Padre Mauro Lepori – Abate generale dell’Ordine Cistercense
Carissimi,
la situazione che si è venuta a creare con la pandemia di coronavirus mi spinge a cercare un contatto con tutti voi tramite questa lettera, quale segno che stiamo vivendo questa situazione in comunione, non soltanto fra di noi, ma con la Chiesa tutta e il mondo intero. Trovandomi in Italia e a Roma, sperimento questa prova in un punto cruciale, anche se è chiaro che la maggior parte dei paesi in cui viviamo si troverà presto nella stessa situazione.
Giovare a tutti
È evidente che la prima reazione corretta che dobbiamo avere, anche come Ordine e comunità monastiche, è quella di seguire le indicazioni delle autorità civili e ecclesiastiche per contribuire con l’obbedienza e il rispetto ad una rapida risoluzione di questa epidemia. Mai come ora siamo richiamati tutti a renderci conto di quanto la responsabilità personale sia un bene per tutti. Chi accetta le regole e i comportamenti necessari per difendersi dal contagio contribuisce a limitarlo anche per gli altri. Sarebbe una regola di vita da osservare sempre, a tutti i livelli, ma nell’emergenza attuale è lampante che tutti siamo solidali nel bene e nel male.
Ma a parte l’aspetto sanitario della situazione, cosa ci chiede questo momento drammatico rispetto alla nostra vocazione? A cosa ci chiama Dio in quanto cristiani e particolarmente in quanto monaci e monache attraverso questa prova universale? Che testimonianza siamo invitati a dare? Che aiuto specifico siamo chiamati ad offrire alla società, a tutti i nostri fratelli e sorelle nel mondo?
Mi torna in mente l’espressione della Carta Caritatis su cui ho messo spesso l’accento durante lo scorso anno, in particolare nella Lettera di Natale 2019 che, fra l’altro, veniva pubblicata proprio quando in Cina iniziava il contagio di COVID-19: “Prodesse omnibus cupientes – desiderosi di giovare a tutti” (cfr. CC, cap. I). Che giovamento siamo chiamati a offrire a tutta l’umanità in questo preciso momento?
“Fermatevi e sappiate che io sono Dio”
Forse il nostro primo compito è quello di vivere questa circostanza dandole un senso. In fondo, il vero dramma che vive attualmente la società non è tanto o solo la pandemia, ma le sue conseguenze nella nostra esistenza quotidiana. Il mondo si è fermato. Le attività, l’economia, la vita politica, i viaggi, i divertimenti, lo sport si sono fermati, come per una Quaresima universale. Ma non solo questo: in Italia e ora anche in altri paesi, si è fermata anche la vita religiosa pubblica, la celebrazione pubblica dell’Eucaristia, tutti i raduni e gli incontri ecclesiali, per lo meno quelli in cui i fedeli si incontrano fisicamente. È come un grande digiuno, una grande astinenza universale.
Questo arresto imposto dal contagio e dalle autorità è presentato e vissuto come un male necessario. L’uomo contemporaneo, infatti, non sa più fermarsi. Si ferma solo se è fermato. Fermarsi liberamente è diventato quasi impossibile nella cultura occidentale odierna, peraltro globalizzata. Neppure per le vacanze ci si ferma veramente. Solo i contrattempi spiacevoli riescono a fermarci nella nostra corsa affannosa per approfittare sempre più della vita, del tempo, spesso anche delle altre persone. Ora, però, un contrattempo sgradevole come un’epidemia ci ha fermati quasi tutti. I nostri progetti e i nostri piani sono stati annullati, e non sappiamo fino a quando. Anche noi, che pur viviamo una vocazione monastica, magari di clausura, quanto ci siamo abituati a vivere come tutti, a correre come tutti, a pensare alla nostra vita sempre proiettandoci verso un futuro!
Fermarsi, invece, vuol dire ritrovare il presente, l’istante da vivere ora, la vera realtà del tempo, e quindi anche la vera realtà di noi stessi, della nostra vita. L’uomo vive solo nel presente, ma siamo sempre tentati di rimanere attaccati al passato che non c’è più o a proiettarci verso un futuro che non c’è ancora e forse non ci sarà mai.
Nel salmo 45, Dio ci invita a fermarci per riconoscere la sua presenza in mezzo a noi:
“Fermatevi! Sappiate che io sono Dio,
eccelso tra le genti, eccelso sulla terra.
Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.” (Sal 45,11-12)
Dio ci chiede di fermarci; non ce lo impone. Vuole che di fronte a Lui ci fermiamo e rimaniamo liberamente, per scelta, cioè con amore. Non ci ferma come la polizia che arresta un delinquente in fuga. Vuole che ci fermiamo come ci si ferma davanti alla persona amata, o come ci si ferma di fronte alla tenera bellezza di un neonato che dorme, o a un tramonto o a un’opera d’arte che ci riempiono di stupore e silenzio. Dio ci chiede di fermarci riconoscendo che la sua presenza per noi riempie tutto l’universo, è la cosa più importante della vita, che nulla può superare. Fermarci di fronte a Dio significa riconoscere che la sua presenza riempie l’istante e quindi soddisfa pienamente il nostro cuore, in qualsiasi circostanza e condizione ci troviamo.
Vivere la costrizione con libertà
Cosa significa questo nella situazione attuale? Che possiamo viverla con libertà, anche se costretti. La libertà non è scegliere sempre e comunque quello che si vuole. La libertà è la grazia di poter scegliere ciò che dà pienezza al nostro cuore anche quando ci è tolto tutto. Persino quando ci è tolta la libertà, la presenza di Dio ci conserva e offre la libertà suprema di poter fermarci di fronte a Lui, di riconoscerlo presente e amico. È la grande testimonianza dei martiri e di tutti i santi.
Quando Gesù ha camminato sulle acque per raggiungere i suoi discepoli in mezzo al mare in tempesta, li ha trovati che non potevano avanzare per il vento contrario: “La barca (…) era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario” (Mt 14,24). I discepoli lottano impotenti contro il vento che li contrasta nel loro progetto di raggiungere la riva. Gesù li raggiunge come solo Dio può avvicinarsi all’uomo, con una presenza libera da ogni costrizione. Nulla, nessun vento contrario e neppure nessuna legge della natura si può opporre al dono della presenza di Cristo venuto a salvare l’umanità. “Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare” (Mt 14,25).
Ma c’è un’altra tempesta che vorrebbe opporsi alla presenza amica del Signore: la nostra diffidenza e paura: «I discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura» (14,26). Spesso quello che immaginiamo con gli occhi della nostra diffidenza trasforma la realtà in “fantasma”. Allora, è come se fossimo noi stessi ad alimentare la paura che ci fa gridare. Ma Gesù è più forte anche di questa tempesta interiore. Si avvicina di più, ci fa sentire la sua voce, la sonorità pacificante della sua presenza amica: «Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”» (14,27).
«Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”» (Mt 14,33). Solo quando i discepoli riconoscono la presenza di Dio e la accolgono come tale, cioè si fermano davanti ad essa, il vento cessa di contrastarli (cfr. Mt 14,32) e “subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti” (Gv 6,21).
Può avvenire questo nella situazione di pericolo e timore che viviamo ora di fronte al dilagare del virus e alle conseguenze, certamente gravi e durature, di questa situazione su tutta la società? Riconoscere in questa circostanza una possibilità straordinaria di accogliere e adorare la presenza di Dio in mezzo a noi non vuol dire fuggire la realtà e rinunciare ai mezzi umani che si mettono in atto per difenderci dal male. Questo sarebbe un’ingiuria a chi ora, come tutto il personale sanitario, si sacrifica per il nostro bene. Sarebbe anche blasfemo pensare che Dio ci manda Lui le prove per poi mostrarci quanto è buono nel liberarcene. Dio entra nelle nostre prove, le soffre con noi e per noi fino alla morte in Croce. Ci rivela così che la nostra vita, nella prova come nella consolazione, ha un senso infinitamente più grande che la risoluzione dell’attuale pericolo. Il vero pericolo che incombe sulla vita non è la minaccia della morte, ma la possibilità di vivere senza senso, di vivere senza essere tesi ad una pienezza più grande della vita e ad una salvezza più grande della salute.
