Massimo Recalcati – La Repubblica
Esistono le vittime di abusi, sopraffazioni, sfruttamento, violenza e ingiustizia sociale. Esse subiscono soprusi dei quali non hanno responsabilità e che violano la loro dignità. Ma esiste anche la tendenza a “fare la vittima” sulla quale per primi Nietzsche e Freud si sono a lungo soffermati. Si tratta di una tendenza che non riguarda solo la psicologia individuale ma che ha assunto, nel nostro tempo, il carattere di una vera e propria epidemia di massa. Il nostro tempo sembra sponsorizzare in modo crescente l’inclinazione a farsi vittime elevando la lamentazione sul destino avverso a un nuovo tratto della psicologia contemporanea delle masse che ha sostituito l’identificazione fanatica al capo che aveva cementato i processi collettivi del Novecento.
La spinta alla lamentazione distingue l’essere umano: solo l’uomo tra gli esseri viventi ha la caratteristica di interpretare il ruolo della vittima. Oggi le vittime si moltiplicano insieme ai soggetti che ne devono assicurare la rappresentanza e la difesa. Il vittimismo è l’effetto di una manovra particolare: si tratta di supporsi come innocente rivendicando il diritto pubblico o privato al risarcimento. Accade nei ricorsi al Tar di molte famiglie di fronte alle ingiustizie subìte dai loro figli dal cattivo funzionamento della scuola, agli scrittori che si sentono incompresi dall’industria culturale che criticano ma dalla quale si attendono di essere finalmente riconosciuti, accade ai figli che anziché sciogliere il legame con la loro famiglia continuano a rivendicare perennemente i torti subiti in attesa di essere finalmente compresi, accade a gruppi, movimenti sociali e politici che anziché assumersi le responsabilità delle proprie azioni sono alla ricerca costante di capri espiatori, accade nei membri di una coppia che rigettano l’uno sull’altra le ragioni del loro fallimento, accade nei social dove l’odio delle “vittime della sorte” colpisce con particolare violenza più di ogni altro coloro che ce l’avrebbero fatta immeritatamente… Accade, insomma, sempre più diffusamente che ” fare la vittima” sia divenuto un vero e proprio abito identificatorio come se il vittimismo fosse diventato la cifra psicologica di una nuova ideologia qualunquista. Rarissimo trovare qualcuno in grado di riconoscere pienamente le proprie responsabilità senza fare la vittima di congiure, accordi segreti, complotti, malvagità o dell’ambizione sfrenata e immorale dei suoi avversari o colleghi.
Si può pensare che la matrice di questo fantasma sia di tipo sacrificale: scegliere di occupare la posizione della vittima assicura una nobiltà d’animo e il diritto a un risarcimento illimitato. Si tratta di accusare l’Altro di un torto irrimediabile per identificarsi al soggetto innocente al fine di rivendicare il proprio diritto a essere risarcito. L’economia del vittimismo — come quella puramente sacrificale — aspira a trasformare la perdita subìta in un guadagno. La seduzione del vittimismo è quella del godimento per la critica ininterrotta nei confronti dell’Altro che, in realtà, cela o rivela in modo esplicito la frustrazione del vittimista. Anziché assumere le proprie responsabilità il vittimista impone che sia sempre il suo interlocutore a doverlo fare. È una manifestazione reattiva dell’aggressività. Hegel descriveva questa tendenza attraverso la figura dell'” anima bella”, la quale giudica dall’alto della sua innocenza gli eventi che la circondano senza considerare la parte che le compete nell’alimentare, come direbbe Lacan, proprio quel “disordine di cui si lamenta”.
È la radice comune a ogni forma di populismo: elevare la lamentazione vittimistica a metodo politico. Mai riconoscere una propria colpa, una qualche forma di responsabilità, mai ammettere un proprio errore, una propria mancanza, un proprio disfunzionamento. È sempre l’Altro che non comprende, che non è adeguato al suo compito, che è corrotto, che si è macchiato impunemente di responsabilità irrecusabili. In passato il vittimismo coincideva con l’emulazione sacrificale. Nelle società religiose essere una vittima significava vivere nel sacrificio di sé per guadagnare la propria ricompensa in un altro mondo. È lo sguardo risentito e torvo della vittima descritto mirabilmente sempre da Nietzsche in Genealogia della morale che, anziché assumere responsabilmente la propria difficoltà a vivere, rinuncia alla vita — si sacrifica — per gettare gli altri nella colpa ed esercitare in modo indiretto la propria “vendetta”. È la dimensione intimamente ricattatoria del sacrificio: privarsi di tutto per colpevolizzare chi sa vivere affermativamente, con pienezza e soddisfazione.
