Io sono tu che mi fai!

Giussani – Carron

LO STUPORE DELLA «PRESENZA» 

Innanzitutto, per farmi capire, provoco una immaginazione. Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una «presenza». Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente della parola «cosa». Le cose! Che «cosa»! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola «essere». L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone. 

Chi non crede in Dio è inescusabile, diceva san Paolo nella Lettera ai Romani, perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell’ «altro» […]

Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello d’essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende. Tradotto empiricamente è la percezione originale di un dato. Un uso totalmente umano di questa parola «dato», nel senso che uno vi applica tutte le implicazioni della sua persona, tutti i fattori della sua personalità, la rende viva: «dato», participio passato, implica qualcosa che «dia». La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo «dato», e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà, è la parola dono.

[Giussani Il Senso Religioso pp. 139-140]

L’IO DIPENDENTE 

In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono «dato». È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro. Quanto più io scendo dentro me stesso, se scendo fino in fondo, donde scaturisco? Non da me: da altro. È la percezione di me come un fiotto che nasce da una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me, e da cui vengo fatto. Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire una origine che non sa che cos’è, è altro da sé. Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avuto, di questa misteriosa presenza da cui la consistenza del suo istante, del suo io, è resa possibile. Io sono «tu che-mi-fai». 

Soltanto che questo «tu» è assolutamente senza faccia; uso questa parola «tu» perché è la meno inadeguata nella mia esperienza d’uomo per indicare quella incognita presenza che è, senza paragone, più della mia esperienza d’uomo. Quale altra parola dovrei usare altrimenti? Quando io pongo il mio occhio su di me e avverto che io non sto facendomi da me, allora io, io, con la vibrazione cosciente e piena di affezione che urge in questa parola, alla Cosa che mi fa, alla sorgente da cui sto provenendo in questo istante non posso che rivolgermi usando la parola «tu». «Tu che mi fai» è perciò quello che la tradizione religiosa chiama Dio, è ciò che è più di me, è ciò che è più me di me stesso, è ciò per cui io sono. Per questo la Bibbia dice di Dio «tam pater nemo», nessuno è così padre, perché il padre che noi conosciamo nell’esperienza è chi dà l’abbrivio, l’inizio a una vita che, dalla prima frazione di istante in cui è posta in essere, si distacca, va per suo conto […] Mentre Dio, Padre in ogni istante, mi sta concependo ora. Nessuno è così padre, generatore. 

La coscienza di sé fino in fondo percepisce al fondo di sé un Altro. Questa è la preghiera: la coscienza di sé fino in fondo che si imbatte in un Altro […]

L’io, l’uomo, è quel livello della natura in cui essa si accorge di non farsi da sé […] L’uomo si sperimenta contingente: sussistente per un’altra cosa, perché non si fa da sé. Sto in piedi perché mi appoggio a un altro. Sono perché sono fatto. Come la mia voce, eco di una vibrazione mia, se freno la vibrazione, la voce non c’è più. Come la polla sorgiva che deriva tutta dalla sorgente. Come il fiore che dipende in tutto dall’impeto della radice. Allora non dico: «Io sono» consapevolmente, secondo la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con «Io sono fatto». È da quanto detto prima che dipende l’equilibrio ultimo della vita. Siccome la verità naturale dell’uomo, come si è visto, è la sua creaturalità, l’uomo è un essere che c’è perché è continuamente posseduto. Allora egli respira interamente, si sente a posto e lieto, quando riconosce di essere posseduto. La coscienza vera di sé è ben rappresentata dal bambino tra le braccia del padre e della madre, sì che può entrare in qualsiasi situazione dell’esistenza con una tranquillità profonda, con una possibilità di letizia.

[Giussani Il Senso Religioso pp. 146-148]

OLTRE L’APPARENZA LA SCOPERTA CHE IO SONO TU CHE MI FAI

Intervento: Considero la mia esperienza e guardo il mio umano in una sua espressione che lo ha caratterizzato radicalmente fin dalla mia infanzia: la depressione. […] tu a volte fai cenno al nulla che in certi momenti «morde dentro». Credo tu sappia perfettamente che la mia patologia comporta l’esperienza intensificata e invalidante di questo nulla: io lo descriverei come un senso di polverizzazione interiore, una perdita del centro di sé, un senso di nausea per tutte le cose normali, insieme con l’agitazione, l’inquietudine, l’oppressione, l’ansia, il panico generati da queste stesse esperienze interiori di perdita di sé. La domanda che ti voglio fare si basa sul presupposto che l’esperienza del nulla, così come l’ho descritta, è propria, con intensità minore e non invalidante, anche di chi, come te, abbraccia cattolicamente tutto il proprio umano, senza censurarne neanche ciò che sembra essere l’esatto opposto di quella vita sovrabbondante di cui pure facciamo esperienza nella Chiesa. Tu, al punto del cammino in cui sei giunto, come vivi i momenti in cui il nulla ti morde? Non ti chiedo ricette, ma la descrizione della tua esperienza, di come il cammino nella Chiesa e nel movimento ti ha portato a vivere oggi la tua esperienza del nulla. 

