Verginità

Don Paolo Sottopietra

Dio ha chiamato degli uomini alla verginità, ha chiamato noi a vivere come lui. Chi può capire, capisca (Mt 19, 12), dice Gesù. Cioè: non viene dall’uomo questa chiamata, non risponde a categorie umane, ma è «imitazione del modo di vivere di un uomo che era Dio» e «non può avere nessun’altra ragione se non quella di seguire Cristo, di imitare Cristo»[1]. È necessario perciò che un uomo sia toccato dallo Spirito Santo per poter capire, per poter intendere e aderire a questa forma di vita.

A questo punto si presenta però subito alla nostra mente una constatazione drammatica: paradossalmente la verginità brilla oggi con particolare evidenza nel suo valore di segno, di rimando a un altro mondo, soprattutto perché è screditata e osteggiata. Nei mesi scorsi, riflettendo sulla radice delle campagne denigratorie rivolte ai sacerdoti, abbiamo toccato quella che mi sembra essere la ragione ultima dell’odio: il fatto che la verginità è in sé il segno di un oltre, il segno di un impossibile che dimostra di essere reale. Se la verginità fosse menzogna, inganno di uomini che coprono sotto una nobile facciata la loro corruzione, allora tutto sarebbe corruzione. E se tutto fosse corruzione, io sarei giustificato nella mia corruzione, nessuno e niente più mi accuserebbe, nessuno più potrebbe pormi dei limiti. Ecco la radice e il fine dell’attacco: dimostrare che tutto è fango e buio, perché se ci fosse anche solo un punto di luce saremmo costretti a incamminarci verso di esso. Se la verginità è reale, al contrario, l’uomo non può più evitare di prendere posizione di fronte a Cristo (al vero contenuto dell’annuncio della Chiesa!), perché non può eludere l’appello che proviene da essa. Ma se la verginità è menzogna e finzione, se in realtà non esiste, siamo liberi di seguire noi stessi, il nostro istinto, le nostre passioni e la nostra volontà di dominio. Ecco come ragiona il mondo che ha rifiutato Cristo e continuamente lo rifiuta: È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade(Sap 2, 14-15). Chi vive la verginità è associato a questo destino di profezia e di martirio – e lo stesso accade, se pur in modo diverso, a chi vive il matrimonio come indissolubile nella fedeltà coniugale.

François Mauriac, nell’opuscolo intitolato Giovedì Santoche quest’anno ho citato molte volte, scriveva: «Può sembrare che i preti facciano difetto, ma in verità quale adorabile mistero che vi siano ancora dei preti! Non più umani privilegi: la castità, la solitudine, più spesso l’odio, lo scherno e, sopra tutto, l’indifferenza di una società che non sembra aver più posto per essi […]. Sommersi interamente in un’atmosfera pagana, la loro virtù susciterebbe il sorriso del mondo, se alla virtù il mondo ancora credesse. Sorvegliati e spiati, quelli che cadono sono denunciati da mille parti; quanto agli altri, che sono la stragrande maggioranza, nessuno si meraviglia di vederli faticare oscuramente senza una mercede che si rispetti, chinarsi sui corpi in agonia, infangarsi nei cortili degli oratori […]. Le parole di Cristo a loro riguardo sono una realtà di ogni giorno: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”»[2]. Mauriac ha pubblicato il suo testo nel 1931, ma le sue parole sembrano scritte oggi per descrivere situazioni di cui anche noi facciamo esperienza diretta.

Gli fa eco Hans Urs von Balthasar, in un testo pubblicato nel 1974: «E se […] oggi siamo disattesi e disprezzati, […] occorre rimandare ancora una volta al fatto che verginità e croce, quindi ignominia, sono tra loro nel più stretto rapporto […]. E se persino i cristiani non vedono più il suo occulto valore, poiché corrono dietro a ideologie non cristiane, allora le persone vergini tornano a collocarsi nell’oscurità dell’apparente inutilità, che è un contrassegno fondamentale della croce di Cristo»[3]. Nel rifiuto del mondo, brilla dunque quel punto di luce che diventa scandalo: in quanto vergini, siamo nel mondo una voce che la mentalità dominante deve ridurre al silenzio, perché pretende di far risuonare il richiamo a una conversione che il mondo sente inaccettabile. È una voce che non si leva in contese, non grida, né si fa udire sulle piazze (cfr. Mt 12, 19), ma che in questa sua discrezione rimanda potentemente alla verità di un altro mondo ed esige dolcemente di cambiare questo nostro mondo. «Stiamo parlando di cose che c’entrano con questa vita, ma hanno le radici ad un livello che è un altro mondo, e questo altro mondo deve modificare, deve cambiare questo mondo»[4], ci insegnava don Giussani nella quarta lezione della verifica. Cambiare il nostro mondo secondo Cristo, perché di questo nostro mondo «Cristo è il fine»[5]

