don Paolo Prosperi →
Signore, ecco, il tuo amico è malato(Gv 11,3). Le parole che le sorelle di Lazzaro mandano a dire a Gesù offrono una descrizione perfetta dell’uomo contemporaneo.
In che cosa consiste questa malattia? Si può descrivere sinteticamente così: è come se l’uomo non riuscisse più a voler bene a se stesso. C’è una strana insofferenza nei confronti della propria umanità. Oggi l’uomo sperimenta uno strano e innaturale scandalo di fronte all’aspetto di limite che l’esistenza umana porta con sé, che la carne e il sangue della nostra esistenza portano in sé. Basti pensare al successo universale dell’ideologia gender. Il fatto che io non posso essere donna, anche se volessi esserlo, è un limite. Essere uomini significa essere limitati. Significa, in altre parole, in un certo modo, non essere “tutto”, non essere Dio.
Nei giovani che incontro, mi colpisce sempre di più questo fatto: ogni insuccesso, in qualunque campo, ogni esperienza del proprio limite, ha il sapore di una tragedia. Diviene motivo di depressione. Da dove viene questa estrema vulnerabilità? A mio avviso, da una sorta di strano, sempre più inconsciamente diffuso, pregiudizio: dalla pretesa di essere Dio, dall’idea che io sia e debba essere onnipotente. Paradossalmente, l’insopportabilità del proprio limite non è dovuta all’essere limitati, ma all’immagine astratta, disincarnata che abbiamo di noi stessi e che il limite sembra contestare.
C’è una differenza tra il mondo di oggi e quello in cui il Cristianesimo ha attecchito all’inizio della sua storia: l’uomo pagano antico, pre-cristiano,era in un certo senso più forte, più corazzato dell’uomo di oggi. E lo era anche perché aveva uno sguardo diverso sul proprio limite. Per l’uomo greco il limite era un’evidenza, un dato inesorabile, ferreo: basta leggere i tragici per rendersene conto. Secondo la mentalità antica l’uomo è uomo proprio in quanto non è un dio: «Conosci te stesso», dice il motto delfico. Stai al tuo posto. Se l’uomo accetta il suo limite, allora trova la saggezza, l’equilibrio. Chi varca la misura, invece, esce dal regno olimpico della luce e cade nel regno caotico della bestialità.
Celso, filosofo del II secolo, deride i cristiani esattamente per questo: per la loro megalomania, perché si sentono al centro dell’universo. Gregorio di Nissa, alla fine del IV secolo, usa le parole del motto delfico invertendone completamente il senso: «Conosci te stesso, o uomo: il cielo, le stelle, tutto l’universo non sono niente rispetto a te. Poiché tu solo puoi contenere l’Infinito Dio» (Omelie sul Cantico dei Cantici, II).
È Gesù Cristo che ha dato all’uomo il sentimento della propria infinità: «Gesù Cristo ha portato l’infinito dappertutto», scrive Péguy (cfr. Véronique, Casale Monferrato 2002, p. 256). È vero che l’uomo aspira ad essere “divino” per natura. Guardando, però, alla condizione meschina in cui storicamente si trova, l’uomo greco sente, col suo profondo buon senso, il bisogno di difendersi da speranze eccessive.
Ecco ciò che più sconcerta: la malattia sopra descritta non si trova nell’uomo pre-cristiano, ma si rileva solo nell’uomo post-cristiano. L’uomo antico aveva un suo equilibrio. Triste, ma pur sempre un equilibrio. L’uomo post-cristiano lo ha perduto, non sopporta più di non essere divino.È quanto Nietzsche fa dire a Zarathustra: «Lasciate amici che vi apra il mio cuore: se esistessero dei, come io potrei sopportare di non essere un dio?» (Così parlo Zarathustra, Milano 1987, p. 101). Che ce lo confessiamo o no, che lo riconosciamo più o meno chiaramente, tutti noi figli dell’occidente abbiamo dentro questa domanda.
L’aspetto tragico del pensiero di Nietzsche non sta in questo desiderio di essere divino, perché lo ha ricevuto da Gesù; sta, piuttosto, nell’aver perso di vista l’unico che può saziare davvero l’umana sete di grandezza in un modo assai più sublime di Zarathustra, un modo che non richiede di abbattere i limiti dell’umana natura. Quest’unico si chiama Gesù Cristo. Per questo il Padre lo ha mandato: per farci gustare e vedereil valore infinito che questa cosa polverosa e sanguinante che è il nostro io davvero possiede, senza bisogno di alcuna tecnologica modifica.
