Joseph Ratzinger | Benedetto XVI | Il Sabato
Lectio Magistralis, Aula Magna del Rettorato dell’Università di Siena 1991.
Nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è divenuta il punto nodale della discussione, soprattutto nell’ambito della teologia morale cattolica. Tale dibattito ruota intorno ai concetti di libertà e di norma, di autonomia e di eteronomia, di autodeterminazione e di determinazione dall’esterno mediante l’autorità. La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità.
In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini.
Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema, che dev’essere sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.
E se l’autorità — in questo caso: il Magistero ecclesiastico — vuol parlare in materia di morale, può certamente farlo, ma solo proponendo elementi per la formazione di un autonomo giudizio alla coscienza, la quale tuttavia deve sempre mantenere l’ultima parola. Tale carattere di ultima istanza proprio della coscienza viene ricondotto da alcuni autori alla formula secondo cui la coscienza è infallibile.
Non di meno può sorgere, a questo punto, una contraddizione. È fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame della coscienza, o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile.
Infatti se così fosse, ciò vorrebbe dire che non c’è nessuna verità — almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante e alla comunione degli uomini.
Chi ha il coraggio di portare questa concezione fino alle sue ultime conseguenze arriva alla conclusione che non esiste dunque nessuna vera libertà e che quelli che supponiamo essere dettami della coscienza, in realtà non sono altro che riflessi delle condizioni sociali. Ciò dovrebbe condurre alla convinzione che la contrapposizione tra libertà e autorità lascia da parte qualcosa; che dev’esserci qualcosa di ancor più profondo, se si vuole che libertà e, quindi, umanità abbiano un senso.
Una conversazione sulla coscienza erronea
In questo modo è diventato evidente che la questione della coscienza ci porta veramente al cuore del problema morale, così come la stessa questione dell’esistenza umana. Vorrei cercare ora di esporre tale questione non nella forma di una riflessione rigorosamente concettuale e quindi inevitabilmente molto astratta, ma prendendo piuttosto una via — come si dice oggi — narrativa, raccontando anzitutto la storia del mio approccio personale a questo problema. Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta, divenni consapevole di tale questione in tutta la sua urgenza.
Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza. Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, per poter salvare con questo stratagemma gli uomini, l’idea, per così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza delle persone in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare e che sia adatto certo solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta.
La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non sarebbe la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo starebbe a casa propria più nelle tenebre che nella luce; la fede non sarebbe un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione.
Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri? Non sarebbe invece meglio risparmiar loro questo peso o anche tenerli lontani da esso? Negli ultimi decenni, concezioni di questo tipo hanno visibilmente paralizzato lo slancio dell’evangelizzazione: chi intende la fede come un carico pesante, come un’imposizione di esigenze morali, non può invitare gli altri a credere; egli preferisce piuttosto lasciarli nella presunta libertà della loro buona fede.
Colui che parlava in tal modo era un sincero credente, anzi direi: un cattolico rigoroso, che adempiva al suo dovere con convinzione e scrupolosità. Tuttavia egli esprimeva in tal modo una modalità di esperienza di fede, che può solo inquietare e la cui diffusione potrebbe essere fatale per la fede.
L’avversione addirittura traumatica di molti contro ciò che considerano un tipo di cattolicesimo “pre-conciliare”, deriva, secondo me, dall’incontro con una fede di tal genere, rimasta ormai quasi solo un peso. A questo punto sorgono davvero questioni della massima importanza: una fede simile può essere veramente un incontro con la verità? La verità sull’uomo e su Dio è davvero così triste e così pesante, o invece la verità non consiste proprio nel superamento di un tale legalismo? Essa non consiste anzi nella libertà? Ma dove conduce la libertà? Quale strada essa ci indica? Nella conclusione dovremo riprendere questi problemi fondamentali dell’esistenza cristiana oggi; ma è necessario prima ritornare al nucleo centrale del nostro tema, all’argomento della coscienza.
Come ho detto, ciò che mi spaventò nell’argomento sopra menzionato fu soprattutto la caricatura della fede, che mi pareva di potervi riscontrare. Tuttavia, seguendo un secondo filo di riflessioni, mi sembrò che fosse falso anche il concetto di coscienza, che veniva presupposto. La coscienza erronea protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la salva…: questa era l’argomentazione. Qui la coscienza non si presenta come la finestra, che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità. In questa concezione la coscienza non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo essere, la possibilità di percepire quanto è più elevato e più essenziale. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi.
