La fede è un cammino dello sguardo

don Paolo Prosperi – Convivenza giovani di CL – Assisi [2] 23-26 novembre 2023

«Un cammino dello sguardo»6

Il target della lezione di questo pomeriggio, lo dico subito a scanso di equivoci, non è quello di lanciare chissà quale nuovo tema. Lo scopo che ci prefiggiamo è piuttosto quello di provare a fare qualche passo in più nel cammino di riflessione già iniziato qui a marzo – e di provare a farlo alla luce del passo che il movimento sta proponendo a tutti (penso soprattutto alla Giornata di inizio anno). Sono infatti persuaso che tra il tema affrontato qui, e quello dell’esperienza cristiana, o se si vuole degli occhi nuovi che la fede dona (tema centrale nella Giornata d’inizio anno), vi sia un nesso più stretto di quel che potrebbe sembrare. Cominciamo, dunque.

  1. «Siamo ciechi anche noi?» (Gv 9,40)7: una malattia degli occhi

Inizio da una considerazione che ho sentito fare a tanti, nel corso dei molti dialoghi sui contenuti di Assisi cui ho partecipato quest’estate, girando per le vacanze delle comunità di CL.

La considerazione è questa: la mentalità del self-made man, cioè quell’assetto interiore per cui si fa consistere il proprio valore nella propria capacità di performance, non ha appena a che fare con la sfera del lavoro.8 Si tratta invece di una mentalità che tende a insinuarsi nel rapporto che abbiamo con tutto – moglie o marito, figli, amicizie, vita morale, e chi più ne ha più ne metta.9

Ora, se questo è vero, tanto più urgente diventa la domanda – anch’essa gettonatissima nelle vacanze estive: come si esce dalla gabbia del criceto? Come si esce dalla gabbia dell’ego performante, per entrare nel punto di vista di Cristo?10 «Bella l’immagine di Gesù che lava tutto contento i piedi ai suoi discepoli» – qualcuno mi ha detto – «io però non sono Gesù – non vedo il Padre celeste sullo sfondo, quando ho davanti la faccia del mio capo al lavoro. Come ci entro, quindi, in questo punto di vista di Cristo?».

È proprio qui, mi pare, che il tema della Giornata d’inizio anno ci viene in aiuto. Si legge al n. 18 di Lumen Fidei, l’enciclica sulla fede di papa Francesco:

La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. […] La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. […] La fede nel Figlio di Dio fatto uomo […] non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo […], si apre un nuovo modo di vedere.11

La fede, ci dice il Papa, non è appena una forma di contatto con Gesù. La fede ci introduce in un modo nuovo di vedere tutta la realtà. A me piace dirlo così: compresa nel suo pieno potenziale, la fede è un po’ come quegli occhiali che ti danno al cinema, quando vai a vedere un film in 3D. Senza gli occhiali vedi tutto piatto e sfocato. Come inforchi gli occhiali, di colpo tutto t’appare nitido e tridimensionale – a tal punto tridimensionale, che in certi momenti ti sembra che gli oggetti escano dallo schermo e ti piombino addosso. Ecco, la fede fa qualcosa di simile: non cambia la superficie di ciò che vedo – si tratti di una faccia, d’una circostanza, di una cosa da fare. Ma me la fa vedere da un punto di vista nuovo – un punto di vista dal quale è come se riuscissi a percepirne meglio lo “spessore”, il pondus. Ricorderete che a marzo dicevamo che in ebraico la parola kabod (pondus, peso) significa anche gloria, cioè qualcosa di grande, di importante, di denso di significato. Il che vuol dire: a vedere in esse una profondità di significato altrimenti impercepibile.12

La risposta alla domanda-obiezione del nostro amico è dunque: la fede. È la fede che ci fa entrare nel punto di vista di Cristo, che è poi il punto di vista più vero.

Il che presuppone (è il rovescio della medaglia) che il punto di vista da cui si guarda la realtà di solito sia parziale, cioè non necessariamente errato, quanto piuttosto meno penetrante.

In effetti, non è proprio da questo deficit della facoltà visiva che dipende l’alienazione di cui abbiamo parlato a marzo? Come amava dire Benedetto XVI, la malattia che più affligge l’uomo d’oggi (e quindi anche noi!) non è una malattia della volontà, bensì degli occhi:

L’uomo contemporaneo [ebbe a dire papa Ratzinger, in un messaggio inviato alla nascente scuola dove ora insegno] è fermo al positivismo. […] Non sembra più in grado di percepire la profondità della realtà che i nostri occhi vedono e toccano, si tratti di un fiore o di un volto umano.13

Torna qui decisamente utile la famosa descrizione dello sguardo positivista che Giussani fornisce ne Il senso religioso:

L’atteggiamento positivista è come quello di uno che, in posizione da miope, portasse l’occhio a un centimetro da un quadro e, fissando un punto, dicesse: «Che macchia!»; ed essendo il quadro grande potrebbe percorrerlo tutto centimetro per centimetro, esclamando a ogni mossa: «Che macchia!». Il quadro apparirebbe un insieme senza senso di macchie diverse. Ma se arretrasse di tre metri vedrebbe il dipinto nella sua unità, nella prospettiva esauriente.14

Spontaneamente, la mente torna al cieco nato, su cui ci siamo soffermati nella Giornata d’inizio anno. Proviamo a immedesimarci con quest’uomo, che non aveva mai visto un volto umano, che non aveva mai visto il proprio stesso volto riflesso in uno specchio. Ebbene: non è in fondo la situazione di quest’uomo un calzante, oltre che struggente simbolo della condizione dell’«homo positivisticus» contemporaneo, quale descritto da Ratzinger e Giussani?

Mi ha sempre colpito lo strano gesto con cui Gesù guarisce il nostro uomo. Perché spalmargli del fango (fatto con il suo sputo!) sugli occhi (Gv 9,6)? Perché guarirlo con un gesto così strambo? Come Ireneo di Lione già aveva compreso,15 il gesto di Gesù rimanda alla creazione di Adamo narrata nella Genesi: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo».16 Col suo gesto, Gesù sta dunque dicendo: «Io sono venuto per ri-crearti, o uomo, sono venuto per fare di te una creatura nuova» (cfr. 2Cor 5,17). E questo, più d’ogni altra cosa vuol dire? Per darti occhi nuovi – occhi capaci di vedere ogni cosa, a cominciare dalla tua stessa umanità, nel suo vero splendore: «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».17

Ora, in cosa concretamente consistono questi occhi nuovi che la fede dona, e la memoria, che altro non è che la fede vissuta,18 permette di sviluppare?

Nel prosieguo di questa meditazione, vorrei tentare di offrire qualche spunto di risposta a questa domanda. E per farlo, ho deciso di prendere come figura di riferimento lo stesso personaggio evangelico su cui abbiamo fissato lo sguardo proprio alla fine del nostro primo incontro, nella sintesi di marzo. Parlo ovviamente del buon vecchio Simon Pietro. Infatti, come qualcuno di voi ricorderà, è proprio parlando di lui e del suo ribellarsi alla “strana” iniziativa da Gesù presa nel mezzo dell’ultima cena, che già a marzo era emerso il tema del cammino necessario per entrare nel punto di vista di Gesù:19 come la fede di Simon Pietro in Gesù, pur sincera fin dall’inizio, non ha portato subito il nostro a “capire Gesù”, così è per noi.20 Ciò detto, vorrei ora entrare un po’ più nel merito di questo passaggio dal vecchio al nuovo “punto di vista”. In cosa esattamente esso consiste? E in che senso è la fede a renderlo possibile? Last but not least: che ruolo ha la nostra compagnia in questa dinamica? Per tentare di aprire delle “piste di risposta” a queste importanti domande, mi avvarrò di una pagina del vangelo di Giovanni molto cara alla nostra storia: Gv 21. Gv 21 ci presenta infatti un Pietro assai diverso da quello a cui Gesù nel cenacolo aveva detto: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo»;21 un Pietro cioè che finalmente ha cominciato a capire, soprattutto grazie a un fatto che gli ha irreversibilmente cambiato gli occhi: la rivelazione, nella grande ora Pasquale, dell’amore del Signore in tutta la sua gloria (cfr. Gv 13,1).22 Cominciamo dunque.

