Cosa ci libera da questa prigione?

Vincent Van Gogh – Lettere a Theo, Guanda, Parma 1984, pp. 87-88 → 

“C’è fannullone e fannullone. C’è chi è fannullone per pigrizia o per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi prendermi per uno di quelli.

Poi c’è l’altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me, che è dunque? Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale.

Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: “gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata”, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. “Ecco un fannullone” dice un altro uccello che passa di là, “quello è come uno che vive di rendita”. Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Accessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. “Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!”.

Quel tipo di fannullone è come quell’uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile… Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede “Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?”.

Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita.”

4 Commenti

  1. È l’amore che ci libera!
    Vorrei citare una delle più belle canzoni di Jovanotti in proposito:
    “Un prigioniero dentro al carcere infinito
    Mi sentirei se tu non fossi nel mio cuore
    Starei nascosto come molti dietro ad un dito
    A darla vinta ai venditori di dolore (…)
    Considerando che l’amore non ha prezzo,
    Sono disposto a tutto per averne un po’
    Considerando che l’amore non ha prezzo,
    Lo pagherò offrendo tutto l’amore,
    Tutto l’amore che ho”

    Da “Tutto l’amore che ho” https://youtu.be/D3HwnYbU_1A

  2. A me sembra che il punto sia un altro. E si trova proprio alla fine della lettera di Van Gogh:
    “Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita.”
    Un mio caro compagno di cammino diceva che “il nuovo ha bisogno di un amico per vivere”.

  3. Il problema è che noi uomini ci imprigioniamo da soli, ci mettiamo in gabbia con le nostre stesse mani; per non sembrare “diversi” dagli altri, ci uniformiamo anche se non ne siamo proprio convinti. E poi ci proclamiamo “schiavi”, ingabbiati, imprigionati
    Ma noi siamo nati liberi, siamo liberi. Siamo noi gli artefici della nostra vita, non gli altri. Trovo questo articolo quanto di più attuale possa esserci.
    La gabbia dell’uccellino la leggo come una metafora della nostra Società: prigionieri del consumismo, dei Social, della tecnologia, dell’egocentrismo, della mania di controllare tutto e tutti. Pensiamo di essere più liberi rispetto a 20 anni fa, solo perché abbiamo “tutto il mondo in tasca”; ma invece ci hanno ingabbiato: siamo schedati, siamo monitorati, siamo invogliati a fare determinati acquisti piuttosto che altri, siamo schiavi di questo apparire in modo perfetto sempre e comunque, quasi ipnotizzati.
    Ci hanno “deliziato” di strumenti promettendoci maggior libertà, e in realtà ce l’hanno tolta (vedi il cellulare: comodissimo, per carità, ma siamo sempre reperibili, e se per caso è scarico andiamo in crisi: e ora come faccio? E 30 anni fa come facevamo???)
    Quanta è bella invece la libertà? Quanto è più bella una corsa all’aria aperta piuttosto che una corsa simulata sulla Wii?
    Quanto è bello vedersi con un amico piuttosto che raccontarci al mondo sul Facebook? Quanto è bella la vita privata piuttosto che spiattellata al mondo?
    E allora? Allora non dobbiamo diventare schiavi di questi strumenti, non devono diventare la nostra vita, ma rimanere meri strumenti con cui “agevolarla”.
    Il telefono è uno strumento per comunicare; ma se io sono in compagnia di un’altra persona, io devo parlare con la persona che mi sta davanti, non chattare con un amico al telefono ignorando la presenza in carne e ossa dell’altro. E purtroppo è una cosa sempre più comune.
    Mi è successo durante le ferie; ero pranzo con mio marito e i miei genitori. Eravamo a Trento e accanto a noi ci stava una tavolata di otto persone, verosimilmente dal vestiario colleghi di lavoro in pausa pranzo.
    Ognuno col suo telefono, insieme ma tutti da soli. Tristezza infinita. Umanità zero. Hanno alzato gli occhi solo per ordinare la loro pietanza e solo per chiedere chi volesse il caffè.
    Ecco, quelle persone non sono libere. Libertà non vuol dire “faccio quello che voglio”; libertà significa non essere quello che la società vorrebbe che fossimo (per controllarci e “pilotarci”) a tutti i costi, non farsi schiacciare da ciò che ci vuole schiavi; non mettere in secondo piano i rapporti umani per degli oggetti, non oscurare gli altri per far emergere solo noi stessi e non imporre il nostro pensiero a nessuno, ma nemmeno cambiarlo solo per “far colpo” sugli amici o sull’etere.

  4. “Gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile…”, come è vero che tanti preferiscono una gabbia sicura o si trovano fatalmente a scegliere la prigione di fronte a un bivio, dimenticando l’amore.
    La conclusione di questa riflessione è davvero lampante! Splendida.
    C’è davvero chi spende la propria vita ad alzare muri e generare sofferenze, forse anche dando buoni consigli…
    Si chiama ipocrisia, dal greco upokrisis, ‘simulazione’.
    Sarebbe bello che tutti noi invece sottoscrivessimo fin dal fondo del nostro essere queste belle parole di Van Gogh.
    L’amicizia, l’amore, la fratellanza… Ed è complicato, sono la prima a dirlo, poiché come mi disse una persona molto cara, il cristianesimo è fatto solo per audaci.
    A spendersi per gli altri non ci vuole solo carità e amabilità. Ma coraggio e slancio vitale.
    Viviamo in un mondo di pavidi.

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