A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo. La coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che come minimo comun denominatore tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti nella società e su quanto in essa è diventato abitudine. L’essere convinto delle proprie opinioni, così come l’adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti. L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde, tanto meglio è per lui.
Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in questa discussione, divenne pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una disputa tra colleghi, a proposito del potere di giustificazione della coscienza erronea. Qualcuno obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercarli in paradiso. Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la massima naturalezza che le cose stavano proprio così: non c’è proprio nessun dubbio che Hitler ed i suoi complici, che erano profondamente convinti della loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e che quindi, per quanto siano state oggettivamente spaventose le loro azioni, essi, a livello soggettivo, si comportarono moralmente bene. Dal momento che essi seguirono la loro coscienza — per quanto deformata —, si dovrebbe riconoscere che il loro comportamento era per loro morale e non si potrebbe pertanto mettere in dubbio la loro salvezza eterna.
Dopo una tale conversazione fui assolutamente sicuro che c’era qualcosa che non quadrava in questa teoria sul potere giustificativo della coscienza soggettiva, in altre parole: fui sicuro che doveva esser falsa una concezione di coscienza, che portava a simili conclusioni. Una ferma convinzione soggettiva e la conseguente mancanza di dubbi e scrupoli non giustificano affatto l’uomo.
Circa trent’anni dopo trovai sintetizzate nelle lucide parole dello psicologo Albert Görres le intuizioni, che da lungo tempo anch’io cercavo di articolare a livello concettuale. La loro elaborazione intende costituire il nucleo di questo contributo. Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo, che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler o Himmler o Stalin. Forse non ne hanno nessuno i padrini della mafia, ma forse le loro spoglie sono solo ben nascoste in cantina. Anche i sensi di colpa abortiti… Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Del resto anche solo uno sguardo alla Sacra Scrittura avrebbe potuto preservare da simili diagnosi e da una simile teoria della giustificazione mediante la coscienza erronea. Nel salmo 19,13 è contenuta quest’affermazione, sempre meritevole di ponderazione: “Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe che non vedo!”. Qui non si tratta di oggettivismo veterotestamentario, ma della più profonda saggezza umana; il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di riconoscere come tale. Chi non è più in grado di riconoscere che uccidere è peccato, è caduto più profondamente di chi può ancora riconoscere la malizia del proprio comportamento, poiché si è allontanato maggiormente dalla verità e dalla conversione.
Non per niente, nell’incontro con Gesù, chi si autogiustifica appare come colui che è veramente perduto. Se il pubblicano, con tutti i suoi innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere veramente buone (Lc 18, 9-14), ciò avviene non perché in qualche modo i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui e neppure che ciò non sia poi in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio paradossale di Dio si mostra proprio a partire dalla nostra questione: il fariseo non sa più che anch’egli ha delle colpe. È completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e per gli uomini. Invece il grido della coscienza, che non da tregua al pubblicano, lo fa capace di verità e di amore. Per questo Gesù può operare con successo nei peccatori, perché essi non sono diventati, dietro il paravento di una coscienza erronea, impermeabili a quel cambiamento, che Dio attende da essi, così come da ciascuno di noi. Egli non può invece avere successo con i “giusti”, precisamente perché ad essi sembra di non aver bisogno di perdono e di conversione; infatti la loro coscienza non li accusa più, ma piuttosto li giustifica.
Qualcosa di analogo possiamo trovare anche in San Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2, 1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità — di una verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Dio a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato. Essa non viene vista, solo quando e perché non si vuole vederla. Tale rifiuto della volontà, che impedisce la conoscenza, è colpevole. Perciò se la spia luminosa non si accende, ciò è dovuto ad un deliberato sottrarsi a quanto non desideriamo vedere.
A questo punto delle nostre riflessioni è possibile tirare le prime conseguenze per rispondere alla questione sulla natura della coscienza. Possiamo dire ora: non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’autocoscienza dell’io, con la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza, da una parte può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e delle opinioni ivi diffuse. D’altra parte può derivare da una carenza di autocritica, da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito.
Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa orientale, conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici, che sono accaduti.
Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era — secondo lui — oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e ad un pericolo mortale.
