo male non si impadronisca in un modo così violento dentro un rapporto affettivo che era nato in modo positivo?

Rispetto ai saggi della nostra epoca, che cercano di dare ricette per sconfiggere o almeno ridurre questo male, tu hai questo strano privilegio di poterci stare davanti a questo mistero e sentire bruciante anche tu la domanda che si poneva san Paolo: «Perché faccio il male che non vorrei anziché il bene che vorrei? Chi mi libererà da questo corpo di morte?».

Il dramma di oggi è la censura di questa domanda, la censura del dramma di una fragilità del nostro essere che, anche se non assume forme violente e atroci come quelle che hai vissuto tu, ci portiamo dentro tutta la vita e la riempie di una smisurata solitudine. E, come ben vediamo in tema di abusi, non risparmia nessuno, neanche i cosiddetti uomini di Chiesa.

Eppure da 2.000 anni un uomo che si è detto Dio sfida la ragione di tutti gli uomini affermando che Lui ha vinto il male, non lo ha eliminato dalla faccia della terra ma lo ha vinto: è la sfida più grande alla nostra ragione umana, per cui è ragionevole verificare o se è vero o se è la più grande menzogna della storia.

Chi si affida alla Sua Presenza non diventa magicamente buono ma può iniziare un cammino di verità dell’essere. Gli uomini di oggi sono soli – e i giovani che Pasolini chiamava “generazione sfortunata” sono vittime di questo – proprio perché hanno smarrito la possibilità di questo cammino di verità, in cui la Fede in quell’uomo informa la vita al punto che è possibile un modo di affrontarla, con i suoi problemi e i suoi drammi in modo da non smarrirsi e non smarrire l’uso della ragione, che ci impedisce di trattare il nostro cuore per la bellezza per cui è fatto. Puoi anche non arrivare a riconoscere che questo Uomo è Dio, ma in ogni caso sperimenti “il centuplo quaggiù”.

La compagnia di quest’Uomo permette che l’amore non diventi possesso ma non perché lo impari su un libro o con una lezione di “educazione sentimentale”, ma perché lo vedi in atto in tanti amici veri e in tanti testimoni.

Così puoi amare una donna non perché la possiedi ma perché ami il suo destino e se non è fatta per stare con te la ami ancora di più lasciandola al suo destino e alla sua libertà e tu corri verso il tuo. Nessuno più di Dio ama la nostra libertà, cioè la nostra capacità di aderire al vero. Giulia era libertà e chiedeva che tu la amassi amando la sua libertà. Ma forse non potevi, proprio perché tu non eri libero. Ma lo puoi diventare! Pur dentro un carcere in cui probabilmente passerai molti anni futuri della tua vita.

Ti auguro di trovare presto questa compagnia di Cristo attraverso la presenza di coloro che riconoscono che Cristo perdona anche il più efferato dei delitti: “Oggi sarai con me in Paradiso” disse al ladrone in croce. E la giustizia umana che deve operare non può eliminare il gusto e l’esperienza di questo perdono.

La giustizia farà – giustamente – il suo corso nei tuoi confronti, ma questo non solo non basterà per portare in vita Giulia, ma non basterà neanche per riportare in vita te che sei ancora vivo o per dare una speranza credibile all’opinione pubblica che queste cose non accadano più.

Ti prego, guarda in faccia il mistero del male, ma guarda in faccia anche il mistero della tua vita che oggi ti sembra inutile.. e guarda in faccia il mistero di Uno che muore dal desiderio di farti sperimentare che la salva.

Così potrà nascere un bene per tutti e una speranza per molti.

Ti porto nel cuore, certo che tua Madre ti protegge dal Cielo.