  1. E si tuffò in mare: lo “scatenarsi” dell’uomo nuovo

Il primo punto su cui voglio soffermarmi è il cambiamento dello sguardo su se stessi che la fede dona.

Ripartiamo dal self-made man. Uno dei connotati del soggetto di prestazione, ci dicevamo a marzo, è la paura di fallire. Se infatti io consisto di ciò che riesco a fare, è normale che io viva in uno stato di permanente ansia di riuscire, il che in negativo vuol dire: paura di non riuscire. Di qui il paradossale «spirito da schiavi»23 di cui abbiamo parlato – posto che lo schiavo è per definizione uno che vive ed agisce in un regime di paura.24

Ora, in che senso la fede spacca le sbarre di questa prigione dell’ansia e della paura? Lo dice bene san Paolo:

E voi [cioè quanti siete stati battezzati in Cristo] non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». (cfr. Rm 8,15)

«Uno spirito da figli». Ricordate nella lezione di marzo il passaggio dall’essere schiavo alla condizione di figlio? La fede mi libera dalla paura innanzitutto perché mi dona uno «spirito da figlio», cioè cambia il contenuto di ciò che vedo quando mi guardo allo specchio: non più un io che deve conquistarsi un nome (cioè una consistenza, un’esistenza reale) con le sue prestazioni; ma un io che si sa figlio, cioè amato “gratis”, prima e a prescindere dall’esito dei suoi tentativi;25 e che per questo è abilitato e portato a darsi a sua volta in gratuità, con cuore lieto, come a riflettere l’amore gratuito di cui si riconosce oggetto.

Ebbene, proprio in Gv 21 c’è una scena che a mio avviso meglio d’ogni altra mostra in atto questo cambiamento di prospettiva – una scena che del famoso dialogo tra Gesù e Pietro che il don Giuss ci ha insegnato ad amare è come l’anticipazione drammatica (vi tornerò poi). È la scena in cui Simone, saputo che l’uomo sulla riva è il Signore, si tuffa in acqua verso di Lui, lasciando perdere barca, reti e tutto quanto.

Ricordo brevemente gli antefatti. Il Signore Gesù è ormai risorto. È già apparso due volte ai dodici radunati nel cenacolo (Cfr. Gv 20,19 ss.). In Gv 21, Egli appare ai suoi per la terza e ultima volta, e lo fa alle prime luci dell’alba, sulla riva del mare di Tiberiade, al termine di una nottata passata da Pietro ed altri sei discepoli in barca a pescare. A un certo punto, il Discepolo amato, più acuto e svelto degli altri, riconosce il Signore e lo dice a Simon Pietro (Gv 21,7). E Pietro cosa fa?

Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito [in greco è gymnos, che vuol dire “nudo”: sotto era nudo!!], e si gettò in mare. (Gv 21,7)

Facciamo attenzione ai dettagli, perché è proprio nei dettagli più materiali, come abbiamo visto già a marzo, che Giovanni nasconde le sfumature di significato più profonde. Così avviene qui: perché Giovanni ci tiene a dirci che Pietro si cinge il camiciotto prima di tuffarsi?

Innanzitutto per farci notare la stranezza del fatto: di norma quando uno si tuffa in acqua si spoglia, mica si veste! Eppure Pietro qui fa l’opposto. Perché? Giovanni non lo dice, ci invita a indovinare. Ebbene, la prima risposta è abbastanza ovvia: il nostro Simone non vuole presentarsi nudo davanti a Gesù (eh, insomma!). Ma è tutto qui? No, non è tutto qui. C’è un altro personaggio nella Bibbia che molto tempo prima di Simone s’era cinto per coprire la propria nudità: è Adamo, il quale dopo aver commesso il primo peccato della storia umana, s’era cinto di frasche per occultare la sporcizia che il peccato aveva lasciato in lui e così non sentire vergogna.26

Comprendiamo così il senso profondo, per così dire “subliminale” del gesto di Simone. Come Adamo, così anche Simone è ancora tutto pieno di vergogna per quel che ha fatto: come brucia ancora il ricordo di quel triplice rinnegamento…

Ma qui viene il bello. All’apparire del Signore nel giardino alla brezza del giorno, Adamo, preso da un moto di paura, s’era nascosto tra gli alberi:

Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».

All’apparire del Risorto all’alba sulla riva del lago di Tiberiade, Pietro fa l’opposto: si tuffa di slancio verso il Signore, come incapace di contenere l’affetto:

Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. (Gv 21,8)

Che bello quest’altro dettaglio: perché Giovanni ci tiene a sottolineare che «non erano lontani che un centinaio di metri da riva»? Per farci percepire la fretta, l’incontenibile desiderio di Simone di raggiungere Gesù, per poter essere di nuovo trafitto dal suo sguardo. Non poteva aspettare un minuto, visto che ormai erano a pochi metri da riva? No, non poteva aspettare, per quell’impazienza che è il contrassegno dell’amore, quand’esso è intenso e insieme sgombro d’ogni inibizione, come è l’amore dei bambini. I bambini fanno così, quando all’improvviso appare qualcuno cui vogliono tanto bene: gli corrono incontro festosi, senza vergogna.

Come è possibile? Come è possibile che Pietro reagisca in questo modo proprio adesso che avrebbe ogni ragione per sentirsi più “sbagliato” che mai?

Qui è cruciale notare un altro contrasto. A dire il vero, non è questa la prima pesca miracolosa operata da Gesù in presenza di Pietro. Se da Giovanni passiamo al vangelo di Luca, ci accorgiamo che Gesù aveva già compiuto un segno quasi identico proprio all’inizio, prima ancora che Simone lasciasse tutto per seguire Gesù (Lc 5,11).27 Ma la reazione di Pietro, allora, era stata diversa. Era stata di fatto uguale a quella di Adamo, all’apparire del Signore nel giardino:

Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore».

Di fronte al manifestarsi del potere del Signore, proprio nel campo in cui lui si sentiva competente (la pesca era la “sua” cosa; quante volte succede anche a noi di ricevere un aiuto, e quasi ci dispiace di non avercela fatta con le nostre forze), la reazione di Simone era stata un sentimento di sproporzione, di inadeguatezza. Quasi che il rivelarsi della grandezza di Gesù mettesse a nudo la sua pochezza. E per questo aveva sentito l’impulso di tirarsi indietro.