Questa pandemia, con tutti i corollari e le conseguenze che comporta, è allora per tutti un’occasione di fermarci davvero, non solo perché costretti, ma perché siamo invitati dal Signore a stare davanti a Lui, a riconoscere che Lui, proprio ora, ci viene incontro in mezzo alla tempesta delle circostanze e delle nostre angosce, proponendoci un rinnovato rapporto di amicizia con Lui, con Lui che è senz’altro capace di arrestare la pandemia come ha calmato il vento, ma che soprattutto ci rinnova il dono della sua presenza amica, che sconfigge la nostra fragilità piena di timore – “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” – e ci vuole condurre subito al destino ultimo e pieno dell’esistenza: Lui stesso che rimane e cammina con noi.
Dovremmo sempre vivere così
Questa scena del Vangelo, così come la scena del mondo turbato di oggi, non dovrebbe sembrarci tanto estranea. In realtà, la nostra vocazione di battezzati, come la nostra vocazione alla vita consacrata nella forma monastica, dovrebbe sempre aiutarci e richiamarci a vivere così. La situazione attuale richiama a noi e a tutti i cristiani un po’ quello che san Benedetto dice del tempo di Quaresima (cfr. RB 49,1-3): dovremmo sempre vivere così, con questa sensibilità al dramma della vita, con questo senso della nostra strutturale fragilità, con questa capacità di rinunciare al superfluo per salvaguardare ciò che in noi e fra di noi è più profondo e vero, con questa fede che la nostra vita non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Dovremmo pure sempre vivere con la coscienza che siamo tutti responsabili gli uni degli altri, solidali nel bene e nel male delle nostre scelte, dei nostri comportamenti anche più reconditi e apparentemente insignificanti.
La prova che viene a tormentarci deve anche renderci più sensibili alle tante prove che colpiscono gli altri, gli altri popoli, che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza. Ci ricordiamo, per esempio, che mentre da noi infierisce il coronavirus, i popoli del corno d’Africa subiscono da mesi un’invasione di locuste che minaccia la sussistenza di milioni di persone? Ci ricordiamo dei migranti sospesi in Turchia? Ci ricordiamo della ferita sempre aperta in Siria e tutto il Medio Oriente?
Un periodo di prova può rendere le persone più dure o più sensibili, più indifferenti o più compassionevoli. In fondo, tutto dipende dall’amore con cui lo viviamo, ed è soprattutto questo che Cristo viene a donarci e a destare in noi con la sua presenza. Qualsiasi prova prima o poi passa, ma se la viviamo con amore, la ferita che la prova incide nella nostra vita potrà rimanere aperta, come sul Corpo del Risorto, come una fonte sempre zampillante di compassione.
Ministri del grido che mendica salvezza
C’è però un compito che siamo chiamati ad assumere in modo specifico: l’offerta della preghiera, della supplica che mendica la salvezza. Gesù Cristo, con il battesimo, la fede, l’incontro con Lui tramite la Chiesa e il dono di una particolare vocazione a stare con Lui nella “scuola del servizio del Signore” (RB Prol. 45), ci ha chiamati a stare di fronte al Padre chiedendo tutto nel suo nome. Per questo ci dona lo Spirito che, “con gemiti inesprimibili”, “viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente” (Rm 8,26). Prima di entrare nella passione e morte, Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Io ho scelto voi (…) perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,16). Non ci ha scelti solo per pregare, ma per essere sempre esauditi dal Padre.
La nostra ricchezza è allora la povertà di non avere altro potere che quello di mendicare con fede. E questo è un carisma che non ci è dato solo per noi, ma per portare a compimento la missione del Figlio che è la salvezza del mondo: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17). Anche il bisogno di salvaguardare o recuperare la salute, che tutti sentono in questo momento, magari con angoscia, è un bisogno di salvezza, della salvezza che preservi la nostra vita dal sentirsi senza senso, sballottata dalle onde senza un destino, senza l’incontro con l’Amore che ce la dona in ogni istante per giungere a vivere eternamente con Lui.
Questa coscienza del nostro compito prioritario di preghiera per tutti deve renderci universalmente responsabili della fede che abbiamo, e della preghiera liturgica che la Chiesa ci affida. In questo momento in cui è imposto alla maggior parte dei fedeli di rinunciare all’Eucaristia comunitaria che li raduna nelle chiese, quanto dobbiamo sentirci responsabili delle Messe che possiamo continuare a celebrare nei monasteri, e della preghiera dell’Ufficio Divino che continua a riunirci in coro! Non abbiamo certo questo privilegio perché siamo migliori degli altri. Forse ci è dato appunto perché non lo siamo, e questo rende la nostra mendicanza più umile, più povera, più efficace di fronte al Padre buono di tutti. Dobbiamo essere più che mai consapevoli che nessuna delle nostre preghiere e liturgie va vissuta senza sentirci uniti a tutto il Corpo di Cristo che è la Chiesa, la comunità di tutti i battezzati tesa ad abbracciare tutta l’umanità.