Detto con altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. Chi fa coincidere la coscienza con convinzioni superficiali, la identifica con una sicurezza pseudo-razionale, intessuta di autogiustificazione, conformismo e pigrizia. La coscienza si degrada a meccanismo di decolpevolizzazione, mentre essa rappresenta proprio la trasparenza del soggetto per il divino e quindi anche la dignità e la grandezza specifiche dell’uomo. La riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa nello stesso tempo la rinuncia alla verità. Quando il salmo, anticipando la visione di Gesù sul peccato e la giustizia, prega per la liberazione da colpe non consapevoli, esso attira l’attenzione su tale connessione. Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora prende la sua rivincita, è la vera colpa, una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.
Newman e Socrate: guide per la coscienza
A questo punto vorrei fare una breve digressione. Prima di tentare di formulare risposte coerenti alle questioni sulla natura della coscienza, occorre che allarghiamo un po’ le basi della riflessione, al di là della dimensione personale da cui abbiamo preso l’avvio. Per la verità non ho l’intenzione di sviluppare qui una dotta trattazione sulla storia delle teorie della coscienza, argomento sul quale proprio di recente sono stati pubblicati diversi contributi. Preferirei invece mantenermi anche qui ad un approccio di tipo esemplaristico e, per così dire, narrativo.
Un primo sguardo deve rivolgersi al cardinale Newman, la cui vita ed opera potrebbero ben essere designati come un unico grande commento al problema della coscienza. Ma neppure Newman potrà essere qui indagato in modo specialistico. In questa cornice non ci è permesso di soffermarci sulle particolarità del concetto newmaniano di coscienza. Vorrei solo cercare di indicare il posto dell’idea di coscienza nell’insieme della vita e del pensiero di Newman. Le prospettive così guadagnate approfondiranno lo sguardo sui problemi attuali e apriranno collegamenti con la storia, cioè condurranno ai grandi testimoni della coscienza e alle origini della dottrina cristiana sulla vita secondo la coscienza.
A chi non viene in mente, a proposito del tema “Newman e la coscienza”, la famosa frase della Lettera al Duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo — cosa che non è molto indicato fare — allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”?
Secondo l’intenzione di Newman questo doveva essere — in contrasto con le affermazioni di Gladstone — una chiara confessione del papato, ma anche — contro le deformazioni “ultramontanistiche” — un’interpretazione del papato, il quale è rettamente inteso solo quando è visto insieme col primato della coscienza — dunque non ad essa contrapposto, ma piuttosto su di essa fondato e garantito. Comprendere ciò è difficile per l’uomo moderno, che pensa a partire dalla contrapposizione di autorità e soggettività. Per lui la coscienza sta dalla parte della soggettività ed è espressione della libertà del soggetto, mentre l’autorità sembra restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà. Dobbiamo quindi andare un po’ più in profondità, per imparare a comprendere di nuovo una concezione, in cui questo tipo di contrapposizione non vale più.
Per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi della coscienza e dell’autorità è la verità. Non esito ad affermare che quella di verità è l’idea centrale della concezione intellettuale di Newman; la coscienza occupa un posto centrale nel suo pensiero proprio perché al centro c’è la verità. In altre parole: la centralità del concetto di coscienza è in Newman legata alla precedente centralità del concetto di verità e può essere compresa solo a partire da questa.
La presenza preponderante dell’idea di coscienza in Newman non significa che egli, nel XIX secolo e in contrasto con l’oggettivismo della neoscolastica abbia sostenuto per così dire una filosofia o teologia della soggettività. Certamente è vero che in Newman il soggetto trova un’attenzione che non aveva più ricevuto, nell’ambito della teologia cattolica, forse dal tempo di Sant’Agostino. Ma si tratta di un’attenzione nella linea di Agostino e non in quella della filosofia soggettivistica della modernità.
In occasione della sua elevazione al cardinalato, Newman confessò che tutta la sua vita era stata una battaglia contro il liberalismo. Potremmo aggiungere: anche contro il soggettivismo nel cristianesimo, quale egli lo incontrò nel movimento evangelico del suo tempo e che, per la verità, costituì per lui la prima tappa di quel cammino di conversione che durò tutta la sua vita.
La coscienza non significa per Newman che il soggetto è il criterio decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un mondo in cui la verità è assente e che si sostiene mediante il compromesso tra esigenze del soggetto ed esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso; la coscienza è il superamento della mera soggettività nell’incontro tra l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio.
