Ritiro dei collaboratori parrocchiali – Firenze, 21 settembre 2019
Anche per quest’anno abbiamo desiderato ritrovarci insieme per iniziare un nuovo tratto di cammino. Abbiamo scelto di venire a trascorrere queste giornate a Firenze per poter dedicare un po’ del nostro tempo nel portare nuovamente alla luce la ragione profonda che ci tiene insieme: siamo chiamati a un compito, a una missione, a collaborare a un disegno più grande di noi a cui il Signore personalmente chiama ciascuno. La bellezza di cui ci ha parlato Mariella [ndr.Carlotti] ieri sera e quella che vedremo oggi visitando i tanti luoghi di Firenze sono il frutto dell’opera non tanto di singoli geni, ma l’espressione matura di un popolo, della sua fede e della sua vita. Siamo chiamati a costruire la Chiesa.
Che cosa è la Chiesa? Scrive don Giussani: «La Chiesa non solo è espressione di vita, qualcosa che nasce dalla vita, ma è una vita. Una vita che ci raggiunge da molti secoli a noi precedenti»[1]. Durante quest’anno vorremmo aiutarci a entrare in questa vita, a poter fare esperienza viva della vita della Chiesa che, come un fiume sgorgato duemila e più anni fa, è giunto fino a noi oggi. Chiediamo al Signore di aver coscienza di questa realtà – la Chiesa – che è nata da lui. Domandiamoci come prima cosa: quale coscienza di Chiesa avevano i primi discepoli?
La coscienza dei primi discepoli
«Nell’anno 29 o 30 della nostra era, in coincidenza con la Pasqua dei giudei, tre croci furono innalzate alle porte di Gerusalemme. Su due di esse morirono dei criminali per diritto comune. La terza era invece riservata a un agitatore politico, stando almeno alla scritta che portava il nome del condannato e la motivazione del suo supplizio: “Gesù di Nazareth, re dei giudei”. Esecuzioni del genere erano allora frequenti e non si prestava molta attenzione. Storici e cronografi avevano ben altro da fare perché sentissero il dovere di registrare fatti e gesta di poveracci i quali, spesso per motivi futili, venivano condannati alla morte di croce. L’esecuzione di Gesù sarebbe passata quindi inosservata se, due giorni dopo, alcuni amici e discepoli non avessero visto apparire, pieno di vita, colui del quale avevano rispettosamente deposto il corpo in un sepolcro nuovo»[2], scrive lo storico Gustave Bardy.
È questa esplosione di vita a costituire la chiave di lettura di quell’enigmatico periodo dopo la morte di Cristo. Coloro che avevano con lui condiviso quei tre anni per le strade della Galilea e della Giudea erano sicuramente smarriti, pieni di dolore, di rammarico e di sfiducia sul futuro dovuti a quella disgraziata perdita. Il ricordo di aver vissuto con quell’uomo qualcosa di bello ed emozionante non poteva bastare, non poteva essere all’altezza di reggere l’urto delle loro giornate immerse in un clima difficile, in condizioni ostili. Non sarebbe bastata la loro volontà di rimanere aggrappati al desiderio di diffondere il messaggio del Maestro[3]. Occorreva altro. Che cos’è questo “altro” incontrato dai discepoli? Quell’uomo era presente, vivo. È qui l’inizio della Chiesa. Quelle persone lì erano la continuità di Cristo risorto nella storia.
«La Chiesa sente se stessa come la comunità di Gesù, il Messia, ma non solo per una adesione dei discepoli agli ideali da Lui predicati, che ancora certo non afferravano del tutto, bensì per un abbandono a Lui vivo e presente tra loro (…). E in ciò erano veramente aderenti a quanto da Lui insegnato, e cioè che la sua opera non era una dottrina, non un’ispirazione per una vita più giusta, ma Egli stesso mandato dal Padre come compagnia al cammino dell’uomo»[4].