La luce degli occhi della Madre
Ogni sera, in tutti i monasteri cistercensi del mondo, entriamo nella notte cantando il Salve Regina. Anche questo dobbiamo farlo pensando alle tenebre che spesso avvolgono l’umanità, riempiendola di timore di perdersi in esse. Nel Salve Regina chiediamo su tutta la “valle di lacrime” del mondo, e su tutti gli “esuli figli di Eva”, la luce dolce e consolante degli “occhi misericordiosi” della Regina e Madre di Misericordia, affinché in ogni circostanza, in ogni notte e pericolo, lo sguardo di Maria ci mostri Gesù, ci mostri che Gesù è presente, che ci conforta, che ci guarisce e ci salva.
Tutta la nostra vocazione e missione è descritta in questa preghiera.
Che Maria, “vita, dolcezza e speranza nostra”, ci doni di vivere questa vocazione con umiltà e coraggio, offrendo la nostra vita per la pace e gioia di tutta l’umanità!
Intervista a Padre Mauro Lepori – Il Sussidiario
Padre Mauro-Giuseppe Lepori, Abate generale dell’Ordine Cistercense, ha scritto una sentita e profonda lettera agli appartenenti al suo ordine, “Fermatevi e sappiate che io sono Dio. Lettera per il tempo dell’epidemia” in cui affronta il dramma di questi giorni, il coronavirus, che miete centinaia di vite al giorno. Ne abbiamo parlato con lui per approfondire le sue parole.
Nella sua “Lettera per il tempo dell’epidemia”, lei ha usato l’espressione “Una quaresima universale”. Le chiese rimangono chiuse e non è possibile per i fedeli andare a Messa. Lei dice anche che questo è “un grande digiuno, una grande astinenza universale”. Non tutti i cristiani capiscono questo obbligo di non partecipare alla liturgia, lo sentono come un’imposizione che li priva della loro libertà di fede. Perché, secondo lei, questa fatica?
È difficile per tutti capire fino a che punto ci siano o no delle alternative a certe decisioni delle autorità civili e ecclesiastiche riguardo a quello che per noi è essenziale, come il sacramento dell’Eucaristia. È sicuramente difficile capirlo anche per le autorità stesse. È meglio accusare il colpo della realtà così come si presenta e ci è chiesto di viverla, lasciandoci però ferire da questa mancanza essenziale. Oggi questa fede non è più così viva nel popolo, e in noi stessi, e forse la situazione attuale viene come a rivelarci la nudità della nostra fede, la superficialità della nostra pratica religiosa. Insomma, se spesso l’Eucaristia domenicale non era già più importante che lo sport, i viaggi, gli spettacoli eccetera, come pretendiamo che ne affermiamo l’importanza quando si rischia veramente la vita? Per questo, anche se come prete e monaco posso continuare a celebrare ogni giorno, lo vivo anch’io con un senso quaresimale di contrizione per come ho spesso sprecato i tesori che sono posti nelle nostre mani.
I cristiani perseguitati, o in situazioni di guerra, vivono questa condizione senza perdere la fede. È un problema di noi cristiani occidentali, che spesso riduciamo la fede a un fatto esteriore?
Ora siamo in questa situazione, in questo digiuno, in questa mancanza reale. Lasciamocene ferire, anche con gratitudine per il fatto che vediamo in noi e in tutti un recupero di ciò che nella vita è veramente importante.Per esempio: i contatti familiari, lo stare insieme, il preoccuparsi della salute gli uni degli altri, la stima per chi ci serve nascostamente negli ospedali e in tutti i servizi pubblici, il valore della vocazione di chi ci trasmette ogni giorno il Corpo di Cristo, normalmente in presenza di poche vecchiette, la Sua parola di vita che magari ora scopriamo finalmente come ciò che dà senso e luce alla nostra esistenza, che dilata il respiro del nostro cuore altrimenti affannato dalla paura e dalla solitudine.