La verginità, infatti, documenta la realtà di un amore più grande e più vero di quello che gli uomini, pur cercandolo, non sanno vivere, e diventa così proposta per la vita di tutti. La verginità documenta nel presente la possibilità di un compimento più autentico dell’esperienza umana, una modalità di possesso della realtà più vero e profondo di quello che qualunque prospettiva puramente umana potrà mai realizzare: «Cristo [infatti] non ha rinunciato, casomai ha apparentemente rinunciato per possedere di più […]. Il modo con cui Cristo ha vissuto il rapporto con le persone e con le cose è un modo più profondo di possedere; e questo non è un modo di dire, ma è un’esperienza che ci è promessa»[6].Questo dono di grazia, vissuto da uomini concreti che condividono le stesse condizioni materiali di tutti, diventa segno di qualcosa di veramente nuovo. La verginità, ribadisce Giussani parlando ai Memores Domini«è la parola che riassume tutto il genio, l’operatività, l’amorosità, l’amore all’umano dei monaci dal 500 al 1300 […]. È vedendo come [questi uomini dedicati a Dio] stavano insieme che la gente rozza di allora, che i barbari hanno capito come si stava tra marito e moglie, tra genitori e figli: è nata l’idea di famiglia cristiana (come è nel cristianesimo)»[7]. Infatti, «[…] una compagnia di gente che viva la verginità è realmente un momento, l’inizio del mondo nuovo che si deve come proiettare, comunicare a tutto il popolo cristiano, così che la gente viva la famiglia secondo tutte le norme morali e le sue difficoltà, così che tutto il popolo cristiano inizi un mondo nuovo. E infatti tutte le famiglie più intensamente religiose hanno un’enorme stima della verginità (innanzitutto la grande famiglia della Chiesa, che esige che i capi delle sue comunità siano nella verginità)»[8].

Ho citato con ampiezza il testo della quarta lezione della verifica perchéle parole pronunciate allora da don Giussani sono certamente tra le più decisive che abbiano mai colpito le nostre orecchie, tanto è vero che hanno chiarito in noi, quando eravamo ancora giovanissimi, l’intuizione dello scopo della chiamata che sentivamo provenirci da Dio e hanno poi determinato la forma che la vita di tutti noi ha concretamente assunto. Non dimentichiamole, anche se ripeterle oggi può farci guardare da molti come dei retrogradi o degli irresponsabili. La verginità, per l’ambiente mentale in cui siamo, è solo un retaggio insensato di epoche passate e oscure. Ma l’insegnamento che abbiamo ricevuto su di essa rimane vero oggi come lo è stato ieri, ed è un dono per tutti, a cominciare dai molti fratelli cristiani oggi così confusi! A noi è affidata la responsabilità di custodirlo, oltre che di viverlo.