IL PROBLEMA NON E’ IL PATRIARCATO MA IL NARCISISMO

Caterina Giojelli intervista Vittoria Maioli Sanese – Tempi

Appena è stato ritrovato il suo corpo senza vita e arrestato il suo ex fidanzato, Giulia Cecchettin è diventata subito «la vittima numero 105», il «centocinquesimo femminicidio dall’inizio dell’anno». Governo e opposizione hanno annunciato «subito una legge antiviolenza», politici e studenti «subito corsi di affettività e sessualità a scuola», esperti e giornalisti «subito la campagna di sensibilizzazione per riconoscere i segnali d’allerta».

E gli uomini hanno iniziato subito a pubblicare i loro «mea culpa», dal vicepremier Tajani («come uomo chiedo scusa a tutte le donne, a cominciare da mia moglie e da mia figlia per quello che fanno gli uomini») a Piero Pelù («mi vergogno di essere uomo»), fino a Gianni Cuperlo («il problema siamo noi uomini»), tesi fatte proprie da influencer e utenti di ogni risma e pubblicate a tutto spiano su internet, giornali, social network. «Ma quando si prende la china del mea culpa generalizzato non si arriva affatto al problema, che è molto più profondo, non si arriva a nessun cambiamento», spiega a Tempi la psicologa della coppia e della famiglia Vittoria Maioli Sanese, da oltre cinquant’anni alle prese con le relazioni uomo-donna (qui avevamo già affrontato con lei il tema della violenza e delle molestie) e genitori-figli.

Si sono levate migliaia di voci e sono stati dedicati centinaia di articoli a Giulia Cecchettin, barbaramente uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta. Cosa l’ha colpita di più?

La totale difesa dei genitori del ragazzo, il «nostro bravo ragazzo», che ripetevano «non capiamo come possa essere successa una cosa del genere», «non aveva dato mai nessun problema». Perché era evidente fin dall’inizio che il loro ragazzo era l’autore di un delitto. Questa impossibilità di affrontare la verità dice che per anni i genitori hanno censurato, o non sono stati capaci di vedere, tutti i segnali che probabilmente il ragazzo mandava, oppure che li hanno visti senza capirne la pericolosità. Ma per arrivare a un omicidio significa che è in corso una patologia molto importante.

Sui giornali è stato dato un nome a questa “patologia”: Filippo ha ucciso perché è un uomo, lo dicono gli uomini stessi.

Allora gli uomini, così come chi scrive che il problema sono gli uomini, ancora una volta non hanno capito il problema. Non hanno capito che l’uccisione di Giulia e quelle di altre donne prima di lei costringono a rispondere a domande di fondo. E cioè: cosa vuol dire essere uomini? Dove si esprime la nostra mascolinità? Chi è la donna per noi? In questo clima saturo di prese di posizione sul femminicidio iniziano a comparire delle domande molto serie, ma se vengono sistemate con i «non capiamo come possa essere successo» o i «mea culpa» generalizzati, come se tutti gli uomini potessero diventare un Filippo, allora non cambierà nulla. Perché queste non sono risposte feconde di cambiamento. Sono risposte che accomodano le coscienze invece di portare a guardare il nocciolo della questione: come stiamo trattando il nostro “umano” oggi. Non solo le donne, l’altro. Anche questo mi ha colpito molto.

Lei pensa che l’annuncio immediato di una legge, l’inasprimento delle pene, la guida per riconoscere “i segnali spia”, i corsi su affettività e sessualità cambieranno la situazione? La Svezia, come ha ricordato il ministro Eugenia Roccella, ha un tasso di violenza contro le donne e un numero di femminicidi più alto rispetto all’Italia eppure ha l’educazione sessuale nelle scuole. E il numero di femminicidi è maggiore nei paesi europei più progressisti e meno patriarcali dell’Italia.

Io penso che gli annunci siano la conferma di come andiamo alla ricerca di soluzioni immediate e mai prese dal “dentro di sé”. Mi riferisco alle soluzioni demandate a Stato, politica, magistratura. Possiamo fare tutte le leggi del mondo, ma se manca il passaggio dentro di sé, il cambiamento della persona, non succederà nulla di significativo. Perché trovare la risposta chiude la persona, trovare le soluzioni chiude, chiude sempre. Il cambiamento nasce dal mantenere viva la domanda, dalla ricerca, dall’andare a fondo. Sembra che oggi in Italia si abbia paura di andare a fondo del problema, che ci si accontenti di come viene “letto” il problema. Un problema molto più serio di quanto lo percepiamo se crediamo bastino i corsi a scuola per affrontarlo.