Dobbiamo riscoprire un approccio diverso alla fede?
Se riscopriamo l’umano che è in noi, negli altri, e direi soprattutto fra noi e gli altri (tutti gli altri!), allora capiamo che in un certo senso ci è dato di toccare il Corpo, il Sangue e l’Anima di Cristo come se facessimo la Comunione tutti i giorni, anzi in ogni istante.
Lei ha scritto: “Dio ci chiede di fermarci; non ce lo impone. Vuole che di fronte a Lui ci fermiamo e rimaniamo liberamente, per scelta, cioè con amore. Non ci ferma come la polizia che arresta un delinquente in fuga”. Questo come ha a che fare con il libero arbitrio? Le circostanze possono impedirlo?
La libertà non si gioca mai veramente nel potere che abbiamo, o nel cambiare le circostanze, ma nel modo con cui ci poniamo di fronte ad esse. Solo un rapporto con l’Infinito che il mio cuore possa sempre scegliere nel presente è libertà in atto. Mi colpisce sempre il fatto che tante sette religiose promettono un potere magico sulle circostanze, come se la libertà fosse un potere che hai tu e non gli altri, che puoi avere tu in concorrenza con gli altri. Spesso anche noi siamo tentati di vivere la fede così. Invece la libertà che ci dona la fede in Cristo non è tanto un potere sulle circostanze, ma la grazia di poter vivere in esse il rapporto con Dio. Non sono tanto le circostanze che devono cambiare perché io sia felice, ma il mio cuore. E il cuore cambia se ama qualcuno, se non è solo con se stesso, cioè ripiegato su di sé, ma aperto a un dono infinito. Per questo le circostanze che ci “prendono”, come quella attuale, se le viviamo almeno con il desiderio di amare un Altro, e gli altri in Lui, anche se ci legano e incatenano, diventano cammino di libertà, di una libertà infinita, perché nulla sconfigge la finitezza più che il viverla ora tesi all’infinito. La fede in fondo ci permette di “ingannare” tutto ciò che ci lega e ci requisisce riconoscendo con amore che in tutto possiamo legarci e lasciarci guidare dal Signore. È un po’ come sulla Croce: il demonio trionfava per aver “costretto” all’impotenza totale il Figlio di Dio, ma non si è accorto che in quel Corpo inchiodato, anche oltre la morte, batteva un Cuore che amava il Padre e tutti i peccatori. La nostra libertà è totalmente libera quando ama. Solo l’amore salva la libertà, persino nella e dalla morte.
In questo periodo stiamo assistendo a dimostrazioni eroiche di impegno, soprattutto del personale medico, per salvare la vita di chi è malato. Fino a ieri ci lamentavamo di tutto, anche della sanità. Oggi assistiamo a qualcosa di inaspettato. Questo ci dimostra che nell’uomo, anche in chi non crede, c’è sempre un impeto di bontà?
Il contrario del lamento è la gratitudine, e la gratitudine nasce di fronte allo spettacolo della gratuità. Ogni cuore umano, indipendentemente dalla sua fede o non fede, è sensibile a questo spettacolo. In questa circostanza drammatica ci accorgiamo tutti che siamo normalmente troppo distratti e non vediamo le mille scintille di gratuità che ogni giorno ci permettono di vivere, mangiare, lavorare, andare a scuola, viaggiare, tutto; anche perché la patina commerciale della società e della cultura in cui viviamo ci impedisce di scorgere queste scintille, o ne stravolge la natura. Ma anche questo è frutto di una conversione del cuore, che ritorni a vedere la realtà per quello che è: che è fatta e donata gratuitamente da un Altro. A cominciare da se stessi.
Eppure, l’egoismo, l’individualismo dominano i nostri cuori più della gratuità.