Questa natura masochistica e religiosa del vittimismo ha oggi cambiato di segno. Il vittimismo ipermoderno agisce trasversalmente e implica l’adesione a una ideologia secondo la quale il colpevole — il corrotto, il fascista, lo xenofobo, il malvagio, l’impuro — è sempre l’Altro. Liberatosi dalla camicia di forza della morale del risentimento, è divenuto una micidiale polvere da sparo per tutti coloro che si mobilitano per attribuire la colpa dei propri mali alla colpevolezza sfacciata dell’Altro. L’enfatizzazione della propria innocenza e della propria purezza contro la malvagità cinica e astuta dell’Altro è il carattere ipermoderno del vittimismo. Al centro della scena non è più la coscienza religiosa che affronta asceticamente il peso della propria colpa ricavandovi una risentita superiorità morale, ma la denuncia gridata dei soprusi illegittimi dell’Altro. La vittima non gode più masochisticamente nel suo essere vittima obbedendo a un fantasma sacrificale, ma esige che la sua condizione sia pubblicamente riconosciuta, sostenuta e difesa. La vittima ipermoderna reclama i suoi diritti offesi e calpestati senza voler mai confrontarsi con le sue responsabilità: il vittimismo assume così le forme di una querulomania diffusa. Piuttosto che affliggersi col proprio senso di colpa — come accadeva alla vittima sacrificale della morale reattiva del risentimento — agisce accusando coloro che avrebbero dovuto garantire la sua mancata realizzazione. Sconsolato e rabbioso il vittimista ipermoderno ruggisce come un leone contro coloro che sarebbero responsabili delle sue disgrazie o di quelle del suo paese. La denuncia urlata ha preso il posto del risentimento trattenuto della coscienza moralistica.
Ma dov’ero “io” quando accadeva tutto quello di cui oggi mi lamento? Al posto di questa domanda cruciale che lo inchioderebbe alle sue responsabilità, il vittimista preferisce chiedersi sempre quale è la colpa dell’Altro. Oppure a ripetersi, più semplicemente, che “io non c’ero”. Il fantasma della vittima è quello di esercitare il fascino irresistibile dell’innocente colpito malignamente dall’arrogante volontà di potenza dell’Altro. Il vittimismo è una postura dell’uomo ipermoderno che non sa più affrontare l’urto tragico e scabroso col proprio destino. Se qualcosa va storto bisogna trovare un colpevole e bisogna che questo colpevole non coincida mai con noi stessi. Bisogna che sia sempre l’Altro in causa: il governo, il genitore, il partner, l’editore, il professore, il sistema.
Un mio paziente diceva di sé di essere un “fachiro” per come sopportava carichi continui di frustrazione che lo rendevano ai suoi occhi una “vittima innocente”. Togliersi questo abito di dosso non è stato facile perché gli garantiva una identità solida. ” Se non sono più un fachiro come farò a sopportare l’idea di essere libero? Odio l’idea che non ci sia più nessuno con il quale lamentarmi”, dichiarava, non senza una certa ironia, alla fine del suo lungo percorso analitico. L’esperienza dell’analisi recide la spinta alla lamentazione alla sua radice mostrando che il soggetto non può delegare a nessun altro la responsabilità della propria vita, che la sua condizione è quella — come la nostra, come quella di tutti — , di essere, come scriveva Sartre, “soli e senza scuse”.
Noi in famiglia la chiamiamo simpaticamente “sindrome da Calimero”.
In una vecchia pubblicità di un detersivo ci stava un pulcino che diceva: “tutti ce l’hanno con me perché sono piccolo e nero”. E Priscilla (la compagna di Calimero) gli risponde: “ma tu non sei nero, sei solo sporco… “.
E questo simpatica scenetta secondo me rende bene l’idea.
Prima di pensare che “tutti ce l’abbiano con noi” e che noi siamo “perfetti” o comunque vittime costanti del mondo intero, dovremmo lavare di più la nostra coscienza; riusciremmo così a vedere meglio che nessuno ce l’ha con noi, che nessuno ci perseguita, che noi siamo artefici del nostro destino, anche quando le cose non vanno come vorremmo; perché siamo umani e sbagliamo; e prima di accusare gli altri di un nostro insuccesso e togliere la pagliuzza dal loro occhio guardiamoci allo specchio per togliere la trave che c’è nel nostro.