Gli ultimi capitoli del vangelo di Giovanni, dal 13 al 19, che raccontano l’ultima cena e la passione del Signore, sono come un crescendo in cui Gesù ci apre progressivamente il contenuto più intimo del suo cuore. E questo contenuto è l’Amore di Dio per l’uomo. Un Altro in realtà ha anticipato Nietzsche e il suo Zarathustra: “Lascia, amico, che io ti apra il mio cuore. Io non posso più sopportare che tu non sia un dio. Non posso più sopportare che tu ti senta più in basso di me. Non posso più sopportare che tu non sappia chi sei nel Mio cuore. Per questo io squarcio il mio cuore: perché tu vi attinga il vino della vera gioia. Gli uomini bevono il vino per dimenticare le proprie ferite, le proprie umiliazioni. Per dimenticare se stessi, per uscire da se stessi. Il vino che sgorga dalla mia passione, il vino che sgorga dal mio petto fa di più. Anch’esso fa cantare, ma senza bisogno di dimenticare. Anch’esso ti fa uscire da te stesso, ma per portarti nel luogo da cui puoi vedere l’infinito che giàsei agli occhi di Dio”.
Signor Anonimo la mia conclusione non vuole essere originale né creativa: dispiace se ai suoi occhi pare scontata.
Però quando lei scrive: “Forse il problema che pone Prosperi è proprio questo: il riconoscere un Amore più grande ecc.” è probabile che non si è accorto che è lo stesso che scrivo io nelle ultime righe, sottolineando però che mi sembra ingiusto, oltreché storicamente scorretto, affermare che gli antichi greci avevano un loro equilibrio, mentre noi no.
Dove risiedeva tale “equilibrio perduto” degli antichi? Nella serenità fittizia della statuaria arcaica o nella frenesia delle baccanti ubriache?
La natura dell’uomo è sempre la stessa. E le citate tragedie antiche ne sono la prova, lo ribadisco.
L’uomo antico NON accetta di non essere Dio.
Ed è questa una non accettazione per cui bisogna ringraziare il Cielo, ché altrimenti gli antichi non si sarebbero inventati la mitologia!
Quello che sostengo è solo che la situazione odierna riguarda una fragilità di giovani e adulti, non una malattia.
Ed è una fragilità di cui ci si può liberare smettendo di mettersi in competizione con Dio. Attraverso la consapevolezza che Cristo ci ama per quello che siamo.
Ci si può guardare intorno quanto si vuole per accorgersi delle brutture del mondo, ma bisogna che parta da ciascuno di noi la volontà di scartare ciò che non è Verità.
Grazie.
L’espressione più alta di questa “onnipotenza dell’uomo” e del disastro a cui porta è racchiusa, a mio avviso, nella vita creata in laboratorio (=fecondazione artificiale) Un gesto d’amore, che racchiude in sé il Dono più bello del mondo, ridotto a un prodotto di Laboratorio (con tanto di fattura), che ovviamente, come qualsiasi oggetto difettoso, se non perfetto viene gettato via.
Quella che dovrebbe essere l’espressione più alta dell’Amore ridotta a mera merce di scambio e vendita; a me fa rabbrividire; mi mette ansia, paura; perché se l’uomo ha iniziato (ormai da diversi anni) a creare vita in laboratorio, cosa altro dobbiamo aspettarci?
Personalmente invece trovo tanto bello e confortante sapere che c’è un Padre che mi guarda, che guida la mia vita, che mi protegge, e pensa a me.
Non è un sottrarsi alle proprie responsabilità, né il cadere nell’accidia. Ma è semplicemente seguire la propria natura di figli.
E’ come se figli si volessero sostituire ai genitori nella vita quotidiana… pensa che caos sarebbe!!! E allo stesso modo è impensabile che noi figli vogliamo sostituirci al Padre: non funziona, non può funzionare, è matematicamente impossibile, perché tutto ciò che è ordine diventa disordine, tutto ciò che ha un percorso naturale, diventa innaturale, e quindi naturalmente imperfetto.