Spesso non ci doniamo perché non ci riconosciamo donati, creati, voluti e amati da un Altro. Lo spettacolo di persone che sacrificano la loro vita e il loro tempo, e magari anche la loro salute, non solo per dovere, ma per una gratuità, di cui magari non sono neppure coscienti, è una scossa alla coscienza di noi stessi. È impressionante percepire in questi giorni come la gente accetta il sacrificio di tantissime cose che davamo per scontate, che consumavamo senza gratitudine, anzi, appunto, lamentandoci. Tutti questi testimoni del gratuito ci aiutano in questo, hanno un’autorevolezza che zittisce il lamento. Non dovremo dimenticarlo quando torneremo alla vita “normale”. Speriamo di non tornare alla normalità tornando al lamento…
La società in Occidente si distingue da tempo per aver dimenticato l’essenziale, viviamo nella distrazione più assoluta. Pensavamo di essere imbattibili da soli. Come possiamo noi cristiani oggi, in questo momento di grande sgomento e paura, testimoniare questo agli uomini?
Penso che noi cristiani siamo chiamati ad accogliere come tesoro questa povertà, per scoprire che in essa, come a Betlemme, come a Nazareth, come sul Calvario, Cristo vive, è con noi, e vuole essere il vero tesoro di noi e di tutti, un possesso che ci libera da quello che non dura, da tutto quello che basta un invisibile virus per fermarlo su scala mondiale. È un momento in cui dobbiamo guardare la vita dei santi e imparare da loro ad essere vuoti di noi stessi e pieni di Cristo.
Un altro aspetto del mondo in cui viviamo è la grande solitudine di tante persone. In questi giorni tanti muoiono da soli senza neanche poter vedere i loro cari per evitar loro il contagio. Che significato ha questo morire in totale solitudine?
È la morte di Gesù, presso la quale anche Maria è potuta stare solo in silenzio, impotente, eppure trasmettendo una vicinanza che solo il cuore può percepire. Maria ci insegna che la preghiera ci lega più di ogni contatto umano. Ma è innegabile che questo è un dolore, anche per lei. Chissà che desiderio aveva di poter avvicinarsi al Figlio ancora di più, di potergli stringere il capo, di baciarlo, di pulirgli il viso con le sue lacrime… No, ha dovuto stare a distanza. Solo il cuore e il dolore erano stretti a Lui. Dobbiamo pensarci in questi giorni, stare tutti più vicini a queste persone che muoiono sole e ai loro cari, che pure sono soli nello stare lontano da loro nel tempo ultimo. Mi ha colpito il volto del Papa che camminava solo e in silenzio per le strade di Roma, pregando, compatendo. Ci ha mostrato che non siamo soli e nessuno è solo, ma dobbiamo mostrarlo anche noi, fra di noi, nello sguardo che portiamo su ogni persona che incontriamo. È incredibile come in questi giorni ci si senta famigliari di tutti, perché viviamo tutti la stessa prova, lo stesso lutto, la stessa speranza.
Abbiamo letto alcune dichiarazioni anche di capi di Stato di grandi paesi che lasciano interdetti, come se il problema maggiore siano i danni economici piuttosto che la perdita di vite umane. Che ne pensa?
San Paolo direbbe: “se non ho la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (cfr. 1 Cor 13,1). Questa epidemia rivela la consistenza o inconsistenza di tante parole, di tante polemiche, di tante idee o ideologie. Per questo, in questi giorni, è come se la politica tacesse, anche perché nessuno ha più voglia di ascoltare il risuonar dei bronzi e il tintinnare dei cembali. Ora è la realtà che si prende il diritto di emergere, e ci accorgiamo che la realtà ha un livello di consistenza e di coscienza che si chiama “uomo”, “umanità”. Tutto quello che non sta di fronte a questa realtà è inconsistente, è disumano, a volte anche criminale. La realtà è come quel bambino che si è messo a gridare di fronte al monarca: “Il re è nudo”. Quanta politica si rivela nuda in questi giorni!
Ritiene che cambieremo dopo questa emergenza o tutto tornerà come prima?
Non lo so. L’umanità va avanti da millenni a dimenticarsi delle sue tragedie e del loro significato. Ma c’è sempre almeno un piccolo resto, fra noi e in ognuno di noi, che rimane ferito da una coscienza nuova, e questo mantiene nella società come un segno profetico di come possiamo vivere con più verità e bellezza; e anche chi ritorna a vivere come prima è contento di avere questa “spina nella carne” a ricordargli il senso della vita. Comunque, so che è anzitutto a me stesso che devo dire e dovrò ripetere: non dimenticare!
Che cosa rappresenta oggi, nel terzo millennio, una comunità di monaci?