Un ultimo cenno di approfondimento, volgendo di nuovo lo sguardo all’interno della Chiesa. Joseph Ratzinger – in un testo per noi importante, intitolato I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologicaed esposto dall’allora allora cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede durante il convegno dei movimenti del 1998 – scriveva: «La Chiesa latina ha esplicitamente sottolineato [il] carattere rigorosamente carismatico del ministero presbiterale [ha cioè considerato il sacerdozio come un dono di Dio che nessuno si può attribuire da sé], e l’ha fatto […] vincolando la condizione presbiterale al celibato, che con tutta evidenza può essere inteso solo come carisma personale, e non semplicemente come peculiarità di un ufficio». Di nuovo: la verginità, e quindi il celibato sacerdotale, è un dono dello Spirito, una chiamata che può venire solo da Dio. «La pretesa di separare l’una [la condizione presbiterale] dall’altro [dal celibato] poggia, in definitiva, sull’idea che lo stato presbiterale possa essere considerato non carismatico [cioè non frutto di un dono dello Spirito Santo], bensì – per la sicurezza dell’Istituzione e delle sue esigenze – come puro e semplice ministero che spetta all’Istituzione medesima conferire [ovvero un incarico di servizio che la chiesa dà a chi vuole, per il suo funzionamento interno]. Se si vuole così totalmente inserire lo stato presbiterale nella propria realtà amministrativa, con le sue sicurezze istituzionali, ecco che il vincolo carismatico, che si trova nella esigenza del celibato, è uno scandalo da eliminare il più presto possibile»[9]. Il legame tra sacerdozio e celibato può essere sentito come una limitazione inutile, che riduce per esempio le possibilità di presenza dei sacerdoti alle comunità prive di sacramenti; in ultima analisi però esso è messo in discussione perché non si accorda con una visione funzionale della Chiesa stessa, che guarda al modello protestante in cui il sacerdozio è ridotto a puro incarico di servizio, per lo più temporaneo. Ratzinger porta infatti il ragionamento fino all’ultima conseguenza: «Ma allora [in questa visione delle cose, che slega in ultima analisi il ministero dal sacramento e il sacramento dall’essere della persona] anche la Chiesa nel suo insieme viene intesa come un ordinamento puramente umano, e la sicurezza, cui si mira in tal modo, non restituisce più affatto ciò che dovrebbe conseguire. Che la Chiesa sia non una nostra Istituzione bensì l’irrompere di qualcos’altro, onde è per natura sua “iuris divini”, è un fatto dal quale consegue che noi non possiamo mai crearcela da noi». Al contrario, conclude Ratzinger, «[…] la Chiesa è interamente se stessa solo laddove sono trascesi i criteri e le modalità delle istituzioni umane»[10].

In altre parole, la verginità diviene segno della natura divina della Chiesa. La Chiesa è dono di un Altro, Gerusalemme che scende dall’alto, sgorga ab aeternodal mistero stesso di Dio e sorge nella storia da una convocazione che non viene da voce umana: la verginità è segno permanente di tutto questo, anche nella Chiesa e per la Chiesa! Per questo è stata legata al sacerdozio. Una Chiesa dalla quale sparisse l’esperienza vissuta della verginità, non sarebbe più segno essa stessa, non sarebbe più canale di qualcosa che va oltre ciò che l’uomo può produrre da sé. Analogamente, se viene meno il celibato sacerdotale, anche «la realtà ontologica della Chiesa scompare dietro una struttura sociologica manipolata dagli uomini»[11]scrive von Balthasar. E aggiunge: «Può essere che in una Chiesa futura i sacerdoti celibi siano in minoranza. Può essere. Ma può essere anche che sull’esempio dei pochi si accenda nella Chiesa una nuova evidenza della giustezza e indispensabilità di questa vita. Può essere che siamo costretti ad attraversare un periodo di fame e sete [basterebbe guardare alle comunità di queste montagne trentine in cui ci troviamo, ormai drammaticamente sguarnite di preti], ma che proprio questa carenza susciti nuove vocazioni, o, per meglio dire, nuovo coraggio per rispondere alle vocazioni che non mancano mai»[12].

In quanto chiamati alla verginità, gli uomini da lui scelti sono stati costituiti da Dio in mezzo al suo popolo e in mezzo al mondo come un segno escatologico, e ciò non perché siano migliori degli altri e neppure perché si comportino di fatto in modo irreprensibile, ma innanzitutto «con la forma stessa della propria vita»[13]. Tale forma partecipa infatti di per sé di quella che, secondo il piano di Dio, sarà la condizione finale dell’umanità. Ma è altrettanto vero che l’esperienza concreta della verginità si alimenta alla coscienza che Colui che ci compie è un Dio vivo e presente; non possiamo perciò vivere quotidianamente nella verginità, se la preghiera non riempie le nostre giornate, se non rimaniamo in rapporto con Colui che ci ha chiamati, se non ne approfondiamo progressivamente la conoscenza, se non ci identifichiamo sempre più coscientemente con lui. Solo se saremo tutti di Cristo, saremo vergini.