“Quando si è consci dell’amore di Cristo per l’uomo, quello che sembrava un limite si trasforma ai nostri occhi nel profilo bello che ci definisce.” E’ bellissimo signora Franca il modo in cui conclude il suo commento, ma secondo me non è così “scontato”…Forse, il problema che pone Prosperi è proprio questo: il riconoscere un Amore più grande che ci libera dal dramma del nostro limite, del nostro non essere infinito, perché c’è, appunto, Uno che ai suoi occhi “siamo già infinito”.
la sua analisi, sarà sicuramente corretta, non lo metto in dubbio, ma il problema che espone prosperi non è “condannare” questa tensione dell’uomo all’infinito o la nostra”tragedia” nel riconoscere il limite, (come dice lei: “arriva a noi dall’antichità”), ma il rapporto che noi, oggi, abbiamo con i nostri limiti. Questo rapporto drammatico con il limite, il non accettarlo, forse in alcuni casi diventa realmente una malattia, non è usata a sproposito questa parola a parer mio.
L’ analisi di Prosperi vuole solamente mettere a confronto gli uomini di un tempo, che avevano ben presente di essere limitati ed un loro “equilibrio” lo avevano trovato, e gli uomini di oggi, che, purtroppo, non hanno consapevolezza, non riconoscono (usi il termine che preferisce) di essere limitati.
Lo spiega benissimo con la frase di Nietzsche: «Lasciate amici che vi apra il mio cuore: se esistessero dei, come io potrei sopportare di non essere un dio?».
Credo che solo Dio possa definirsi “illimitato”/”infinito”.
L’uomo di oggi, rispetto all’uomo antico, non accetta di “non essere Dio”, e invece di, in un certo senso, accettarlo, se ne fa una malattia, perché siamo sempre più figli di un’epoca che ci insegna che l’ “homo faber fortuna suae” , Io sono il mio dio…E su questo non vedo come gli si possa dar torto, basta guardarsi intorno.
Il problema per noi ragazzi è che siamo immersi in una società in cui, costantemente, ci bombardano, giorno e notte, di “Tu puoi essere e fare tutto ciò che vuoi”; quando non è così.
Prosperi afferma di restare colpito (e probabilmente non comprende fino in fondo, mi azzarderei a dire) per quale motivo ogni insuccesso e ogni esperienza con il proprio limite diventa, per noi giovani, una tragedia o motivo di “depressione”..E’ una tragedia perché, ogni fallimento, soprattutto i primi che un ragazzo può vivere, sono la presenza di una realtà che è oltre di noi. Con “oltre di noi” intendo il fatto che è un qualcosa che non possiamo gestire, comandare o organizzare a 360 gradi noi. Se sono innamorato di una ragazza e quella dice “no”, si entra in crisi, perché? Perché siamo cresciuti nella società in cui “se vuoi una cosa, va e prenditela, contro tutto e contro tutti”.
Siamo cresciuti senza nessuno (nella maggior parte dei casi) che ci dicesse “Belli miei, se la tipa che vi piace dice no, è no.” Che sicuramente per un ragazzo, soprattutto in giovane età, in cui si sente Dio, si sente invincibile, è un duro colpo avere qualcuno che gli dica così. Ma meglio uno che sia leale con noi, che ci tiri fuori dal nostro mondo delle favole, che una società che ci illude di poter avere e fare tutto. Quando così non è.
E causa di questo, mi dispiace dirlo, sono anche i “genitori moderni”, pronti a soddisfare qualsiasi voglia o desiderio dei propri figli pur di farsi “amare”, pur di farsi “voler bene” dai figli, quando, (ovviamente mi permetto di dirlo con l’ “ingenuità” di un ragazzo 22enne, il quale sono), credo che il ruolo di un genitore non sia quello di “FARSI voler bene” dai propri figli, ma “VOLERE il bene dei figli”, e volere il loro bene significa anche metterli in punizione se prendono un brutto voto a scuola e non andare dal professore e incazzarsi perché il proprio figlio è insufficiente (perché oggi si fa così. Ringrazio Dio quando sento dei genitori, come i miei, che non giustificano in tutto e per tutto i propri figli).
Se prendiamo 4, è perché non abbiamo studiato. Non c’è altra scusa che tenga, cari genitori, mi dispiace se alcuni di voi sono convinti del contrario (ovviamente parlo in generale, poi ci sono anche i casi particolari, ma credo che questi siano una millesima parte).