Non è però automatico, né tantomeno naturale che questa coscienza dei primi discepoli sia ancora la nostra. Nel 1987, l’allora cardinal Ratzinger diceva che non è per nulla scontato che la generazione successiva sia ancora Chiesa. L’esperienza di essere Chiesa deve ridestarsi nei cuori e nelle anime, deve nuovamente formarsi. Perciò egli sostiene che la questione del come questo accada è di fondamentale importanza e di particolare urgenza, tanto più alla luce delle statistiche che ritraggono una Chiesa in declino e in perdita di fedeli[5]. E si chiedeva: «Come accade, dunque, che nasca la Chiesa allora come oggi?»[6].
Come nasce la Chiesa
Una traccia di risposta la troviamo contenuta nella prima pagina degli Atti degli apostoli nella quale viene descritto il movimento dei discepoli dal monte degli Ulivi alla città di Gerusalemme, dopo che Gesù era salito al cielo. At 1,13: Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi.
Ecco il primo elemento che l’evangelista Luca ci offre: i discepoli salgono al piano superiore nella stanza dove erano soliti riunirsi. Commenta il cardinale Ratzinger: «Ci si aspetterebbe forse qualcos’altro. Ci si aspetterebbe che dicano: “Che facciamo ora?”. Il Signore era andato via. Non aveva lasciato detto nulla di chiaro, tranne la promessa che sarebbe venuto lo Spirito Santo e poi che essi sarebbero potuti essere testimoni. Avrebbero forse potuto dire: “Però non accade nulla”, oppure: “Sediamoci attorno al tavolo, discutiamo su come si possa fare la Chiesa e poi fondiamola”. Ma non succede né una cosa né l’altra»[7].
Che cosa fanno? Riconoscono che l’unica possibilità è quella di ritrovarsi in quella sala, tra quelle quattro pareti nella quale il Signore si è donato loro nel suo corpo e nel suo sangue, per pregare insieme e attendere il dono dello Spirito. «Essi evidentemente sono persuasi che non possono loro stessi dire: “Facciamo la Chiesa perché alla fin fine bisogna pur andare avanti”. Sono persuasi che non si può fare una comunità che ci porti e sostenga, non si può farla scaturire da una decisione; (…) essa deve crescere, che è qualcosa che va al di là del nostro fare. D’altra parte, rendendosi conto che il loro fare è limitato, credono che il Signore ha detto la verità e che darà lo Spirito, e in tal modo creerà questa comunità viva»[8].
A noi, che cosa tutto ciò richiama? Ognuno di noi, nella responsabilità piccola o grande che ci è affidata, nella costruzione della nostra comunità dobbiamo – scrive ancora Ratzinger – «imparare nuovamente che non possiamo fare tutto da noi; che dobbiamo imparare di nuovo a credere che davvero il Signore c’è e che davvero agisce in questo mondo. All’inizio della Chiesa c’è sempre un atto di fede. E se manca questo, se non abbiamo questo coraggio di credere in lui e nella sua forza viva nel mondo, tutto il resto non basta. Perché tutto quello che poi nasce è sempre e solo la nostra Chiesa, quella autoprodotta; e ognuno a ragione potrà sempre individuare qualcosa di insufficiente in quello che l’altro ha ideato. È importante che non ci sia solo la nostraChiesa, ma la suaChiesa»[9]. Per accettare però che sia veramente questa Chiesa, quella di Gesù a portarci, a sostenerci, a incoraggiarci, a correggerci e a consolarci, è richiesta tanta umiltà.
C’è un secondo significato che ci richiama il radunarsi dei discepoli nella stanza al piano superiore. Quel luogo non è un luogo qualsiasi. È il luogo dove essi avevano condiviso l’Ultima cena con Gesù nella quale egli si è donato loro interamente fino alla fine. At 1,14: Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.Perché nasca la Chiesa occorre ritrovarsi e lasciarsi riunire attorno al Signore. Comprendiamo allora l’importanza dell’eucarestia e il posto che ricopre la domenica nella settimana. È l’ottavo giorno della settimana, il giorno della ricreazione e della redenzione. È il giorno che è il centro da cui la Chiesa è nata e da cui rinascerà sempre, la domenica.