Ebbene, perché allora Simone, proprio adesso che avrebbe ogni ragione per sentirsi ancora più indegno, per acquattarsi in fondo alla barca dietro agli altri, si getta invece verso di lui senza paura? È che Pietro non è più lo stesso, è cambiato. E ciò non nel senso che la vergogna per la sua pochezza sia sparita magicamente. Tante volte noi immaginiamo la misericordia come una specie di cancellino che resetta la nostra memoria. Invece la misericordia è qualcosa di assai più grande e meraviglioso di questo. Come abbiamo visto, la vergogna di Pietro per quel che ha fatto non è tolta. Ma è come se non vincesse più. E perché non vince più? Perché Pietro non è più centrato su se stesso, sui suoi meriti, ma sulla certezza di un amore che precede ed eccede ogni merito. Si capisce allora perché prima ho detto che la scena del tuffo di Pietro è davvero l’anticipazione in forma drammatica di ciò che il “sì di Pietro” esprime a parole. Quante volte don Giussani ci ha invitato a immedesimarci con quest’uomo, che si sente chiedere da Gesù – lui, che l’aveva da poco rinnegato tre volte –: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?». E lui, anziché sprofondare nella vergogna, “si sente” invece rispondere, come spinto da un impulso travolgente: «Si, Signore, tu lo sai, lo sai che ti amo – e se me lo chiedessi mille volte, mille volte ti direi: sì, sì, sì…».28

Ecco, questa è la libertà nuova che nasce dalla fede. Una libertà che non è lassismo o disimpegno. Bensì è un impegno che ha come un “motore” nuovo: non più l’ansia d’ottenere chissà quale “risultato”, ma il desiderio di rispondere con tutto se stessi all’Amore senza misura che s’effonde da quella faccia – quella faccia che ti chiede una sola cosa: «Mi ami tu?».29

Tornando alla scena del tuffo, c’è un altro piccolo dettaglio che dice questo in modo un po’ sottile, eppur grandioso. Subito dopo aver narrato il tuffo di Simone, Giovanni scrive:

Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci. (Gv 21,8)

Anche qui: perché Giovanni, con uno spostamento repentino della cinepresa, attira la nostra attenzione su questo dettaglio?

Il fatto è che era stata di Pietro l’iniziativa di andare a pescare: «Io vado a pescare!»30 – aveva detto Pescare era il suo mestiere, e la barca era certamente la sua, così come la rete. Eppure adesso, appena s’accorge che l’uomo sulla riva è il Signore, lascia barca, rete e pesci nelle mani d’altri, e si lancia in acqua verso il Signore.

Ci sta dunque suggerendo Giovanni che l’amore a Cristo porta a disprezzare i pochi o molti beni che ci sono affidati? Ci sta suggerendo che l’amore a Cristo porta a dimenticarsi tutto il resto, come se Egli fosse una sorta di droga, che ci rende liberi sì, ma nel senso di indifferenti a tutto e tutti? Evidentemente no. Ciò che Giovanni ci sta suggerendo è qualcosa di più paradossale. Ma per capire di che si tratta, dobbiamo spostarci alla scena successiva.

I discepoli sono ormai tutti giunti a riva, dove Gesù li aspetta, presso un fuoco di brace con sopra del pesce e del pane. A un certo punto Gesù dice loro: «Portate un po’ del pesce che avete preso». E ancora una volta Pietro anticipa tutti:

Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatrè grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. (Gv 21,11)

Che bello: quello stesso Simon Pietro, che nell’impeto del suo amore per Gesù s’era disinteressato di rete e pesci, quando è Gesù a chiederglielo, si dimostra capace di trascinare da solo a riva una rete piena di 153 grossi pesci (cioè circa un quintale di pesce, secondo le stime).31 Come dire: l’amare Cristo fino a “dimenticarsi” della sua rete piena di pesci, è ironicamente ciò che dà a Pietro la forza di trarre a terra più pesce del più provetto e robusto dei pescatori. Il che, venendo a noi, significa: quanto più cominciamo ad amare Cristo più delle cose e delle persone che ci sono affidate, tanto più l’amore a cose e persone, cioè il farci carico di cose e persone, smette d’essere fonte di stress e diviene, per usare la bellissima espressione di Gesù, «giogo dolce e carico leggero» (cfr. Mt 11,30).

  1. Possesso nel distacco: verso il centuplo

Veniamo così al secondo aspetto di quella visione nuova delle cose, che la fede introduce nella nostra esperienza. La memoria di Cristo non cambia soltanto il nostro modo di guardare a noi stessi. Trasforma anche il nostro sguardo su ciò che è davanti a noi, a cominciare dalle persone e cose di cui siamo chiamati a prenderci cura. In che senso?

In realtà lo abbiamo già detto, descrivendo questo Pietro che prima, per amore di Cristo, si dimentica della rete, e poi, sempre per amore di Cristo, la trae a terra tutto da solo.

Ecco: la memoria di Cristo ottiene in noi lo stesso paradossale effetto. In apparenza, è come se ti allontanasse dal tuo lavoro o dalla faccia di tua moglie, perché se guardi in faccia a Cristo non puoi guardare in faccia tua moglie. In realtà, però, in questo “tuffarti verso Cristo”,32 tu non ti allontani. Piuttosto è come se fossi portato dentro, nell’intimo del volto di tua moglie, perché sei portato nel punto di vista da cui riesci a vederla davvero, nella sua “verità intera”.33 Il che vuol dire: non più come una somma di tratti che ti piacciono e tratti che non ti piacciono (dove più passa il tempo più i secondi aumentano), ma come questa “pecorella”, che il Signore ti affida:

Mi ami tu, Simone figlio di Giona? […] Pasci le mie pecore.

Come notava già sant’Agostino,34 Gesù non dice a Simone «pasci le tue pecore», bensì pasci le mie pecore. Che vuol dire: solo se riconosci che queste pecore non sono tue ma mie – solo allora le puoi pascere davvero, innanzitutto perché cominci a vederle per ciò che veramente sono.35

Ecco, la memoria è come il riaccendersi continuo in noi di questa coscienza – la coscienza che questa donna che è mia moglie, questi bambini che sono i miei figli, non sono innanzitutto miei. Sono di un Altro che me li affida, e proprio così si fa mendicante del mio amore, si “mette alle mie dipendenze”, direbbe Péguy:36 «Mi ami? […] Pasci i miei agnelli».37

Con un cruciale, ironico nota bene, che è il fatto che in questa apparente espropriazione, in questo distacco che sembra espropriarmi, chi ci guadagna sono io, poiché il frutto di questa “riconsegna” è un godere cento volte tanto del rapporto con moglie e figli – è un amare pieno di una gratuità, di una attenzione, di una pazienza e di una fecondità altrimenti impossibili.

Se la tua risposta alla grazia è: «Ti accetto. Sì, Signore, ti voglio bene». «Guida nella storia il mio popolo – gli ha risposto Gesù – pasci i miei agnelli». «Guida nella storia il mio popolo»: questo è altro che centuplo! Così, a te dice: «Se compi il sacrificio di un amore a me senza ritorno, sarai decisiva per tutta la gente che sta andando, camminando verso il suo destino, tutta la gente che non sai, che non conosci».38

Quindi la risposta alla bellissima la domanda che ha fatto una di voi oggi: – come faccio ad avere uno sguardo non possessivo nei confronti dei ragazzi che mi sono affidati? – è questa: la memoria. Ma la memoria non innanzitutto come rimedio ad una paura: «Oddio, ho paura di essere possessiva, quindi devo ricordarmi che questi ragazzi non sono miei»; quanto piuttosto la memoria intesa come porta che mi introduce in un possesso più vero, più puro ma anche più intenso.