La mia preghiera, e il mio desiderio di conversione, è che ogni comunità di monaci e monache, come ogni comunità cristiana, sia questo segno profetico, umile e povero, di una vita più umana per tutti. E un luogo di vera compassione, quella di Cristo per il mondo.
“Fermatevi e sappiate che io sono Dio”
Lettera del Padre Mauro Lepori – Abate Generale dell’Ordine Cistercense – per il tempo di epidemia
Carissimi,
la situazione che si è venuta a creare con la pandemia di coronavirus mi spinge a cercare un contatto con tutti voi tramite questa lettera, quale segno che stiamo vivendo questa situazione in comunione, non soltanto fra di noi, ma con la Chiesa tutta e il mondo intero. Trovandomi in Italia e a Roma, sperimento questa prova in un punto cruciale, anche se è chiaro che la maggior parte dei paesi in cui viviamo si troverà presto nella stessa situazione.
Giovare a tutti
È evidente che la prima reazione corretta che dobbiamo avere, anche come Ordine e comunità monastiche, è quella di seguire le indicazioni delle autorità civili e ecclesiastiche per contribuire con l’obbedienza e il rispetto ad una rapida risoluzione di questa epidemia. Mai come ora siamo richiamati tutti a renderci conto di quanto la responsabilità personale sia un bene per tutti. Chi accetta le regole e i comportamenti necessari per difendersi dal contagio contribuisce a limitarlo anche per gli altri. Sarebbe una regola di vita da osservare sempre, a tutti i livelli, ma nell’emergenza attuale è lampante che tutti siamo solidali nel bene e nel male.
Ma a parte l’aspetto sanitario della situazione, cosa ci chiede questo momento drammatico rispetto alla nostra vocazione? A cosa ci chiama Dio in quanto cristiani e particolarmente in quanto monaci e monache attraverso questa prova universale? Che testimonianza siamo invitati a dare? Che aiuto specifico siamo chiamati ad offrire alla società, a tutti i nostri fratelli e sorelle nel mondo?
Mi torna in mente l’espressione della Carta Caritatis su cui ho messo spesso l’accento durante lo scorso anno, in particolare nella Lettera di Natale 2019 che, fra l’altro, veniva pubblicata proprio quando in Cina iniziava il contagio di COVID-19: “Prodesse omnibus cupientes – desiderosi di giovare a tutti” (cfr. CC, cap. I). Che giovamento siamo chiamati a offrire a tutta l’umanità in questo preciso momento?
“Fermatevi e sappiate che io sono Dio”
Forse il nostro primo compito è quello di vivere questa circostanza dandole un senso. In fondo, il vero dramma che vive attualmente la società non è tanto o solo la pandemia, ma le sue conseguenze nella nostra esistenza quotidiana. Il mondo si è fermato. Le attività, l’economia, la vita politica, i viaggi, i divertimenti, lo sport si sono fermati, come per una Quaresima universale. Ma non solo questo: in Italia e ora anche in altri paesi, si è fermata anche la vita religiosa pubblica, la celebrazione pubblica dell’Eucaristia, tutti i raduni e gli incontri ecclesiali, per lo meno quelli in cui i fedeli si incontrano fisicamente. È come un grande digiuno, una grande astinenza universale.
Questo arresto imposto dal contagio e dalle autorità è presentato e vissuto come un male necessario. L’uomo contemporaneo, infatti, non sa più fermarsi. Si ferma solo se è fermato. Fermarsi liberamente è diventato quasi impossibile nella cultura occidentale odierna, peraltro globalizzata. Neppure per le vacanze ci si ferma veramente. Solo i contrattempi spiacevoli riescono a fermarci nella nostra corsa affannosa per approfittare sempre più della vita, del tempo, spesso anche delle altre persone. Ora, però, un contrattempo sgradevole come un’epidemia ci ha fermati quasi tutti. I nostri progetti e i nostri piani sono stati annullati, e non sappiamo fino a quando. Anche noi, che pur viviamo una vocazione monastica, magari di clausura, quanto ci siamo abituati a vivere come tutti, a correre come tutti, a pensare alla nostra vita sempre proiettandoci verso un futuro!