È significativo il verso, che Newman compose in Sicilia nel 1833: “Amavo scegliere e capire la mia strada. Ora invece prego: Signore, guidami tu!”. La conversione al cattolicesimo non fu per Newman una scelta determinata da gusto personale, da bisogni spirituali soggettivi. Così egli si espresse nel 1844, quando era ancora, per così dire, sulla soglia della conversione: “Nessuno può avere un’opinione più sfavorevole della mia sul presente stato dei romano-cattolici”. Ciò che per Newman era invece importante era il dovere di obbedire più alla verità riconosciuta che al proprio gusto, addirittura anche in contrasto con i propri sentimenti e con i legami dell’amicizia e di una comune formazione.
Mi sembra significativo che Newman, nella gerarchia delle virtù sottolinei il primato della verità sulla bontà o, per esprimerci più chiaramente: egli mette in risalto il primato della verità sul consenso, sulla capacità di accomodazione di gruppo. Direi quindi: quando parliamo di un uomo di coscienza, intendiamo qualcuno dotato di tali disposizioni interiori. Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte dell’opinione dominante.
In questo Newman si ricollega all’altro grande testimone britannico della coscienza: Tommaso Moro, per il quale la coscienza non fu in alcun modo espressione di una sua testardaggine soggettiva o di eroismo caparbio. Egli stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni e molte domande hanno costretto se stessi ad obbedire alla coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale.
Si evidenziano così due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri e coi propri gusti; essa non si identifica con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le esigenze del potere politico o sociale.
È utile, a questo punto, gettare uno sguardo alla problematica attuale. L’individuo non può pagare il suo avanzamento, il suo benessere, a prezzo di un tradimento della verità riconosciuta. Neppure l’umanità intera può farlo. Tocchiamo qui il punto veramente critico della modernità: l’idea di verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso. Il progresso stesso “è” la verità. Tuttavia in quest’apparente esaltazione esso diventa privo di direzione e si vanifica da solo. Infatti, se non c’è nessuna direzione, tutto quanto può essere altrettanto bene progresso quanto regresso.
La teoria della relatività formulata da Einstein concerne, come tale, il mondo fisico. A me sembra però che possa descrivere adeguatamente anche la situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La teoria della relatività afferma che all’interno dell’universo non si dà nessun sistema fisso di riferimento. Quando poniamo un sistema come punto di riferimento, a partire dal quale cerchiamo di misurare il tutto, in realtà si tratta di una nostra decisione, motivata dal fatto che di fatto solo così noi possiamo giungere ad un qualche risultato. Tuttavia la decisione sarebbe potuta essere sempre anche diversa da quella che è stata.
Quanto è stato detto a proposito del mondo fisico, riflette anche la seconda svolta “copernicana” verificatasi nel nostro atteggiamento fondamentale verso la realtà: la verità come tale, l’assoluto, il vero punto di riferimento del pensiero non è più visibile. Perciò, proprio anche dal punto di vista spirituale, non c’è più un sopra e un sotto. In un mondo senza punti fissi di riferimento non ci sono più direzioni. Ciò cui guardiamo come ad orientamento, non si basa su un criterio vero in se stesso, ma su una nostra decisione, ultimamente su considerazioni di utilità.
In un simile contesto “relativistico” un’etica teleologica o consequenzialistica diventa ultimamente nichilistica, anche se essa non ne ha la percezione. E quanto in questa concezione della realtà viene chiamato “coscienza”, ad una più profonda riflessione, si mostra essere un modo eufemistico per dire che non c’è nessuna coscienza in senso proprio, cioè nessun “con-sapere” con la verità. Ognuno determina da solo i propri criteri e, nell’universale relatività, nessuno può neppure essere d’aiuto ad un altro in questo campo, e meno ancora prescrivergli qualche cosa.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul suo centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i Sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita.
Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale. Ciò suppone che alla maniera di filosofare da lui ispirata sia stato concesso per così dire un privilegio storico salvifico e che essa sia stata resa forma adeguata per il Logos cristiano, in quanto si tratta di una liberazione mediante la verità e per la verità.
Se si prescinde dalle contingenze storiche, in cui la controversia di Socrate si svolse, si riconosce subito quanto essa — pur con argomenti diversi e altra terminologia — riguardi in fondo la medesima questione di fronte a cui ci troviamo noi oggi. La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi.