Don Giussani, come credo molti di voi sappiano, ha dato il nome di verginità a questa esperienza di possesso nel distacco, che la memoria di Cristo fa attecchire pian piano in noi. Il che, tra le altre cose, vuol dire: la verginità, giussanianamente intesa, non è qualcosa di sperimentabile soltanto da coloro che sono chiamati alla verginità in senso stretto, cioè nel senso vocazionale del termine. No, c’è un senso in cui la verginità è l’ideale di tutti, anche di coloro che sono chiamati a far famiglia, sempre che per verginità si intenda quel che s’è detto.39 E cioè: non innanzitutto uno stato di vita, ma una modalità di rapporto con la realtà, che apre ad un più pieno possesso di essa40 – possesso che è come un assaggio della modalità in cui Gesù vedeva cose e persone, gli uccelli del cielo e il giglio del campo, il volto di Giovanni e quello della Samaritana.

Quale modalità? Il Signore stesso ce lo ha detto, nella sua ultima grande preghiera al Padre: «Erano tuoi e li hai dati a me».41

Cosa vedeva Gesù, mentre guardava negli occhi quella donna che giunta al pozzo con la giara sulla testa lo interrogava? Nel fondo del «pozzo profondo»42 di quegli occhi, pieni di malcelata malinconia, Gesù vedeva il volto del Padre, che Gli stava affidando quella donna: «Erano tuoi e li hai dati a me…».43 Di qui il trasalimento, l’emozione, lo stupore che riempiva i Suoi di occhi, mentre la guardava: un’emozione ed uno stupore quali lei non aveva mai visto negli occhi di alcuno degli uomini che pur l’avevano amata – uno stupore che le penetrava nel cuore ed era come se ne lenisse la sete, come se la dissetasse, pur senza darle “alcunchè” (cfr. Gv 4,10).44 Anzi, non “come se”: la dissetò in effetti (come da Gesù promesso: Gv 4,14!),45 se è vero che la donna «intanto lasciò la sua anfora»46 e corse in paese a raccontare a tutti l’accaduto, come dimentica della sete che l’aveva spinta al pozzo…

Gesù [osserva Giussani in L’autocoscienza del cosmo] era come un bambino di fronte alla gente: si stupiva del fiorellino, si stupiva dell’erba, si stupiva dell’uccellino, si stupiva dei bambini che giocavano, si commuoveva di fronte alla donna che piangeva, aveva pena per chi aveva sbagliato. Ed è certamente dal modo con cui l’ha guardata che la Maddalena è andata da Lui: è dipeso dal modo con cui l’ha guardata. Guardava le cose per quello che erano veramente: una cosa si guarda per quello che è veramente, quando la si vede come la vede Dio.47

E altrove aggiunge:

Dove l’eterno può essere esperienza dell’aldiqua? Nel come ti fa vedere tuo padre, come ti fa vedere tua madre, come ti fa vedere la donna che ami, come ti fa veder l’uomo che ami! C’è un prezzo: un sacrificio dentro, un abbandono dentro; sembra un abbandono, ed è una presa più profonda che dà un risultato più imponente. […] «Cento volte tanto» vuol dire un’esperienza più intensa. Guardare l’oggetto con rispetto – col rispetto che ti mostra con la coda dell’occhio la presenza di Cristo – ti fa guardare, amare l’oggetto, «avventare» sull’oggetto stando a una distanza debita, e usare l’oggetto cento volte meglio. Chi non fa questa esperienza non ha capito cos’è il cristianesimo! Perché il cristianesimo, diceva san Paolo [Gal 2,20], è: «Io, pur vivendo nella carne [vivendo nella carne vuol dire padre, madre, uomo, donna, figlio, amici;…], vivo nella fede del figlio di Dio [guardo, sento, uso la cosa come la guardava, sentiva, usava Cristo]». Questo porta una utilizzazione della cosa, un arricchimento della cosa, una luce sulla cosa, un calore della cosa, una calma della cosa, una pace nella cosa che è cento volte tanto quello che hanno tutti gli altri e che avrei avuto io.48

Immagino che i più tra voi non abbiano mai avuto l’occasione di incontrare dal vivo don Giussani e avere un’esperienza diretta del suo sguardo, del modo in cui ti guardava – con cui guardava tutto. Penso però che tutti o quasi ne abbiate sentito parlare. Ebbene, se dovessi dire ciò che di lui più stupiva me, direi che era il suo stupore – perdonate il gioco di parole: lo stupore con cui ti guardava, con cui guardava tutto. L’esempio famoso del decimo capitolo de Il senso religioso – immaginate di aprire gli occhi per la prima volta sul mondo con la coscienza che avete ora – è in realtà un po’ un autoritratto del don Giuss. Vengono in mente le parole con cui Péguy descrive il genio di Victor Hugo:

Tutta la forza del suo genio viene quasi unicamente da lì: vedeva il mondo non come un oggetto conosciuto, con uno sguardo abituato, ma come l’oggetto primo di uno sguardo primo.49

Non credo d’essere il primo né l’unico cui abbiate sentito raccontare di come don Giussani, guardandoti, sapeva comunicarti la sensazione di essere ai suoi occhi la cosa più interessante e misteriosa del mondo – la prima e sola faccia che avesse mai visto. Se non che, è fin troppo facile fermarsi al mero contraccolpo del fatto, al massimo limitandosi ad attribuirne l’origine allo “straordinario” carisma che al Giuss è stato dato da Dio. Indubbiamente ciò è in parte vero. E tuttavia, come egli stesso una volta mi disse, quasi con stizza, si tratta di un’esperienza che può fare chiunque viva seriamente la memoria50 – chiunque cioè guardando in faccia la sua donna, anziché fermarsi alla superficie del suo “bel visetto”, penetri fino alla radice abissale da cui quella faccia erompe in ogni istante, come un avvenimento sempre nuovo.

Un aneddoto famoso dice tutto questo in modo mirabile. Si tratta dell’incontro che il Giuss ebbe, ancora giovane prete, con un cinico ex-seminarista, che uscito dal seminario s’era finalmente innamorato e poi sposato. Permettetemi di leggervi uno dei racconti dell’episodio che don Giussani ci ha lasciato:

Vi ricordate il mio amico di Saronno? C’era un seminarista che era un tipo cinico e scettico (eravamo già al liceo), aveva stampato sulle gote, come due pezzi di ghiaccio, un riso sardonico con cui prendeva in giro tutti, dal rettore all’ultimo compagno, l’unico con cui parlava sotto i portici ero io. Comunque, in terza liceo uscì, se ne andò, giustamente. Vent’anni dopo, ero a Saronno, alla stazione di Saronno […], arriva il treno e, come arriva il treno, mi sento battere una mano sulla spalla. Mi volto: era lui. Dopo vent’anni, con un sorriso un po’ più masticabile: «Buongiorno, professore, dove va?» «Devo andare a Milano.» «Senta, io dovevo andare a Varese, ma vengo a Milano con lei, così facciamo quattro chiacchiere.» Ed è venuto a Milano con me […]. Lui era lì, guardava fuori dal finestrino e io osservavo che la sua silhouette era diversa da un tempo. E, infatti, incomincia esattamente così: «Debbo dirle che aveva ragione – perché io gli dicevo: “Cambierai quando ti innamorerai di una ragazza” e lui dava in escandescenze quando gli dicevo così in seminario –, aveva ragione: mi sono innamorato di una ragazza cui sono affezionatissimo da ormai un po’ d’anni, abbiamo due bambini; insomma, quello che lei diceva si è avverato: son cambiato». Ma, appena detto così – zac! – la maschera scettica gli si fa subito sulle gote (improvvisa, perché era diventato diverso) e dice: «Però c’è una cosa che, quando capita, mi dico: “Ma forse avevo ragione io”. Perché quando sono lì con mia moglie e le ripeto certe parole: “Ti adoro, per sempre, nessuna più se non te, sei la più bella del mondo”, mi vien da ridere, mi vien da ridere perché è una bugia! È una bugia: lei non aveva ragione; non si sa come resistere a quello che lei dice, però non è vero perché è una bugia, ci sono momenti in cui appare come bugia!». E lì, io sono rimasto un po’ impacciato in un primo momento. Subito dopo gli ho risposto pressappoco così: «Immaginati che la faccia della tua donna sia come un punto di fuga, un punto che si apre dentro lo scenario dell’universo, e da quel buco lì intravedi da dove viene la luce per tutto, che illumina tutto e da dove viene quel fiato che fa la forma di tutto. Cioè guardi la tua donna come segno del Mistero, il segno dell’altra cosa. Perciò mantieni il sentimento».51