La scuola non è un luogo adeguato?

La scuola è sempre stata il primo partner privilegiato della famiglia nella crescita dei ragazzi. Per un ragazzo è “significativo” incontrare quel maestro piuttosto che un altro, quell’ambiente piuttosto che un altro eccetera, soprattutto nell’età adolescenziale. Ma non possiamo interrogarci su quale sia il compito specifico della scuola senza interrogarci su quale sia quello della famiglia. Oggi questo rapporto scuola-famiglia è in crisi: non sappiamo come dovrebbe essere o cosa dovrebbe diventare perché la famiglia ha perso la sua identità. È diventata un luogo di benessere. Un luogo dove si risponde ai bisogni dei propri figli, punto. E questo è un problema serio. Che non si risolve a scuola.

Cosa c’entra con l’assassinio di Giulia?

Forse per deformazione professionale ho visto subito il sentimento di possesso estremo che il ragazzo portava avanti nel rapporto con la sua fidanzata: la sola idea che lei prendesse una laurea prima di lui, aprendosi ad altri orizzonti, lo mandava in crisi. Per lui la vita di Giulia dimostrava che la sua valeva poco. La ragazza era un modello di efficienza, capacità e sicuramente di temperamento e volontà a cui lui non poteva arrivare. Questo è considerato uno dei rapporti più patologici che esistono: il rapporto in cui manca l’alterità, in cui l’altro non è “un altro”, ma ha solo una funzione in relazione a me stesso. La domanda che dovremmo farci allora è questa: come mai un ragazzo così giovane aveva già questo tipo di rapporto? Perché aveva questa esigenza profonda di ammazzare? Certamente questo omicidio non nasce da un raptus improvviso, ma è maturato nel tempo, ed era esplicita l’intenzione di uccidere fino a travolgere la coscienza del ragazzo. Fino a distruggere quello che di umano e sano portava dentro di lui. Un tipo di amore che niente ha a che vedere con l’amore. Perché?

Perché è figlio del patriarcato, scrivono i giornali.

No assolutamente, non sono d’accordo. Un ragazzo così giovane e possessivo non è figlio del patriarcato, ma, come molti, figlio del narcisismo. Lavoro con molti genitori e insisto da tantissimi anni su questo aspetto: quello del figlio guardato, concepito, riconosciuto, come funzione propria. Il figlio bravo, perfetto, riuscito perché se così non fosse “significa che noi abbiamo sbagliato tutto”. Questo narcisismo che diventa intollerabilità del proprio limite, intollerabilità della frustrazione, perfino di avere un figlio che ha un po’ di problemi, consegna al genitore un’idea di figlio assolutamente fuori dalla realtà. Un figlio pensato “come dovrebbe essere” che soppianta il figlio reale da conoscere, da capire, e soprattutto da aiutare. Io non credo che questo sia frutto del patriarcato, ma di un estremo narcisismo. Molto, molto presente oggi. Tant’è vero che si manifesta con la “protezione totale” che si ha verso i bambini fin da quando sono molto piccoli, il sentimento meno genitoriale che possa esistere.

Perché la protezione non è un sentimento genitoriale?