In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo — l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale.
Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa — sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio.
Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. È proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
Conseguenze sistematiche: i due livelli della coscienza
Anamnesis
Dopo tutte queste scorribande attraverso la storia del pensiero è giunto il momento di tirare le somme, cioè di formulare un concetto di coscienza. La tradizione medioevale giustamente aveva individuato due livelli del concetto di coscienza, che si devono distinguere accuratamente, ma anche mettere sempre in rapporto l’uno con l’altro. Molte tesi inaccettabili sul problema della coscienza mi sembrano dipendere dal fatto che si è trascurata o la distinzione o la correlazione tra i due elementi.
La corrente principale della scolastica ha espresso i due livelli della coscienza con i concetti di sinderesi e di coscienza. Il termine sinderesi (synteresis) confluì nella tradizione medioevale sulla coscienza dalla dottrina stoica del microcosmo. Rimase però non chiaro nel suo esatto significato e venne così a costituire un ostacolo per un accurato sviluppo della riflessione su questo aspetto essenziale della questione globale circa la coscienza. Vorrei quindi, pur senza entrare nel dibattito sulla storia del pensiero, sostituire questo termine problematico con il concetto platonico, molto più nettamente definito, di anamnesi, il quale ha il vantaggio non solo di essere linguisticamente più chiaro, più profondo e più puro, ma anche soprattutto di concordare con temi essenziali del pensiero biblico e con l’antropologia sviluppata a partire dalla Bibbia.
Col termine anamnesi si deve qui intendere precisamente quanto Paolo, nel secondo capitolo della lettera ai Romani, così espresse: “Quando dunque i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (2, 14s). La medesima idea si trova sviluppata in modo impressionante nella grande regola monastica di San Basilio. Lì possiamo leggere: “L’amore di Dio non dipende da una disciplina impostaci dall’esterno, ma è costitutivamente inscritto in noi come capacità e necessità della nostra natura razionale”. Basilio, coniando un’espressione divenuta poi importante nella mistica medioevale, parla della “scintilla dell’amore divino, che è stata nascosta nel nostro intimo”. Nello spirito della teologia giovannea egli sa che l’amore consiste nell’osservanza dei comandamenti, e che pertanto la scintilla dell’amore, infusa in noi dal Creatore, significa questo: “Abbiamo ricevuto interiormente un’originaria capacità e prontezza a compiere tutti i comandamenti divini… Essi non sono qualcosa che ci viene imposto dall’esterno”. È la stessa idea che in proposito anche Sant’Agostino afferma, riconducendola al suo nucleo essenziale: “Nei nostri giudizi non ci sarebbe possibile dire che una cosa è meglio di un’altra se non fosse impressa in noi una conoscenza fondamentale del bene”.
Ciò significa che il primo, per così dire ontologico livello del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso ulteriore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco. Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cerca!”.
Su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il Vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is 42,4). Infatti la missione si giustifica se i destinatari, nell’incontro con la parola del Vangelo, riconoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.
In tal senso Paolo può dire che i pagani sono legge a se stessi — non nel senso dell’idea moderna e liberalistica di autonomia, che preclude ogni trascendenza del soggetto, ma nel senso molto più profondo che nulla mi appartiene così poco quanto il mio stesso io, che il mio io personale è il luogo del più profondo superamento di me stesso e del contatto con ciò da cui provengo e verso cui sono diretto. In queste frasi Paolo esprime l’esperienza che aveva fatto in prima persona come missionario tra i pagani e che già prima Israele dovette sperimentare nel rapporto con i cosiddetti “timorati di Dio”. Israele aveva potuto far esperienza nel mondo pagano di ciò che gli annunciatori di Gesù Cristo trovarono nuovamente confermato: la loro predicazione rispondeva ad una attesa. Essa veniva incontro ad un’antecedente conoscenza fondamentale circa gli elementi costanti essenziali della volontà di Dio, che furono espressi per iscritto nei comandamenti, ma che è possibile ritrovare in tutte le culture e che possono essere spiegati tanto più chiaramente quanto meno un arbitrario potere culturale interviene a distorcere questa conoscenza primordiale. Quanto più l’uomo vive nel “timor di Dio” — si confronti la storia di Cornelio — tanto più concretamente e chiaramente efficace diventa questa anamnesi.
