Alessandro D’Avenia – Corriere della Sera →
Tre astronomi hanno scoperto Farout (Moltolontano), il pianeta più distante del nostro sistema solare: 18 miliardi di chilometri. Ci mette più mille anni a girare attorno al Sole, ma lo fa: nonostante la distanza è gravitazionalmente aggrappato alla nostra Stella. E noi attorno a cosa ruotiamo, a cosa ci aggrappiamo più o meno consapevolmente? Dove cerchiamo la felicità? Ma esiste poi la felicità? O aveva ragione Leopardi quando inveiva per la morte acerba di Silvia: «O natura, o natura,/perché non rendi poi/quel che prometti allor?/Perché di tanto/inganni i figli tuoi?». Se siamo nati solo per morire, allora la felicità è una sfiancante e inutile lotta contro la morte. Per questo c’è chi, dopo la dipartita, fa congelare la propria testa dalla Alcor in Arizona, sperando che un giorno si potranno scongelare le cellule senza che decadano e trasferire i «dati cerebrali» su un supporto non deperibile. C’è chi cerca di fermare con la chimica l’inesorabile deteriorarsi del corpo, che però non vuole saperne. C’è chi genera figli, ma poi scopre che ha solo moltiplicato la sua stessa fame di vita. C’è chi vuole vivere nelle opere che realizza, perché possano ampliare l’eco della sua presenza ma: da vivo dura un soffio, da morto chi se ne frega. I tentativi di non morire confermano che, dalle nostre mani, per quanto abili, non escono altro che «patenti di mortalità». Forse la felicità non è allora diventare immortali, ma rinascere.
L’uomo è e sarà sempre religioso, proprio perché un «di più» vitale lo attrae e muove, come in qualche modo accade a Farout, anche se gliene sfugge l’origine. David Foster Wallace, scrittore attentissimo al desiderio umano, nel 2005 diceva ai laureati del Kenyon College: «Ecco una cosa che può sembrare strana, ma che è vera: nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza non c’è posto per l’ateismo. Non è possibile non adorare qualche cosa. Tutti credono. La sola scelta che abbiamo riguarda che cosa adorare. Forse la ragione più convincente per scegliere un dio o qualcosa di spirituale da adorare è che praticamente qualsiasi altra cosa in cui crederete finirà per mangiarvi vivi. Se adorerete il denaro o le cose, se a queste cose affiderete il vero significato della vita, allora vi sembrerà di non averne mai abbastanza. Adorate il vostro corpo e la bellezza e l’attrazione sessuale e vi sentirete sempre brutti. E quando i segni del tempo e dell’età si cominceranno a mostrare, morirete un milione di volte prima che abbiano ragione di voi. Adorate il potere e finirete per sentirvi deboli e impauriti, avrete bisogno di sempre più potere sugli altri per rendervi insensibili alle vostre paure. Adorate il vostro intelletto, cercate di essere considerati intelligenti, e finirete per sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere scoperti. L’insidia di queste forme di adorazione è che rispondono a un bisogno di base, le assecondiamo lentamente, diventando sempre meno aperti riguardo a ciò che vogliamo vedere e a come valutarlo». Respirare è adorare, che infatti significa rivolgere (ad-) la bocca (os-oris) verso ciò da cui ci aspettiamo la vita: adorare vuol dire baciare per ricevere più fiato, mangiare per vivere di più. Per questo baciamo/mordiamo ciò che amiamo.
Kafka, testimone sofferente dell’inaccessibilità a ciò che più desideriamo, nelle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, scrive che siamo lontani dall’Eden non a causa dell’albero della conoscenza ma di quello della vita. Due erano infatti, nel racconto biblico, gli alberi dell’Eden: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi – dice Dio dopo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito – per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini per custodire la via all’albero della vita». Passiamo il tempo a cercare la via all’albero della vita, ma è preclusa, come al povero K., che cerca invano l’accesso al Castello, nell’omonimo romanzo kafkiano. Tutta la letteratura racconta l’umana ricerca della via della vita, dai personaggi di Omero, ossessionati dalla gloria, a quelli di Foster Wallace, adoratori della perfezione, del divertimento, delle dipendenze. Cerchiamo la via per guarire dalla morte, ma essa sembra sbarrata alle sole forze umane. Siamo un infinito ferito a morte.