Si comprende così meglio perché per Giussani il dramma della libertà si giochi, prima e più che altrove, nella dinamica della conoscenza, come la Scuola di comunità sul terzo capitolo de Il senso religioso ci ha di recente fatto riapprezzare.52 Ciò non significa affatto, come una lettura sciatta dei testi del nostro potrebbe suggerire, che Giussani non avesse a cuore il cambiamento anche etico della persona. Significa piuttosto che egli ha capito che il dramma più profondo della libertà si situa sempre – e nell’uomo d’oggi più che mai – nell’atto stesso del conoscere e guardare, cioè appunto al livello di quel che ci si dà (o non ci si dà) la possibilità di arrivare a vedere. Di qui il fatto che l’ascesi, per Giussani, ha a che fare prima di tutto cogli occhi – è una strada di affinamento dello sguardo.53 Il resto è conseguenza.54

  1. «Un nuovo focolare»: la compagnia vocazionale

Ultimo passaggio. «Don Paolo, tutte queste cose sono belle e desiderabili » – mi ha detto una di voi, da cui sono stato a cena poco tempo fa – «ma poi, quando mi trovo al lavoro davanti alla mia capa, o semplicemente nel mezzo della giornata, da sola di fronte alle circostanze, è come se mi sembrassero astratte, cioè impossibili da vivere». A questo punto mi sono permesso di stopparla, per non impedirle di perdere per strada l’importanza di quel che lei stessa aveva detto: «Hai ragione, – le faccio – da sola non vai da nessuna parte». E infatti, se leggiamo il prologo dello statuto della Fraternità, che abbiamo anche riportato nell’ordine del giorno di questo raduno, che cosa vi leggiamo? Quale è lo scopo della Fraternità di CL?

La natura specifica del […] carisma [di CL] può essere così descritta: [primo] – l’insistenza sulla memoria di Cristo come affermazione dei fattori sorgivi dell’esperienza cristiana in quanto originanti la vera immagine dell’uomo [e di questo mi pare abbiamo parlato già parecchio]; [secondo] –- l’insistenza sul fatto che la memoria di Cristo non può essere generata se non nella immanenza ad una comunionalità vissuta.

Ecco: gli occhi nuovi di cui abbiamo parlato non si affinano guardando un tutorial su YouTube o frequentando il corso di self-coaching di questo o quel guru. La memoria di Cristo, che è la vera forza motrice del cambiamento della nostra mentalità, «non può essere generata» – dice don Giussani – «se non nella immanenza ad una comunionalità vissuta» (con tutte le precisazioni fatte in assemblea).55 Attenzione: don Giussani non dice qui che la comunionalità vissuta generi la fede. La fede ci è data per grazia, per un avvenimento di grazia che accade come e quando Dio vuole e che oggettivamente si chiama battesimo.56 Giussani dice piuttosto che l’immanenza ad una comunionalità vissuta è necessaria a generare in noi la memoria – e cioè appunto, come si è detto, la fede in quanto principio di un modo nuovo di stare nella realtà.

È solo dentro una comunionalità vissuta, insomma, che la memoria trova l’alimento e il sostegno necessario a informare la vita.

Torniamo al nostro “tuffo di Pietro”. È significativo che Pietro riconosca Gesù che si erge sulla riva non da sé stesso, ma grazie ad un’imbeccata del discepolo amato.

Che bello: chi d’impeto si tuffa, come un innamorato che d’improvviso veda la sua bella nella folla, è Simone. L’atto di memoria, lo slancio del cuore, è sempre personale: è mio e tuo. Eppure è come se non potesse essere innescato senza l’aiuto dei tanti Giovanni che il Signore ci mette accanto, come compagni di cammino.

Un altro passo del IV vangelo, sempre con protagonista Pietro, illustra questo punto ancora meglio. Si tratta della famosa scena del triplice rinnegamento.57 Tra i dettagli di questo racconto, vi invito a fare attenzione soprattutto al fuoco vicino al quale Pietro si trova quando rinnega Gesù:

La giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. (Gv 18,17-18)

Anche in questo caso, come al solito, è cosa buona e giusta chiedersi: perché mai Giovanni, dopo averci raccontato dei primi due rinnegamenti, spende un intero versetto per informarci che i servi e le guardie si trovavano attorno ad un fuoco a causa del freddo, e che anche Pietro se ne stava lì con loro per scaldarsi? Che ci importa?

È chiaro che anche qui non si tratta di puro amor di cronaca. No, Giovanni ci sta ancora una volta invitando a leggere tra le righe (con gli occhi della fede!). Chiediamoci dunque: cosa rappresentava il fuoco (o più precisamente il focolare, cioè il fuoco acceso dall’uomo) nell’antichità? La risposta, per noi moderni meno immediata, è: focolare è per l’uomo antico sinonimo di casa. Dove c’è una casa c’è un focolare, c’è il fuoco. Ma la casa è anche il luogo in cui l’uomo vive con la sua famiglia, con altri. Il fuoco allora passa immediatamente a simbolizzare quel riparo, quella fonte di sicurezza che ogni individuo trova nel suo clan. La vera casa, il vero focolare dell’uomo sono i suoi legami. L’uomo è relazione, è un «animale sociale» diceva Aristotele.58 Il che in negativo significa: quando ti ritrovi solo contro tutti, quando non hai il sostegno dei “tuoi”, pur di avere un posto attorno al focolare, ti ritrovi, senza neanche accorgerti, a rinnegare anche tua madre. Perché a star soli non ce la si fa, fa troppo freddo. Ed il freddo non solo taglia le gambe: annebbia anche la vista…

Permettetemi un breve excursus autobiografico, prima di chiudere. Come qualcuno di voi sa, prima di andare in America, ho passato in Russia cinque anni. Ebbene, mi impressionava sempre, nell’ascoltare i racconti della mia anziana professoressa di russo sugli anni di Stalin, il fatto che persone anche di grande levatura – letterati, filosofi, scienziati – avessero potuto dimostrare un simile entusiasmo per Stalin ed il suo regime. Certo, non si può generalizzare. E tuttavia, l’idea che mi feci allora è che perlomeno alcune di queste a suo tempo illustri personalità fossero in buona fede. Alcuni certamente recitarono una parte per paura. Ma qualcuno sembra proprio fosse sincero. Come si spiega? A mio parere, si spiega col fatto che quando sei circondato da gente che tutta quanta la pensa in un certo modo, che ti ripete da mattina a sera che il verde è arancione, finisci per convincerti che sei tu che sbagli e che veramente il verde è arancione, “arancionisssimo”! A tal punto è forte in noi non tanto l’istinto di conservazione, quanto il bisogno di comunione.