Tanto, scusate se ve lo dico, noi ragazzi, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, vi “odieremo” comunque, sarete comunque, per certi aspetti “nostri nemici” (come è giusto che sia!!) e “evitare” questo duello con noi, facendoci sentire Dio (insieme ad una società che ce lo ripente continuamente), spianandoci la strada, servendoci tutto su un piatto d’argento, NON CI AIUTA. Lasciateci faticare e sudare per prende un 8 a scuola (perché anche la fatica fa parte della realtà, ed oggi, il mondo che ci circonda vuole farcelo dimenticare, e quando ci ritroviamo a dover sudare per ottenere qualcosa, cadiamo in depressione!! Perché? Perché nessuno ci ha mai insegnato di dover faticare per raggiungere qualcosa!) Se la tipa che mi piace mi dice no, insegnateci a capire che non possiamo “averla” (molti femminicidio nascono da questo!!!). Metteteci di fronte alla realtà, perché sicuramente a 15,16,17 anni non lo capiremo, ma lo capiremo dopo perché prima o poi la realtà si presenterà a noi! E dopo, presa coscienza di questo state pur certi che, noi figli, diremo: “Che grandi sono stati i miei genitori” e perché lo diremo? Perché ci avete messo di fronte alla realtà così com’è. Perché non avete contribuito, insieme, alla società ed al pensiero che si ha oggi, a non farci sentire Dio. Perché ci avete insegnato a stare di fronte un limite (lo starci di fronte è una palestra, perché non si impara dall’oggi al domandi a stare di fronte a dei limiti).
E’ molto più doloroso e “traumatico” per noi ragazzi affrontare l’impatto con una realtà che si presenta a noi in maniera violenta (quando ci rendiamo conto che non possiamo essere tutto, che non possiamo fare tutto, che non siamo Dio), che affrontare la realtà passo dopo passo, con un genitore, educatore, amico (o quel che sia) e imparare a stare di fronte ai nostri limiti.
Spero che i “genitori moderni” non se la prendano.
Perdonatemi per lo sfogo genitori!
Un ragazzo 22enne.
Spero che in questa rubrica si accettino anche pareri discordanti (altrimenti, a mio avviso, questi sarebbero commenti sterili): c’è da fermarsi a ragionare un momento su una contraddizione contenuta nelle parole di Don Paolo Prosperi.
Egli infatti prima crea un’antitesi fra l’uomo moderno e gli antichi greci, sottolineando come questi ultimi riconoscesse i propri limiti.
Poi, mette in cattiva luce i giovani di oggi, affermando che per loro invece “ogni esperienza del proprio limite ha il sapore di una tragedia”.
Forse è sfuggito un dettaglio: la tragedia nasce e arriva a noi dall’antichità – il fatto che arrivi sino a noi nel corso dei secoli è significativo del fatto che l’uomo vi ha riconosciuto una Verità che ha voluto perpetuare – perché l’uomo ha da sempre la stessa natura. Da sempre desidera osare, andare oltre.
Basti ricordare ciò che scrisse Ovidio nell’ars amandi e che poi verrà ripreso da moltissimi autori a venire: “nitimur in vetitum, semperque cupimus negatum” ossia: “siamo attratti da ciò che è vietato e desideriamo sempre ciò che ci viene negato”.
I greci sono stati grandi perché hanno saputo portare sulla scena quel che l’essere umano ha dentro.
Si pensi inoltre a quante figure del mito si sono fatte eroiche proprio perché sono riuscite a scardinare i limiti della propria natura, divinizzandosi!
Forse i nostri giovani non hanno scritto tragedie catartiche, ma questa polarità tra uomo pre-cristiano e uomo post-cristiano appare una forzatura immeritata.
L’uomo cristiano contemporaneo non si merita certo di essere visto come una marionetta annichilita di fronte alla croce.
Il motto delfico: “conosci te stesso” è un’esortazione apollinea che non ha avuto risposta e che alberga tutt’ora nel cuore umano, poiché, mutatis mutandi, corrisponde esattamente alla capacità cristiana di “saper stare davanti al Mistero”.
Tutti noi cerchiamo l’infinito di cui parla Peguy, che il Cristo ha diffuso ovunque, e tutti noi dobbiamo imparare a vivere il presente come attesa di Lui in ogni circostanza.
I giovani così come gli adulti, oggi come nel medioevo, sono fragili (non malati) di fronte ai limiti laddove perdono di vista l’unica cosa che conta davvero: l’amore di Cristo.
Quando si è consci dell’amore di Cristo per l’uomo, quello che sembrava un limite si trasforma ai nostri occhi nel profilo bello che ci definisce.