Accettare che la ferita resti aperta è allora l’inizio del (ri-)nascere. Se non la ignoriamo, la ferita è, come ogni sintomo, indizio e inizio della cura: «non ne posso più di stare murato/nel desiderio senza amore» scrive Ungaretti. L’unica cura al «desiderio murato» dalla morte sembra essere l’amore, come testimonia Leopardi nello Zibaldone: «Io non ho mai sentito di vivere tanto quanto amando». Chi conosce l’amore sa che lì è la via all’albero della vita: «vita per sempre» è sinonimo di «vita insieme». Ma per questa non basta neanche chi amiamo, se lo carichiamo di attese che non può soddisfare, non gli perdoniamo di non amarci come vorremmo, rimaniamo delusi dalle nostre stesse infinite aspettative. È un altra sconfitta: neanche l’amore umano ci dà la vita per sempre? Perché allora il grande scrittore Raymond Carver, morto di tumore a 50 anni, volle che sulla sua lapide fossero scolpiti i versi: «E hai ottenuto quel che/volevi da questa vita, nonostante tutto?/Sì./E cos’è che volevi?/Potermi dire amato, sentirmi/amato sulla terra». Nel Natale ho cercato una via aperta all’albero della vita e l’ho trovata.
I pastori, gli ultimi nella scala sociale e religiosa nella cultura ebraica, sono i primi a ricevere l’annuncio del Natale. È Luca a riportare le parole loro rivolte dall’angelo: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». Il segno per riconoscere il salvatore è un «non segno»: per un pastore, un bimbo in fasce in quell’ambiente, è vita di tutti i giorni. È quindi un segno contraddittorio: non segnala niente. La religiosità naturale porta l’uomo a proiettare ciò che gli manca su ciò che adora. In questo caso invece il divino è privo di qualsiasi dote: nessuno si sarebbe accorto di quella nascita. La via alla felicità è aperta a tutti, non solo a élite religiose o di potere, ed è proprio lì dove siamo, dove tutto nasce e accade quotidianamente, in mezzo alla ripetizione delle opere e dei giorni. Sarà proprio questo che i compaesani non perdoneranno a Cristo quando dirà di essere Dio: ma non è il falegname, il figlio di Maria? Per loro il quotidiano non può essere il luogo del per sempre: non è così che fa un vero dio. Invece Natale è proprio la totale novità del «per sempre» versato nel «quotidiano»: ogni dettaglio diventa via per una vita più grande lì contenuta, ma che va liberata. Solo se accogliamo ogni cosa, persona, evento, come un «appena nato», vi troveremo la vita per sempre. Per me solo se il volto di un alunno è segno di un nascere inedito si apre una relazione che (ri-)genera sia lui che me; solo se una pagina da scrivere è segno di un nascere inedito, la parola si riempie di eros per ciò che dice. Diventa vita tutto ciò che nell’ordinario accogliamo come un bambino indifeso, da curare con le nostre mani. Se un Dio-onnipotente si fa Bambino-impotente, allora dalle nostre mani esce vita quando si disarmano e si prendono cura della vita: ecco la via. Tutto dipende dal rinnovare sguardo e atteggiamento verso la realtà. La parola bambino, pais nel testo di Luca, significava anche «servo». Dio si fa bambino e servo. Questo è la via del rinascere: ricevere e servire. La vita «per sempre» è solo la vita «sempre per», ogni giorno. È la cosa più bella che mi sia capitata, perché mi consente di non stancarmi del quotidiano e di trovarvi sempre nuova linfa, gioia e non ansia. Ho trovato un amore che mi libera dall’ansia di pretendere vita a pugni chiusi invece di attendere, con mani aperte, di riceverla. Ho trovato un amore che mi libera dalla fatica di contendere la vita agli altri invece di tendere mani gentili come si fa con un bambino appena nato. «Vita per sempre» è potermi sentire «sempre amato», in ogni istante e circostanza, da un amore mai stufo di me e contagioso, perché mi educa a diventare, con i miei limiti, «sempre per» gli altri.
Il letto da rifare oggi è cercare la via all’albero della vita, di cui quello natalizio è solo un simbolo. Quest’ultimo lo inventò san Bonifacio, vescovo della Germania, nel 724 d.C., quando salvò un bambino che stava per essere sacrificato sotto la quercia sacra a Thor da una tribù in cui s’era imbattuto. Per raccontare loro del Dio, che non vuole morte ma vita e viene tra gli uomini proprio come bambino, indicò loro un piccolo abete come segno: della vita senza fine, perché le foglie sono sempre verdi; di protezione, perché di legno d’abete erano fatte le loro case; della direzione in cui ad-orare perché la sua cima dritta verso l’alto indica il Padre del cielo. Così l’abete venne addobbato in segno di festa per il bambino salvato e d’attesa per il Bambino che salva. Il mio augurio di Natale è che possiate ricevere vita stando dentro la vita. Solo questo fa vivere, per sempre e sempre per, ogni giorno.