Prendiamo in considerazione ancora un’idea di San Basilio: l’amore di Dio, che si concretizza nei comandamenti, non ci viene imposto dall’esterno — sottolinea questo Padre della Chiesa —, ma viene infuso in noi precedentemente. Il senso del bene è stato impresso in noi, dichiara Agostino. A partire da ciò siamo ora in grado di comprendere correttamente il brindisi di Newman prima per la coscienza e solo dopo per il Papa.
Il Papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno.
Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia della coscienza, quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Quando si parla della fede e della Chiesa, il cui raggio a partire dal Logos redentore si estende oltre il dono della creazione, dobbiamo tuttavia tener conto di una dimensione ancor più vasta, che è sviluppata soprattutto nella letteratura giovannea. Giovanni conosce la anamnesi del nuovo “noi”, a cui partecipiamo mediante l’incorporazione in Cristo (un solo corpo: cioè un unico io con lui). In diversi passi del Vangelo si trova che essi compresero mediante un atto della memoria. L’incontro originale con Gesù ha offerto ai discepoli ciò che ora tutte le generazioni ricevono mediante il loro incontro fondamentale col Signore nel battesimo e nell’eucaristia: la nuova anamnesi della fede, che, analogamente all’anamnesi della creazione, si sviluppa in un dialogo permanente tra l’interiorità e l’esteriorità.
In contrasto con la pretesa dei dottori gnostici, i quali volevano convincere i fedeli che la loro fede ingenua avrebbe dovuto essere compresa e applicata in modo totalmente diverso, Giovanni poté affermare: “Voi non avete bisogno di una simile istruzione, dal momento che, come unti (battezzati), voi conoscete ogni cosa” (cfr. 1 Gv 2, 20.27). Ciò non significa che i credenti possiedano una fattuale onniscienza, ma indica piuttosto la certezza della memoria cristiana. Essa naturalmente impara di continuo, ma a partire dalla sua identità sacramentale, e operando così interiormente un discernimento tra quanto è uno sviluppo della memoria e quanto è una sua distruzione o una sua falsificazione. Oggi noi, proprio nella crisi attuale della Chiesa, stiamo sperimentando in modo nuovo la forza di questa memoria e la verità della parola apostolica: più delle direttive della gerarchia è la capacità di orientamento della memoria della fede semplice che porta al discernimento degli spiriti.
Solo in tale contesto si può comprendere correttamente il primato del Papa e la sua correlazione con la coscienza cristiana. Il significato autentico dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il Papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il Papa, perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede e che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.
Conscientia
Dopo queste considerazioni sul primo livello — essenzialmente ontologico — del concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione, il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medioevale venne designato con l’unico termine di coscientia — coscienza.
Presumibilmente questa tradizione terminologica ha contribuito non poco al moderno restringimento del concetto di coscienza. Dal momento che San Tommaso, per esempio, chiama col termine “conscientia” solo questo secondo livello, è coerente dal suo punto di vista che la coscienza non sia nessun “habitus”, cioè nessuna stabile qualità inerente all’essere dell’uomo, ma piuttosto un “actus”, un evento che si compie. Naturalmente Tommaso presuppone come dato il fondamento ontologico dell’anamnesi (synteresis); egli descrive quest’ultima come un’intima ripugnanza verso il male e un’intima attrazione verso il bene. L’atto della coscienza applica questa conoscenza basilare alle singole situazioni.
Secondo San Tommaso esso si suddivide in tre elementi: riconoscere (recognoscere), rendere testimonianza (testificari) ed infine giudicare (iudicare). Si potrebbe parlare di interazione tra una funzione di controllo e una funzione di decisione. A partire dalla tradizione aristotelica Tommaso concepisce questo processo secondo il modello di un ragionamento deduttivo, di tipo sillogistico. Tuttavia egli segnala con forza la specificità di questa conoscenza delle azioni morali, le cui conclusioni non derivano solo da mera conoscenza o ragionamenti. In questo ambito se una cosa è riconosciuta o non riconosciuta dipende sempre anche dalla volontà, che sbarra la strada al riconoscimento oppure vi conduce. Ciò dipende dunque da un’impronta morale già data, che può venir quindi o ulteriormente deformata o maggiormente purificata. Su questo piano, il piano del giudicare (quello della conscientia in senso stretto) vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga.