Si capisce così la necessità vitale di quella che Giussani chiama «immanenza ad una comunionalità vissuta». In un mondo in cui tutto cospira a convincerci che i «pazzi siamo noi» – per fare il verso al grande De Gregori,59 è di fatto impossibile non finire per adeguarsi e vivere come tutti se non si ha un “focolare alternativo”, capace di scaldare con la sua fiamma il nostro cuore fino al punto da farlo ardere d’amore per Cristo, costi quel che costi; capace di rischiarare con la sua luce le nostre menti, altrimenti così facilmente esposte a cadere in balìa di «qualsiasi vento di dottrina».60

Non a caso, c’è un solo altro focolare in tutto il vangelo di Giovanni, oltre a quello presso cui Simone rinnega Gesù. È il focolare attorno a cui i sette discepoli si raccolgono insieme, invitati dal Risorto.61 Come dire: ciò che trasforma Simone da vile rinnegatore in intrepido testimone del Signore, capace di dare la vita per Lui (cfr. Gv 21,18), non è solo la “sua” individuale fede nel Signore. È anche il permanere in quella comunione ecclesiale, che è il luogo concreto in cui questa fede è continuamente riattizzata – il luogo concreto in cui Egli continuamente si rende Presente, fino al giorno del Suo Ritorno.

Come avrete notato, il terzo dei tre pilastri del carisma che erano all’ordine del giorno non è stato trattato. Perciò vorrei lanciarlo come provocazione e come sfida (quindi da meditare) anche in preparazione dell’assemblea. Mi limito a leggerlo e ad affidarlo alla vostra riflessione e magari ai dialoghi tra voi, fino all’assemblea di domani. Sarebbe bello che qualche spunto emergesse anche su questo. È come se ci facesse vedere l’altra faccia della medaglia del punto due. Il punto due era che la memoria genera la comunione. Il punto tre è l’insistenza sul fatto che la memoria di Cristo inevitabilmente tende a generare una comunionalità visibile e propositiva nella società. Come dire: la comunione genera la memoria e la memoria genera a sua volta la comunione.