Dobbiamo dunque stimare e insegnare a stimare la verginità nel suo valore ideale. Dobbiamo poi aiutarci a viverla, abbracciando coscientemente la lotta per la castità, che richiede impegno costante ma dona anche una progressiva libertà, riprendendo continuamente la tensione a imitare Cristo in tutto e domandando che venga in aiuto alle nostre deboli forze con la sua grazia dopo ogni caduta anche lieve che abbia contraddetto ciò che lui ha fatto di noi. Dobbiamo ogni giorno convertirci a Cristo, unica ragione del nostro modo di vivere, unico Tu a cui donarci completamente e che può rendere pienamente umano ogni nostro gesto. Aiutiamoci, affinché il nostro impegno quotidiano sia reale anche se rimaniamo pieni di imperfezione e bisognosi di misericordia da parte di Dio. Aiutiamoci, affinché la nostra risposta al suo appello, che pur rimane così spesso claudicante e imperfetta, sia sempre più sincera. La nostra vita diverrà allora segno e irradiazione di qualcosa che non viene da noi, e in forza della sua bellezza griderà al mondo che Cristo è tutto, che Cristo è vero. Chiediamo a lui la grazia che questa testimonianza si avveri in noi non solo oggettivamente, cioè per la pura forma di vita che abbiamo abbracciato, ma anche per il contenuto concreto delle nostre giornate, per quella esperienza di sacrificio e di consolazione, di fortezza e di compimento, di lotta e di dignità che rende più umani innanzitutto noi che seguiamo Cristo.


[1]Luigi Giussani, Lezioni della verifica, IV, stampa pro manuscripto, 48.

[2]François Mauriac, Giovedì Santo, Morcelliana, Brescia 1955, 36-37.

[3]H. U. von Balthasar, Vivere nel celibato oggi, in Lo Spirito e l’istituzione. Saggi teologici IV, Morcelliana, Brescia 1979, 328.

[4]Luigi Giussani, Lezioni della verifica, IV, stampa pro manuscripto, 47.

[5]Ivi, 51.

[6]Ivi, 52. Continua Giussani: «[…] il modo con cui Cristo possedeva i rapporti con le persone e con le cose era l’inizio del modo con cui tutti possiederanno i rapporti con le cose e le persone in paradiso. Perché il paradiso non sarà un “non possedere” – come tutti pensano, per cui lo immaginano come una noia mortale –, sarà questo possesso, ma senza nessun paragone più grande, così come è più luminoso il sole di mezzogiorno rispetto a quello dell’alba (però l’alba al mattino è l’inizio della luce)».

[7]Luigi Giussani, Affezione e dimora, BUR, Milano 2001, 431.

[8]Luigi Giussani, Lezioni della verifica, IV, stampa pro manuscripto, 54.

[9]Joseph Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, op. cit.

[10]Ibidem.

[11]H. U. von Balthasar, Lo Spirito e l’istituzione. Saggi teologici IV, op. cit, 325.

[12]Ivi, 328-329.

[13]Luigi Giussani, Lezioni della verifica, IV, stampa pro manuscripto, 52. Nella stessa lezione Giussani specifica: «[…] il compito della verginità è che la propria vita, come forma, sia per richiamaretutti, per testimoniare che Cristo è l’unica cosa per cui vivere e morire, avere figli o non averli, avere salute o non averne». Questa insistenza sul significato oggettivo della forma di vita torna spesso nell’insegnamento di don Giussani. Vedi Luigi Giussani, L’attrattiva Gesù, BUR, Milano 1991, 256: «Questo è il valore della verginità come forma di vita. Il suo contenuto può essere una vita “semipazza”, piena di errori. Ma ciò che grida al mondo che Cristo è la verità – da cui la vita dipende, perché è misericordia – è la forma della vita che mantengo. Nonostante quel che sono, la mantengo». Vedi anche Luigi Giussani, «Tu» (o dell’amicizia), BUR, Milano 2001, 195-196: «[…] la vocazione è fissata da Dio (in questo senso si può notificare anche nella fedeltà a una forma). Che io accetto di dedicarmi a Cristo, vuol dire: “Accetto di affermare come metodo di vita che Cristo è tutto”. Poi faccio centomila errori per giorno: vale lo stesso, è una testimonianza. Chi invece non accetta Cristo e quindi non riconosce il valore totale di Cristo, di fronte a uno che si dedica a Cristo rimane come interdetto; poi, se lo vede sbagliare: “Ah!” dice, e si sente libero».