Che cosa fanno però i discepoli, una volta radunati? Non si mettono a discutere tra loro su chi ha ragione o torto, su quale visione di Chiesa ognuno vedeva più confacente a sé e alle proprie necessità. Certamente la discussione e il confronto sono importanti, ma presentano dei limiti. «La discussione (…) non può generare la comunità. Può organizzarla nei dettagli, quando questa già sussiste. Ma prima deve esserci. E per questo, all’inizio della Chiesa non c’è un dibattito sulla costituzione. All’inizio della Chiesa c’è invece questo “essere radunati” dal Signore nella preghiera unanime»[10], ribadisce ancora Ratzinger.
Questo quadro chiarifica ulteriormente il desiderio di essere venuti insieme a Firenze. All’inizio del nuovo anno avremmo potuto metterci subito a tavolino, programmare l’intero itinerario con le diverse proposte. Invece desideriamo riprendere insieme coscienza che all’inizio di tutto c’è una scelta, una preferenza di Dio sulla nostra vita. All’inizio della Chiesa c’è una predilezione. Come è avvenuto per i primi discepoli.
Lo stupore dell’opera di Dio in noi
È commovente allora riandare a quelle pagine dove è narrata la chiamata dei primi discepoli, la cui dinamica essenziale possiamo scoprire e riscoprire anche per ognuno di noi. Siamo al cap. 5 del Vangelo di Luca. Lc 5,1-3: Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genesaret, e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.
Un primo elemento che notiamo è la ressa che la gente fa attorno a Gesù per ascoltare dalla sua voce la parola di Dio. Egli si vede costretto, per non essere spinto in acqua, a guardarsi attorno e salire su una delle due barche lì vicine. Sceglie quella di Simone, che quella notte non aveva preso nulla.
Lc 5,4-5: Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. Il Signore avanza una richiesta che a occhi di pescatori esperti doveva sembrare una vera e propria follia. Dopo aver trascorso tutta la notte fuori senza prendere niente, ora tu mi dici di uscire in pieno giorno per riprovarci.
“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. La parola di Gesù era diventata per Simone qualcosa di molto più reale rispetto a quello che poteva misurare e comprovare tutti i giorni con i suoi calcoli. L’esperienza della fede è avere questa fiducia in uno che è capace di trasformare quella vita apparentemente vuota e inutile, che aveva vissuto il fallimento di una nottata trascorsa al largo a faticare senza aver preso nulla, in una esperienza di pienezza strabordante. Mi stupisce sempre, ogni volta che rileggo questo brano, la scelta di Gesù: c’erano due barche ormeggiate, sceglie quella di Simone, vuole salire proprio su quella che aveva fallito la pesca durante la nottata. È una grande parola di speranza anche per i tanti momenti della nostra vita in cui ci possiamo sentire falliti perché le cose non vanno.
Lc 5,6-7: Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Nella chiamata che il Signore ci rivolge non siamo soli, ma per rispondere abbiamo bisogno dell’intervento degli altri, per portare a riva quella quantità di pesci necessitiamo che qualcun altro intervenga. È l’esperienza della Chiesa, di un’amicizia autentica che non ci fa sentire soli nel mare dell’esistenza.