Carron: La prima cosa che posso fare è amare la mia umanità così come è, perché questa mia umanità può attraversare periodi o circostanze o momenti bui – forse non così acuti come quelli che tu racconti –, che a me non vengono risparmiati, come hai visto in tante occasioni. Ora, queste circostanze, che possono essere percepite come una disgrazia, come qualcosa da evitare, come qualcosa da nascondere, io non riesco a non guardarle in faccia. Potranno esserci momenti in cui puoi fare più o meno fatica, ma c’è qualcosa di più profondo di tutti disturbi – diciamo – invalidanti che uno può avere, di tutti i momenti in cui il nulla serpeggia. E’ proprio in quei momenti che uno si rende conto di qual è il fondo dell’io, il fondo più profondo dell’io, in cui si rende conto di tutta la vertigine, di tutta la voragine che c’è dentro questo fondo dell’io […]

Di mancanza, di solitudine, di assenza di significato in quel che faccio, in tutto, perché niente è escluso. A volte cerchiamo di scappare subito, perché pensiamo che superare questa situazione quanto prima tanto meglio sia per noi. Ma se uno non fugge e lascia tutto lo spazio a questo momento di disagio, a questa difficoltà, a questo vortice, allora emerge con chiarezza qual è la profondità dell’io, quella profondità che è più radicata in noi rispetto a tutta la superficie di questi momenti e stati d’animo. Ed è a quel punto che la ragione non si riduce più a registrare solo i momenti più appariscenti e comincia a rendersi conto della profondità delle cose. E’ il momento in cui uno può veramente imparare a usare la ragione secondo tutta la sua potenza. 

[…]

Mi piace tanto un’espressione di don Giussani: «Brandire la ragione», perché l’io non è ridotto alle apparenze. Di recente, durante un incontro un’amica mi domandava che cosa significa usare la ragione. Ho cercato di aiutarla dicendole che se usa la ragione secondo la totalità dei fattori, secondo la sua apertura totale, seguendo l’esigenza di darsi ragione adeguata di tutti i fattori dell’io, non può – se la usa bene, se è educata a usarla bene – non arrivare a riconoscere il Mistero che ci fa. E quanto più usi la ragione tanto più ti apri all’Infinito che ti fa e ti leghi a Lui, allora cominci a uscire dal nulla. Il nulla è vinto dal mio riconoscimento di Colui che mi fa ora, di Colui senza il quale io non potrei esistere ora, con tutte le mie paturnie, i miei guai e il mio sentimento X delle cose; proprio perché sento tutte queste cose, io ci sono; se tu non ci fossi, non potresti sentire tutto quanto hai descritto. Paradossalmente, quanto più lo percepisco tanto più mi rendo conto che sono vivo e che quindi un Altro mi fa. Allora capisco che ciò cui mi introduce costantemente la Chiesa è proprio alla verità di me. Ma questo è un cammino che uno può fare o non fare: uno può rimanere nell’apparenza, e allora vince il nulla; oppure può assecondare l’esigenza di darsi ragione di tutto, e allora è il momento della vittoria sul nulla, per la scoperta del legame con il Mistero che mi fa ora. Per questo mi stupisce sempre come don Giussani ci abbia invitato costantemente a questo esercizio della ragione quando, alla fine del capitolo decimo de Il senso religioso, dice che, nella nostra cultura positivista e razionalista, nell’uso della ragione tante volte ci fermiamo all’apparenza, a fenomeni come quelli che tu hai descritto. Ci blocchiamo lì e soffochiamo. Il segno che ci siamo fermati all’apparenza, dice Giussani, è proprio il fatto che soffochiamo. Perciò, come so che sto usando bene la ragione? Se respiro. Se attraverso quella situazione difficile – non in un’altra, non domani, non dopodomani – io entro in rapporto con Colui che mi fa. Più uso la ragione e più sono invitato a usarla attraverso le circostanze, perché non posso rimanere soffocato (come se questo mi corrispondesse), perché sono fatto per qualcos’altro; e quanto più io voglio bene a me stesso tanto più ho bisogno di sperimentarlo. Se a voi non viene l’urgenza di farlo, ciascuno di voi ne subirà le conseguenze. Ma se uno ha un minimo di amore a sé, di tenerezza verso di sé, non può non desiderare di andare al fondo di sé, fino al punto di riconoscere Colui che lo fa respirare. E questo, come dice Giussani, ha la capacità di fare guarire l’io; questo non significa che non avrai più disagi, ma è come se questo non ti spaventasse più perché ogni volta li puoi sfidare, una volta dopo l’altra. 

[Assemblea di Scuola di Comunità con Carron del 20 marzo 2019]

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