Perché comunica al figlio una falsità totale: a te, figlio, non deve succedere nulla. Non deve succedere una sgridata degli insegnanti, non deve succedere che una ragazza ti dica di no. Devi stare bene. Sicuramente è molto pericoloso che la famiglia sia diventata il luogo del benessere mentre la tecnologia, la rete, i nuovi media [Tempi ne aveva parlato con la dottoressa Sanese qui, ndr] si sono impossessati del potere di dire al ragazzo chi è, e chi sarà l’uomo che deve diventare. Ogni rapporto porta con sé la domanda: chi sei tu per me? Soprattutto quello uomo-donna. Ma la risposta per le nuove generazioni è stata appaltata e affidata a internet. A una “intelligenza artificiale” deturpante l’umano. Io mi stupisco sempre di come i genitori non si accorgano di questo, travolti dalla paura di far sentire i propri figli diversi dagli altri, che possiedano meno degli altri, che debbano affrontare più dolore o fatica degli altri. Questo dice molto dell’incapacità dei genitori di affrontare la sconfitta e la frustrazione. Ma la protezione è un velo che nasconde tutto ciò che lievita prepotentemente dentro il cuore e la mente di un ragazzo. Fino a diventare patologia.

Molti stanno invitando i genitori di figli maschi a educarli, rieducarli, al rispetto delle donne, propongono linee guida, letture.

Io mi rifiuto di dire ai genitori che cosa devono fare, perché l’educazione non si fa con i princìpi, ma dentro un rapporto vivo. Siamo abituati a ritenere il nostro pensiero e il nostro giudizio assoluto, senza ricercare un punto di riferimento e di confronto, senza sentire l’esigenza di dialettizzarlo con qualcuno. E la scomparsa di questa esigenza di confronto credo sia uno dei frutti del narcisismo di cui parlavamo prima. Certamente dovremmo rispondere a questa domanda: nella nostra famiglia si esercita la dignità? Si ha la coscienza della propria dignità? Questa è una domanda fondamentale. Perché io vedo nella sparizione di un’esperienza di dignità in famiglia l’impossibilità per i ragazzi di riconoscerla. Ogni intervento fatto a scuola, o nell’adolescenza, resterà un intervento intellettuale se la dignità non si è fatta esperienza e carne quotidiana in famiglia. A cosa serve “capire” che si devono rispettare le donne se non si è fatta esperienza di questo rispetto? Il cambiamento non può che essere dato dall’unità di mente e cuore con la vita quotidiana: in una parola, dall’esperienza di un altro accanto a noi.


LA CULTURA DEI DIRITTI HA DELLE CONSEGUENZE

Luca Ricolfi –  Il Messaggero

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi di grande interesse.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei Paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi Paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: Paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai? Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica.

Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che gli Stati scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il Paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate.

Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti.

E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi.

Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquiste possibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi +20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.


LA VIOLENZA DI UNA PROMESSA IMPOSSIBILE

Federico Pichetto – Il Sussidiario

Come può l’amore trasformarsi in orrore? La morte di Giulia Cecchettin, il ritrovamento del suo corpo martoriato da ferite profonde e reiterate, apre una riflessione che va oltre Filippo Turetta, l’ex fidanzato che tutti gli indizi indicano come il principale sospettato del terribile delitto. Non si tratta solo di denunciare l’ennesimo femminicidio, il 105esimo commesso quest’anno in Italia, e non si tratta neppure di sottolineare soltanto una cultura maschilista che fa della donna – di ogni donna – una possibile vittima. C’è qualcosa di più profondo in questa vicenda, qualcosa che riguarda la natura dell’uomo e la cultura nella quale è immerso.

Nessun individuo è immune dal male: raccontare di Filippo come di un bravo ragazzo è semplicemente stupido, perché non esiste bravura o storia familiare che possa rendere la libertà perfetta. Ogni persona si porta dentro una ferita, un’incapacità di vivere l’esistenza fino in fondo, attraversando ogni sentiero e ogni desiderio. Turetta non è da meno e sorprendersi del fatto che possa aver aggredito e ucciso Giulia significa avere poca dimestichezza con se stessi, con l’ombra che ci portiamo appresso e che rende ognuno di noi bisognoso di salvezza.