Lc 5,7-9: Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto. È lo stupore dell’essere stati scelti, dell’essere stati preferiti, dell’aver sentito su di sé quello sguardo di Gesù che in mezzo anche al nostro fallimento ci dice che andiamo bene così, che siamo amati così. È lo stupore che diventa gratitudine per essermi reso conto che ad un certo momento Dio ha aperto il suo cuore e ha trovato un posto anche per me. Questo stupore fa sentire però anche tutta la propria inadeguatezza, la propria sproporzione, la propria fragilità. Ma sono quello stupore e meraviglia che prendono possesso del cuore di Pietro a permettergli di compiere un cammino: dal riconoscere in Gesù non solo il Maestro che diceva cose giuste e pertinenti alla vita, ma il Signore, vita della propria vita: “Maestro, non abbiamo preso nulla… Signore, allontanati da me”. «Quando Pietro e i suoi compagni ritornano con le barche piene (…) egli non ha alle spalle solo un tragitto esteriore e il lavoro delle sue mani. Questo tragitto si è trasformato per lui in un percorso interiore, la cui estensione è inquadrata da Luca con due parole. (…) Pietro aveva percorso il cammino da “rabbi” a “Signore”, da “maestro” a “Figlio”. Dopo questo percorso interiore egli è in grado di ricevere la vocazione»[11], scrive Ratzinger.
Lc 5,10: Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. La parola che Gesù sempre ripete è: “Non avere paura, sarò io a fare di te qualcosa di grande”. Pietro avrebbe potuto continuare senza problemi a condurre la vita di pescatore che faceva prima. È stata però l’adesione piena di fiducia alla persona e alla promessa di Gesù a fare di lui il pescatore di uomini, il discepolo, l’apostolo, il pezzo di pietra grezzo e inadeguato a diventare la roccia su cui il Signore avrebbe edificato la sua Chiesa. Essere collaboratori di un’opera grande significa innanzitutto lasciarsi stupire da questa meraviglia: essere stati scelti, essere stati preferiti in mezzo a miliardi di uomini, della Sua opera in noi.
Rivivere con altri quello stesso stupore
Collaborare allora non significa altro che rendere partecipi gli altri di questo stupore che ha incominciato ad albeggiare nel nostro cuore. Collaborare all’opera di Dio, essere collaboratori in parrocchia, di un pezzo della Sua opera in questo mondo, consiste per prima cosa nella capacità di stupirsi di quello che Lui è capace di operare nella nostra vita. È decisivo allora far memoria di questo fatto, di questo evento unico e irripetibile. Pietro, Giacomo, Giovanni, Matteo, Andrea sono stati catturati da quello sguardo che Gesù ha portato su di loro, sulle loro situazioni lavorative e familiari. E a loro volta, hanno rivissuto con altri quello stesso stupore.
Paolo ha vissuto questa sorpresa con i suoi collaboratori più fidati: Timoteo e Tito, Barnaba, Silvano e Apollo, Aquila e Priscilla. Nelle lettere indirizzate in particolare a Tito e Timoteo si sprigiona tutto l’appassionato amore di un padre verso i propri figli, con parole a volte tenere, a volte forti e decise: Questo è l’ordine che ti do, figlio mio Timoteo(1Tm 1,18).
Paolo, pur essendo l’Apostolo per antonomasia, non ha voluto fare tutto da sé. Nella sua missione, ha cercato dei collaboratori fidati. Non solo per essere aiutato e accompagnato “materialmente” nei suoi viaggi, ma per dire agli altri ciò che gli aveva cambiato la vita: Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me (Gal 2,19-20).