Note

6 Il titolo di questa lezione – «Un cammino dello sguardo» –, riprende un’espressione di Ignace de la Potterie notoriamente cara a don Giussani: «È incontrando una certa presenza che la persona incomincia a capir se stessa, a capire qual è il suo destino, a capire come andare al suo destino e con quale energia camminare. L’incontro con una presenza non costituisce ontologicamente la persona nella sua soggettività: l’incontro risveglia qualcosa che era oscuro, qualcosa che era esistenzialmente impensato e impensabile. L’avvenimento è dunque il metodo con cui l’io si riconosce. L’io costituito è l’io che si è riconosciuto. Poiché l’avvenimento è un metodo, un cammino, si tratta di un’esperienza da fare. Ha detto il grande biblista Ignace de la Potterie: “La fede cristiana è un cammino dello sguardo”. Non è frase poetica o astratta: è la descrizione esatta, fattuale di un metodo. Lo sguardo prima intravvede, poi incomincia ad avere la percezione di fattori più distinti e solo in seguito incomincia a sorprendere la possibilità di un significato. Aumentando l’attenzione a questo significato, capisce che è vero» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, BUR, Milano 2003, p. 59).
7 La domanda, come noto, è quella rivolta dai farisei a Gesù, subito dopo che egli ha preso ironicamente atto del fatto che, mentre un cieco nato ha saputo credere in Lui al primo sguardo (!), essi che ci hanno sempre visto benissimo, sembrano incapaci di leggere correttamente ciò che vedono. Come dire: la coscienza di essere ciechi, cioè di aver bisogno d’occhi nuovi, è condizione per poterli ricevere in dono dal Signore, mentre chi crede di vedere già tutto perfettamente, difficilmente potrà lasciarsi introdurre da Lui in una visione nuova e più profonda della realtà (in questo caso la realtà di Gesù stesso). Val la pena citare l’intero passaggio: «Gesù allora disse: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”» (Gv 9,39-41).
8 Come tanti hanno rilevato, fenomeni come great resignation e quiet quitting sembrerebbero segnalare il tramonto della società di prestazione e la crisi del modello antropologico che la fonda. Se ciò è in parte vero, si deve d’altro canto dire che i medesimi fenomeni possono ed a mio avviso devono essere letti come segno del perdurante dominio del paradigma antropologico di fondo, posto che ogni spinta all’evasione presuppone il sentimento d’essere in prigione. Il fatto che l’“ansia da prestazione” tenda ad invadere ambiti che poco o nulla hanno a che fare con la professione (penso soprattutto al campo dell’affettività), come testimoniato da molti quest’estate, mi sembra confermare che, in realtà, il modello antropologico del self-made man è tutt’altro che “oltrepassato”. La questione affonda le radici più in profondità, come si è cercato di illustrare già a suo tempo (cfr. «3. Alla radice del malessere: il self-made man e la dimenticanza del Dio tutto in tutto», in «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani», Assisi, 23-26 Marzo 2023, pp. 17-21, clonline.org.
9 Già nella prima lezione di Assisi lo si era in realtà rimarcato, sebbene solo in nota (cfr. «Gli hai dato potere …», cit., p. 15, n. 7).
10 Cfr. Ibidem, pp. 21-27; 64-65.
11 Francesco, Lettera enciclica Lumen Fidei, 18, 22, 30.
12 Cfr. «Gli hai dato potere….», cit., p. 19, n. 15.
13 Esempio emblematico di questa “atrofizzazione” della facoltà visiva, mi pare la diffusione a macchia d’olio dell’ideologia gender (perlomeno nelle società occidentali – il fenomeno è significativamente irrilevante in Africa ed Asia). Senza entrare nello specifico, è interessante osservare come le diverse teorie gender, pur diverse tra loro, tutte si fondano su di una insindacabile premessa: il corpo umano non rivela nulla di profondo circa il suo significato ed il suo scopo. Si può dire che il corpo è qui considerato più o meno alla stregua di una macchina, di cui grazie alle diverse scienze (modernamente intese) possiamo conoscere sempre meglio le leggi di funzionamento, ma nulla di più. Che vi sia un linguaggio, una musica iscritta dal Creatore (o dalla natura, per usare una grammatica più laica) nel corpo umano – una musica piena di senso, bellezza e intrinseca bontà – ciò è divenuto di fatto invisibile ad un numero sempre maggiore di uomini e donne.
14 L. Giussani, Il senso religioso, BUR, Milano 2023, p. 172.
15 Cfr. Ireneo di Lione, Adversus Haereses, 5.15.2.
16 Gen 2,7.
17 Gv 9,7.
18 Identifico fede vissuta e memoria perché la parola memoria, così come don Giussani la usa, indica esattamente la fede in quanto tende ad investire tutto ciò che entra nel raggio della nostra esperienza. Quanto la parola memoria sia centrale nella comprensione giussaniana della vita di fede, basta a farlo capire il prologo dello statuto della Fraternità, in cui si legge, tra le altre cose: «Il senso profondo del movimento è il richiamo alla memoria di Cristo, quotidianamente vissuta nelle circostanze della vita» (L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2002, p. 233; corsivo mio).
19 «“Quel che faccio, ora non lo capisci, lo capirai più tardi”, gli risponde Gesù. Che vuol dire: “Non è il mio gesto che è folle. Sei tu che ancora non capisci”. E perché Pietro non capisce? […]: perché se Pietro avesse capito tutto subito, allora non avrebbe avuto bisogno di alcun cammino dietro a Gesù, per entrare in un punto di vista nuovo sulla realtà – quel punto di vista nuovo […] nel quale Cristo è venuto a introdurci. Per entrare nel punto di vista di un altro, per arrivare a vedere il mondo con gli occhi di un altro, io devo muovermi, devo spostarmi dalla mia posizione di partenza […], per assumere il punto di osservazione di quest’altro. […] Il che richiede un cammino […], un viaggio» («Sintesi», in «Gli hai dato potere…», cit., pp. 64-65).
20 «Se c’era uno che l’incontro lo aveva fatto, quello era lui. […] Eppure quello stesso uomo, Gesù di Nazareth, quell’uomo che ormai era il centro della sua vita, Simone non lo capiva. Non lo capiva! O meglio: lo capiva in parte. Capiva che quell’uomo era il Messia […] Eppure – c’era da impazzire! – capiva anche che non Lo capiva. Cosa non capiva? Non capiva cosa volesse veramente dire che Egli era il Messia, non capiva dove volesse andare a parare, talmente era diversa la Sua logica da quella di tutti, a tal punto era diverso il Suo modo di muoversi da quello di tutti (…): “Quello che faccio non lo capisci ora, lo capirai più tardi”. Come è stato per Pietro, così è per noi. Non si entra nel punto di vista di Cristo di schianto. Lo si riconosce di schianto, ma si entra nel Suo punto di vista pian piano e mai senza lotta» (Ibidem, pp. 67-68).
21 Gv 13,7.
22 Per l’importanza di questo punto cruciale, su cui qui non mi soffermo, vedi qui, p. 93 : «Sintesi, 1. Vogliamo vedere Gesù».
23 Rm 8,15.
24 «Lo schiavo vive nella paura e nell’angoscia di sbagliare, perché sa che se sbaglia, se non fa tutto ciò che da lui ci si aspetta, sarà frustato. Il soggetto di prestazione non ha paura della frusta altrui, bensì di quella del suo stesso “ego” (o meglio “super-ego”), che gli dice che se non ce la fa – è una nullità» («Gli hai dato potere…», cit., p. 15; cfr. pp. 14-16).
25 L’idea è magnificamente messa in parole da Claudel, nel suo Annuncio a Maria, attraverso la bocca di Anna Vercors. Ormai in procinto di partire per la Terra Santa, così il contadino si rivolge alla figlia Violaine: «L’amore del Padre [dice Anna Vercors a Violaine nell’annuncio a Maria] non chiede compenso e il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Com’era con lui fin dal principio, così resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, suo titolo, sua giustificazione. […] Sappi soltanto ch’io sono, bambina, il padre tuo» (P. Claudel, L’Annuncio a Maria, BUR, Milano 2001, p. 66).
26 «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7).
27 «Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”. Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,4-11; corsivi miei).
28 «Proviamo a immedesimarci nell’animo di quell’uomo schietto e rude: davanti al Signore aveva l’anima tutta piena del ricordo del suo tradimento. Il suo tradimento era però semplicemente l’epifania, l’epifenomeno, il manifestarsi, in un momento, di qualcosa che aveva dentro, cioè di una ruvidità, di una ingenerosità, di una caparbietà, di una paura, di una timidezza, di una vigliaccheria, di una meschinità, che era lui – lui! –. Aveva l’animo pieno di questo e davanti a quella domanda tutto veniva a galla. Il tradimento era come una punta rivelatrice: veniva a galla la sua miseria, tutta la sua miseria. […] Simone si è sentito in tutta la sua pochezza, pusillanimità, meschinità d’uomo. “Simone, mi ami tu più di quanto mi amino gli altri?” Quando ha risposto: “Signore, certo, io ti amo”; quando ha detto: “Signore, tu sai tutto: nonostante tutte queste apparenze, nonostante tutte le apparenze di me a me stesso, tu sai che ti voglio bene, che ‘ti’ voglio” – perché “ti voglio bene” vuol dire “ti voglio”, e “ti voglio” vuol dire “ti affermo, riconosco quel che sei, riconosco quel che sei per me e per tutti” –, questo è stato lo sconvolgimento del moralismo e della giustizia fatta con le nostre mani. Quello lì infatti era un povero peccatore come me e come te, era un povero peccatore che aveva appena tradito, tra l’altro, in modo indecente, come a memoria nostra – forse – così spudoratamente nessuno ha mai fatto. Era pieno di errore, eppure gli voleva bene; poteva averne fatti centomila in più di errori, eppure gli voleva bene, e ha potuto dire: “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo”. Allora il Signore gli disse: “Ti affido la testimonianza mia nel mondo”. Ha affidato la testimonianza Sua, ha affidato il Suo regno nel mondo a quel meschino peccatore» (L. Giussani, La verità nasce dalla carne, BUR, Milano 2019, pp. 135-136).
29 Gv 21,15-17.
30 Gv 21,3.