Eppure, c’è di più. La cultura che ha dominato l’Occidente a partire dal XVIII secolo insegna che l’uomo è radicalmente libero, che l’unico legame – l’unico debito – che egli ha con la società è quello fiscale: una volta che le tasse sono pagate, nulla deve turbare il desiderio umano, nulla gli deve essere negato. La realtà è ben diversa: non sono solo i tributi a cementare l’appartenenza alla comunità, ma anche l’esercizio di alcune scelte e di alcuni valori. Nessuno può desiderare quello che vuole e nessuno può fare quello che vuole: il desiderio ha un limite, la volontà individuale è chiamata ad avere un argine. Il compito decisivo di una comunità è abituare ogni cittadino ad accettare l’edificio normativo che fonda la convivenza civile: accettare che non puoi avere quello che vuoi, che non hai diritto di prendere tutto, che devi imparare a stare in contatto con la possibilità che la vita ti dica di “no”.

Qui c’è tutto il dramma di Filippo che, probabilmente accompagnato da una personalità narcisista non rilevata, non è stato capace di accogliere il “no” di Giulia, il fatto che lei prendesse il volo e che – con l’evento simbolico della laurea – fosse davvero pronta a voltare pagina, spingendosi al di là di quella relazione nata tra i banchi dell’università e terminata a fatica da pochissime settimane.

È quindi giusto leggere questo delitto alla luce di una questione di genere, che evidentemente esiste, ma non si può ridurre questo delitto ad una questione solo di genere: è la fragilità umana che – esasperata da una cultura in cui tutto è dovuto – svela il proprio lato terribile e violento.

C’è tuttavia un ultimo passaggio che sarebbe disonesto omettere: questa storia ci racconta di un uomo convinto che tutta l’attesa del proprio cuore sarebbe stata esaudita dal possesso di una donna. Filippo si presenta come un desiderio che pretende di vedere in Giulia il proprio tutto. Il cuore ha un anelito così grande che nulla può quietarlo. Qualora si pensasse di poterlo addomesticare con un amore, anche il più nobile e il più bello, esso andrebbe decisamente incontro ad una tremenda delusione e ad una violenta pretesa. Filippo ha preteso che Giulia gli risolvesse la vita, che gli riempisse il cuore, che fosse lei a curargli le ferite dell’anima. E non ha retto l’amara scoperta che lei non era tutto, ma un po’ meno di tutto, che lei non voleva essere un oggetto nelle sue disponibilità, ma una persona con la sua volontà e la sua storia.

Quanta violenza cova nelle nostre case ogni volta che non percepiamo l’altro come segno, come mistero. Tutto si trasforma in pretesa e ogni azione diviene potenzialmente un gesto di barbara violenza. Se non apparteniamo ad un grande amore, ogni amore si rivela troppo piccolo. E ciò che prima curavamo come la nostra rosa più preziosa diventa terminale di un orrore e di un odio senza fine. Non esiste realtà che non tradisca la promessa del cuore perché il cuore è fatto per l’infinitamente grande e si dispera per ciò che scopre più piccolo.

Il corpo di Giulia, dilaniato dalla brutalità disumana del suo assassino, racconta una storia antica, quella dell’incapacità dell’essere umano di tenere aperto il desiderio del cuore. Un’incapacità che è possibile superare solo dentro un’appartenenza più grande, solo dentro una compagnia radicale fatta di volti e di storie che ci aiutino ad alzare lo sguardo, a guardare più in là. A non ridurre coloro che abbiamo accanto all’oggetto ultimo della nostra pretesa. Al bersaglio di una rabbia che, in fondo, altro non è che un grido di disperazione che si abbatte su ciò che un tempo chiamavamo amore. E che, adesso, nella furia della nostra delusione, è soltanto un’altra pagina di orrore. Segno inequivocabile di un dolore che non si è fatto abbracciare da nessuno.