Ecco allora il punto infuocato nella vita di Paolo che lo ha reso l’apostolo delle genti e gli ha dato quell’audacia, quel coraggio e quell’energia per attraversare ogni sorta di difficoltà e avversità e che egli prima di ogni altra cosa ha voluto condividere con i suoi collaboratori più stretti. Così egli ne parla, proprio rivolgendosi a Timoteo: 1Tm 1,12-17: Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Paolo è ben consapevole di ciò che era. Un uomo il cui male avrebbe potuto incatenarlo al suo passato, che lo avrebbe potuto definire e imprigionare. 1Tm 1,13-14: Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa piccola particella “ma” è risolutiva. Rappresenta il punto di svolta nella vita di Paolo. Lui sapeva da dove veniva e conosceva bene il suo passato, soprattutto quel giorno in cui, mentre veniva condannato a morte per lapidazione un ragazzo di nome Stefano, lui era lì, che approvava quell’uccisione (cfr. At 8,1). Lui che aveva il nome di Saulo come Saul il grande re. Il Signore decise che aveva bisogno di lui. E allora anche Paolo ha dovuto fare un cammino interiore, come è stato per Pietro, quel cammino interiore della fede e dell’umiltà: da Saulo il grande, a Paolo il piccolo. Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (Rm 5,20). 1Tm 1,15-16: Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Qual è la nota caratteristica che deve assumere la nostra vita se vuole veramente collaborare alla grande opera di Dio nel mondo, così come possiamo impararlo da san Paolo? Con queste parole lo descrive in un altro testo dedicato all’Apostolo l’allora cardinale Ratzinger, commentando la raffigurazione artistica consueta che lo ritrae con una spada brandita nelle mani: «Era un uomo che non aveva altra arma che il messaggio di Cristo e l’impegno della sua stessa vita per questo messaggio. (…) Paolo era un uomo disposto a lasciarsi ferire e proprio questa era la sua vera forza. Non ha protetto se stesso, non ha tentato di tenersi fuori dalle contrarietà e dalle circostanze spiacevoli, men che meno ha cercato di assicurarsi una vita tranquilla. (…) Ma precisamente il fatto che egli si sia esposto in prima persona, che non si sia tutelato, che abbia posto se stesso in balìa delle contrarietà e si sia lascito consumare per il Vangelo, lo ha reso credibile e ha edificato la Chiesa: Desidero più di tutto consumarmi e mi consumerò per le vostre anime (2Cor 12,15). (…) Paolo non pensava affatto che il compito prioritario della pastorale fosse evitare le difficoltà e non riteneva che un apostolo dovesse anzitutto preoccuparsi di avere l’opinione pubblica dalla sua parte. No, egli voleva scuotere, rompere il sonno delle coscienze, anche a costo della vita. (…) Paolo non ha operato grazie a una brillante retorica e per mezzo di raffinate strategie, ma impegnando se stesso in prima persona ed esponendosi per l’annuncio che portava. Anche oggi la Chiesa potrà convincere nella misura in cui coloro che annunciano in nome suo sono disposti a lasciarsi ferire. Dove manca la disponibilità a soffrire in prima persona, manca l’argomento decisivo della verità, da cui la Chiesa stessa dipende»[12].
Come nasce e rinasce la Chiesa, ci siamo domandati. Ora possiamo rispondere: dal lasciare che lo stupore dell’essere stati preferiti possa conquistare tutto il nostro essere, così come ha dominato il cuore e la mente di san Paolo e ci possa dare la capacità di stupirci di quello che accade anche nella vita degli altri. Solo così, potremo insieme essere parte dell’unica missione di riempire questo mondo dello stupore di Dio che sa fare grandi cose con il niente dei suoi servi.
[1]L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, 5.
[2]G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, Milano 2005, 13.
[3]Cfr. L. Giussani, Perché la Chiesa, op.cit., 83.
[4]L. Giussani, Perché la Chiesa, op.cit., 88-89.
[5]Cfr. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Le omelie di Pentling, LEV, Città del Vaticano 2016, 22.
[6]Ivi, 23.
[7]Ibidem.
[8]Ibidem.
[9]Ivi, 23-24.
[10]Ivi, 25.
[11]J. Ratzinger, Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia. Teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine, Opera omnia vol. XII, LEV, Città del Vaticano 2013, 569.
[12]Benedetto XVI – J. Ratzinger, Paolo. I suoi collaboratori e le sue comunità, LEV e San Paolo, Città del Vaticano e Milano 2009, 60-61.