31 Anziché scervellarsi sul significato allegorico del numero 153, come di solito (legittimamente) si fa, ci si dovrebbe a mio avviso innanzitutto chiedere, in ossequio al modo giovanneo di intrecciare narrazione e simbolo: perché Giovanni, oltre a dirci che i pesci erano 153, ci tiene a specificare che erano grossi? La risposta è chiara: perché ciò che per Giovanni conta, è prima di tutto far capire che la rete doveva pesare parecchio!
32 Per inciso, è bellissimo che nel lanciarsi verso Gesù, Pietro finisca per immergersi tutto in acqua – dove l’allusione al battesimo (baptisma = immersione) è patente. Come dire: la memoria vissuta ci “ri-battezza”, ci ri-genera ogni volta, il che anche vuol dire: ci “lava” occhi, mani, etc.
33 Val la pena osservare che questa dinamica non è che l’approfondirsi e per così dire l’espandersi mediante la fede, di una dinamica che secondo Giussani è già valida al livello della conoscenza contemplativa naturale: «Per conoscere un quadro non dobbiamo andar lì con l’occhio a un millimetro. Allora diremmo: “Che macchie che ci sono qui!” e spostandoci: “Che macchia!”. In un giorno e mezzo, rompendoti la schiena, lo fai passare tutto […], ma: macchia più macchia […] che hai viste, non lo puoi godere. Se uno ti viene lì a prendere per il collo e ti strappa indietro di un metro: ah, il quadro lo si vede! Senza questo distacco non si conosce, e perciò non si può usare, né si può godere» (L. Giussani, Si può vivere così?, BUR, Milano 2009, pp. 267-268). È suggestivo in proposito notare che la parola con cui in russo si designano tanto la castità quanto la temperanza è zelo-mudrie (cfr. il greco sophrosyne) – termine che, a voler rendere giustizia all’etimologia, andrebbe tradotto: scienza o sapienza (mydrost) dell’intero, della totalità (zelo = intero, totale). Come dire: senza un certo distacco, non ci può essere penetrazione nella profondità della cosa né, che è lo stesso, percezione di essa come un intero pieno di senso.
34 «Coloro che pascono le pecore di Cristo con l’intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l’obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l’Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Fil 2,21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo» (Agostino d’Ippona, In Evangelium Ioannis tractatus, 123,5; cfr. anche Sermo 147/A,2).
35 È interessante in questo senso notare che uno dei tanti modi in cui don Giussani descrive la verginità, intesa come esperienza dello spirito, è rapportarsi alle cose secondo la loro verità (mi è impossibile offrire il riferimento preciso, in quanto la definizione è tratta da scritti ancora non pubblicati e accessibili solo pro manuscripto).
36 «Colui che ama si mette, per questo stesso, / Per questo soltanto, di per questo, in dipendenza / […]. Dipende da colui che ama. / Eppure è questa la situazione, bambina, in cui Dio si è messo, amandoci. /Dio si è degnato di sperare in noi, poiché ha voluto sperare da noi, attendere da noi» (C. Péguy, I Misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 230).
37 Commenta ancora Agostino: «Mi ami? domandò. Signore, tu sai che ti amo. Ed egli: Pasci i miei agnelli. Questo una prima volta, questo una seconda, questo una terza; come se Pietro non avesse avuto altro modo di dimostrare il suo amore per Cristo, che con l’essere pastore fedele sotto il Principe di tutti i pastori. Mi ami? Ti amo. E quale sarà la tua corrispondenza amandomi? Che offrirai tu, uomo, a me tuo Creatore? Che prova darai del tuo amore, tu, riscattato, al tuo Redentore, tu che al più sei soldato, al tuo Re? Che darai? Esigo questo solo: Pasci le mie pecore» (Agostino d’Ippona, Sermo 147/A,1).
38 L. Giussani, Vivendo nella carne, BUR, Milano 1998, pp. 213-214.
39 «Uno incomincia a capire che non può amare – amare! – la persona della ragazza con cui entra in rapporto affettivo, non può rispettare la dignità di quell’essere se non la guarda in un certo modo, con un distacco dentro, se non ne vive il rapporto con un distacco dentro, con un rispetto dentro, che costa strappo, attesa, sacrificio, taglio, il coraggio di un arresto, il favorire l’emergenza d’una prospettiva più globale, in cui l’abbraccio che porta all’essere che ama coinvolge l’universo. Lo senti l’universo che ti preme ai gomiti mentre l’abbracci, perché è un compito per l’universo il compito che hai verso quell’essere, e se non hai compito verso quell’essere, tu vuoi dominare semplicemente quell’essere, possederlo e basta» (L. Giussani, «La fede è un cammino dello sguardo», 30 Giorni, n. 9/1995, p. 45).
40 D’altra parte, una attenta lettura dei testi (pubblicati) in cui don Giussani parla di questo tema (si vedano soprattutto i volumi delle Quasi Tischreden), dimostra come l’audace linguaggio di Giussani non intenda affatto sminuire né tantomeno assottigliare l’aspetto di sacrificio che tanto la condizione di vita celibataria quanto il matrimonio cristianamente vissuto portano con sé. Il pensiero di Giussani in materia riflette piuttosto – in perfetta fedeltà al più genuino spirito evangelico e paolino – la logica pasquale, secondo la quale il perdere e il lasciare sono nel cristianesimo ordinati al “ritrovare moltiplicato” – la mortificazione alla resurrezione: “Quanto più uno ha preferenza, tanto più ha necessità di fondarla nel sacrificio, per fondare quella preferenza sull’Eterno, che è il Gesù di Giovanni e Andrea. Perché l’Eterno è entrato nel mondo dove c’è ciò che guardo con preferenza. È entrato nel mondo con Giovanni e Andrea, con la Madonna, con Giuseppe, nel modo che il vangelo descrive. Quanto più uno ama, quanto più uno preferisce, tanto più ha come una strana necessità di sacrificio. Che non è per Gesù! Il sacrificio non è per Gesù, ma è per le realtà di questo mondo, perché siano vere! Così, adesso ho detto una bellissima cosa, che è la prima volta che dico: quanto più uno ama, quanto più uno ha preferenza, tanto più ha come una strana necessità di sacrificio perché emerga quel che viene “prima” nel rapporto. E così il rapporto sta, diventa vero, sempre più vero, e non va via più, cioè diventa eterno. E l’Eterno che entra nel rapporto, nel rapporto amato, lo rende segno, ma segno questa volta reale, come segno più vicino per analogia al sacramento, segno cioè che porta dentro di sé la sua verità. […] Quanto più si ama una persona (o una cosa, che è analogo), tanto più uno ha necessità di sacrificio, perché la persona che ama diventi vera, cioè lasci uno spazio in cui la presenza che è accaduta – la presenza del Gesù di Giovanni e Andrea – entri» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, BUR, Milano 2001, pp. 29, 33).
41 Gv 17,6.
42 Gv 4,11.
43 «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola» (Gv 17,6).
44 «Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”» (Gv 4,10).
45 «Gesù le rispose: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. “Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”» (Gv 4,13-15).
46 Gv 4,28.
47 L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, BUR, Milano 2000, pp. 205-206.
48 L. Giussani, Vivendo nella carne, cit., pp. 187-188.
49 C. Péguy, Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, Piemme, Casale Monferrato 2002, p. 26.
50 «Infatti la parola sacrificio non indica affatto necessariamente fatica o dolore o – meglio – rinuncia, fatica come rinuncia. Non vuol dire affatto necessariamente questo. Vuol dire far penetrare la memoria di Cristo in quello che ami; allora quello che ami diventa più vero, perché viene penetrato dall’Eterno» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, cit., pp. 33-34).
51 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 2020, pp. 556 e 557.
52 Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, cit., pp. 31-44.
53 «Per amare la verità più di se stessi, per amare la verità dell’oggetto più dell’immagine che ci siamo fatti su di esso, per questa povertà di spirito, per questo occhio sgranato di fronte al reale e alla verità come quello del bambino, occorre un processo e un lavoro. Anche qui il processo faticoso si chiama “ascesi”» (L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 44).
54 Non credo sia un caso, sia detto per inciso, che la vita iper-tecnologizzata e frenetica tipica delle società occidentali contemporanee, sia connotata da un pansessualismo proporzionale alla povertà di educazione al silenzio ed all’arte del contemplare. In effetti, la castità è valore comprensibile solo a chi conosce il gusto della contemplazione, poiché è proprio e solo nel fare questo tipo d’esperienza che si impara a sentire la distanza come mezzo di penetrazione nel profondo di cose e volti, anziché come mera astensione; come via al gustoso possesso anziché all’amara privazione. Viceversa, il valore della verginità non potrà che rimanere un ultrasuono per chi a quest’esperienza non è mai stato iniziato da nessuno. Per un approfondimento in merito, mi permetto di rimandare a: P. Prosperi, «Do Not Hold Me: Ascending the Ladder of Love» – Communio ICR 45 n. 2 (Summer 2018).
55 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, cit., p. 233.
56 Non a caso il cieco nato riacquista la vista solo dopo essersi lavato alla piscina di Siloe (che significa Inviato, nota Giovanni: allusione all’Inviato dal Padre, ossia Gesù?), Gesù «gli disse: “Và a lavarti nella piscina di Sìloe” – che significa Inviato –. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva» (Gv 9,7). Come immancabilmente rimarcato dai commentatori d’ogni tempo, vi è qui una chiara allusione al rito del battesimo.
57 Giovanni spezza curiosamente in due il racconto dell’episodio (non indugio qui sul perché). Noi ci soffermiamo sul primo “spezzone”.
58 Aristotele, Politica, libro I.
59 «“Ma io non ci sto più”, e i pazzi siete voi / Tutti pensarono dietro ai cappelli / “Lo sposo è impazzito oppure ha bevuto”» (F. De Gregori, Alice, dall’Album Alice non lo sa, 1973 – It, ©Universal Music Publishing Group).
60 Ef 4,14.
61 «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. […] Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, poiché sapevano bene che era il Signore» (Gv 21,9.12).