Quest’affermazione è pienamente intellegibile nella tradizione di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già San Paolo aveva detto (Rm 14, 23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, anche i criminali che agiscono con convinzione rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici non devono servire a tranquillizzarci nei nostri confronti, ma piuttosto risvegliarci e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami dalle colpe che non vedo” (Sal 19, 13).
Epilogo: coscienza e grazia
A conclusione del nostro cammino rimane ancora aperta la questione dalla quale siamo partiti: la verità, almeno così come la fede della Chiesa ce la presenta, non è forse troppo alta e troppo difficile per l’uomo? Dopo tutte le considerazioni che siamo venuti facendo possiamo ora rispondere: certo, la via alta ed ardua che conduce alla verità e al bene non è una via comoda. Essa sfida l’uomo. Ma il rimanere tranquillamente chiusi in se stessi non libera; anzi, così facendo ci si deforma e ci si perde. Scalando le altezze del bene, l’uomo scopre sempre più la bellezza, che c’è nell’ardua fatica della verità, e scopre anche che proprio in essa sta per lui la redenzione.
Ma con questo non tutto è stato ancora detto. Noi dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio, che supera il nostro proprio fare. Senza dover spendere troppe parole, ciò può diventar evidente in un’immagine tratta dal mondo greco, in cui possiamo notare nello stesso tempo come l’anamnesi del Creatore si protenda in noi verso il Redentore e come ogni uomo possa riconoscerlo come Redentore, dal momento che egli risponde alle nostre più intime attese.
Mi riferisco alla storia dell’espiazione del matricidio di Oreste. Questi commise l’omicidio come un atto conforme alla sua coscienza, fatto che il linguaggio mitologico descrive come obbedienza all’ordine del dio Apollo. Ma ora viene perseguitato dalle Erinni, che sono pure da vedere come personificazione mitologica della coscienza, che dalla memoria profonda, straziandolo, gli rimprovera che la sua decisione di coscienza, la sua obbedienza al “comando divino” era in realtà colpevole. Tutta la tragicità della condizione umana emerge in questa lotta tra gli “dei”, in questo conflitto intimo della coscienza. Nel tribunale sacro, la pietra bianca del voto di Atena porta ad Oreste l’assoluzione, la purificazione, in forza della quale le Erinni si trasformano in Eumenidi, in spiriti della riconciliazione.
In questo mito è rappresentato qualcosa di più del superamento del sistema della vendetta del sangue in favore di un ordinamento giuridico giusto della comunità. Così Hans Urs von Balthasar ha espresso questo qualcosa di più: “…la grazia rappacificante è per lui sempre ristabilimento comune della giustizia, non quella dell’antico tempo privo di grazia delle Erinni, ma quella di un diritto pieno di grazia”.
In questo mito percepiamo la voce nostalgica che la sentenza di colpevolezza obiettivamente giusta della coscienza e la pena interiormente lacerante che ne deriva non siano l’ultima parola, ma che ci sia un potere della grazia, una forza di espiazione, che possa cancellare la colpa e rendere la verità finalmente liberante. Si tratta della nostalgia che la verità non si limiti solo ad interpellarci in modo esigente, ma anche ci trasformi mediante l’espiazione e il perdono. Attraverso di essi — come dice Eschilo — “la colpa è lavata via” e il nostro stesso essere è trasformato dall’interno, al di là delle nostre capacità.
Ora questa è proprio la novità specifica del cristianesimo: il Logos, la Verità in persona, è nello stesso tempo anche la riconciliazione, il perdono che trasforma oltre tutte le nostre capacità e incapacità personali. In ciò consiste la vera novità, su cui si fonda la più grande memoria cristiana, la quale è nello stesso tempo anche la risposta più profonda a ciò che l’anamnesi del Creatore attende in noi. Laddove questo centro del messaggio cristiano non viene sufficientemente proclamato o percepito, là la verità si trasforma di fatto in un giogo, che risulta troppo pesante per le nostre spalle e dal quale dobbiamo cercare di liberarci. Ma la libertà ottenuta in tal modo è vuota. Essa ci porta nella terra desolata del nulla e così si distrugge da sola. Il giogo della verità è divenuto “leggero” (Mt 11, 30), quando la Verità è venuta, ci ha amato ed ha bruciato le nostre colpe nel suo amore. Solo quando noi conosciamo e sperimentiamo interiormente tutto ciò, diventiamo liberi di ascoltare con gioia e senza ansia il messaggio della coscienza.