2 Commenti

  1. La struggente tragedia di Giulia (sono giorni che immagino il dolore della sua famiglia, consapevole di tutto quello che questa figlia ha dovuto subire, non trovando nessun aiuto, quanto ha inutilmente lottato per salvarsi!). Anch’io, come tutti, ho vissuto i giorni della settimana scorsa sperando, contro ogni speranza, nel miracolo di trovarla ancora in vita. Di positivo in questa vicenda c’è il fatto che siamo rimasti tutti profondamente scossi, più di tante altre volte. Questo credo lo si debba soprattutto al modo in cui sta vivendo la perdita tragica di Giulia, il suo papà Gino, ma anche al Signor Nicola Turetta, travolto insieme a tutta la sua famiglia da quanto ha commesso suo figlio.
    A me sembra prima di tutto che ogni riflessione sull’accaduto, proprio per il tentativo di trovare una causa, una spiegazione a tanta irrazionale violenza, contenga una parte di verità (lo dico soprattutto in riferimento a quanto leggo negli articoli riportati qui su questo sito e dalla riflessione di don Michele), ma viene un’obiezione rispetto alle posssibili cause da cercare, in una società patriarcale, o a quella forse effettivamente più attuale, matriarcale. Tuttavia a me viene da osservare al di là di tutto che le responsabilità sono e devono restare personali.
    Inoltre ho in mente quanto da tempo osserva Papa Francesco a proposito del nostro momento storico in cui individua “Un cambiamento d’epoca”, è vero in questo cambiamento d’epoca negli ultimi decenni, ravviso in particolare l’emergere di una distonia educativa con marcate contrapposizioni che anziché educare, finiscono per disorientare e rendere più fragili i bambini e i ragazzi – contrapposizioni in primis tra insegnanti e famiglie e anche nelle famiglie con i ruoli materno e paterno effettivamente contrassegnati da un prevalere di quello materno e una conseguente latitanza di molti padri, in passato fino alla mia generazione, quella degli insegnanti era un’autorità indiscutibile e questo non creava disorientamenti, anche se sicuramente non sarà stato sempre giusto. C’è tuttavia una parte di mistero, che è quello che è in ciascuno di noi e che nel caso di questo giovane ha determinato una violenza omicida di una crudeltà ed efferatezza che lascia veramente attoniti. Pensando a lui, in questi giorni, spesso il mio pensiero tornava alla vicenda di Santa Maria Goretti e del suo assassino. Lì l’opera del Signore ci mostra una strada, piena di un percorso di redenzione.
    Per il resto con cuore di madre piango la giovane Giulia a cui è stata strappata la vita. Una volta di più la preghiera, l’affidamento di tutta la sua famiglia ed anche di Filippo è l’unica cosa sensata.

  2. E se il problema non fosse il patriarcato ma il matriarcato?
    La battaglia contro il patriarcato è una cosa giusta se non fosse che ormai il patriarcato non esiste più se non in forme residuali.
    Il dato prevalente del nostro paese invece ci mostra un quadro famigliare in cui il padre è molto spesso una figura assente, debole, insignificante.
    Oggi – almeno in famiglia – si sta imponendo un sistema che in un certo senso – anche provocatoriamente – potremmo definire “matriarcale”. La madre è la colonna portante della casa; è lei che tiene le redini della vita familiare; l’educazione dei figli ricade sulle sue spalle.
    Questo ovviamente non assolve il padre ma attribuisce alla madre delle responsabilità.
    Nel bene e nel male il clima famigliare è sempre più condizionato da lei.
    Vedo tante sante donne che tengono in piedi famiglie pericolanti con il loro sacrificio ma vedo anche un aumento vertiginoso di mamme nevrotiche, possessive, iper-protettive che seguono ansiose i loro figli per evitar loro ogni fatica, pronte a difenderli da chiunque incroci il loro cammino. Professori e allenatori sono aggrediti perché non valorizzano le potenzialità dei loro figli.
    Questo secondo me è un fattore da tener presente perché è un ingrediente della minestra culturale del nostro paese. Siamo un paese di “mammoni” diceva qualcuno simpaticamente. Il
    Il frutto di questo contesto famigliare però è la fragilità di ragazzi e ragazze che non sanno stare di fronte alla realtà perché la realtà non risponde come la mamma!

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