Fermarsi, invece, vuol dire ritrovare il presente, l’istante da vivere ora, la vera realtà del tempo, e quindi anche la vera realtà di noi stessi, della nostra vita. L’uomo vive solo nel presente, ma siamo sempre tentati di rimanere attaccati al passato che non c’è più o a proiettarci verso un futuro che non c’è ancora e forse non ci sarà mai.
Nel salmo 45, Dio ci invita a fermarci per riconoscere la sua presenza in mezzo a noi:
“Fermatevi! Sappiate che io sono Dio,
eccelso tra le genti, eccelso sulla terra.
Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.” (Sal 45,11-12)
Dio ci chiede di fermarci; non ce lo impone. Vuole che di fronte a Lui ci fermiamo e rimaniamo liberamente, per scelta, cioè con amore. Non ci ferma come la polizia che arresta un delinquente in fuga. Vuole che ci fermiamo come ci si ferma davanti alla persona amata, o come ci si ferma di fronte alla tenera bellezza di un neonato che dorme, o a un tramonto o a un’opera d’arte che ci riempiono di stupore e silenzio. Dio ci chiede di fermarci riconoscendo che la sua presenza per noi riempie tutto l’universo, è la cosa più importante della vita, che nulla può superare. Fermarci di fronte a Dio significa riconoscere che la sua presenza riempie l’istante e quindi soddisfa pienamente il nostro cuore, in qualsiasi circostanza e condizione ci troviamo.
Vivere la costrizione con libertà
Cosa significa questo nella situazione attuale? Che possiamo viverla con libertà, anche se costretti. La libertà non è scegliere sempre e comunque quello che si vuole. La libertà è la grazia di poter scegliere ciò che dà pienezza al nostro cuore anche quando ci è tolto tutto. Persino quando ci è tolta la libertà, la presenza di Dio ci conserva e offre la libertà suprema di poter fermarci di fronte a Lui, di riconoscerlo presente e amico. È la grande testimonianza dei martiri e di tutti i santi.
Quando Gesù ha camminato sulle acque per raggiungere i suoi discepoli in mezzo al mare in tempesta, li ha trovati che non potevano avanzare per il vento contrario: “La barca (…) era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario” (Mt 14,24). I discepoli lottano impotenti contro il vento che li contrasta nel loro progetto di raggiungere la riva. Gesù li raggiunge come solo Dio può avvicinarsi all’uomo, con una presenza libera da ogni costrizione. Nulla, nessun vento contrario e neppure nessuna legge della natura si può opporre al dono della presenza di Cristo venuto a salvare l’umanità. “Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare” (Mt 14,25).
Ma c’è un’altra tempesta che vorrebbe opporsi alla presenza amica del Signore: la nostra diffidenza e paura: «I discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura» (14,26). Spesso quello che immaginiamo con gli occhi della nostra diffidenza trasforma la realtà in “fantasma”. Allora, è come se fossimo noi stessi ad alimentare la paura che ci fa gridare. Ma Gesù è più forte anche di questa tempesta interiore. Si avvicina di più, ci fa sentire la sua voce, la sonorità pacificante della sua presenza amica: «Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”» (14,27).
«Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”» (Mt 14,33). Solo quando i discepoli riconoscono la presenza di Dio e la accolgono come tale, cioè si fermano davanti ad essa, il vento cessa di contrastarli (cfr. Mt 14,32) e “subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti” (Gv 6,21).
Può avvenire questo nella situazione di pericolo e timore che viviamo ora di fronte al dilagare del virus e alle conseguenze, certamente gravi e durature, di questa situazione su tutta la società? Riconoscere in questa circostanza una possibilità straordinaria di accogliere e adorare la presenza di Dio in mezzo a noi non vuol dire fuggire la realtà e rinunciare ai mezzi umani che si mettono in atto per difenderci dal male. Questo sarebbe un’ingiuria a chi ora, come tutto il personale sanitario, si sacrifica per il nostro bene. Sarebbe anche blasfemo pensare che Dio ci manda Lui le prove per poi mostrarci quanto è buono nel liberarcene. Dio entra nelle nostre prove, le soffre con noi e per noi fino alla morte in Croce. Ci rivela così che la nostra vita, nella prova come nella consolazione, ha un senso infinitamente più grande che la risoluzione dell’attuale pericolo. Il vero pericolo che incombe sulla vita non è la minaccia della morte, ma la possibilità di vivere senza senso, di vivere senza essere tesi ad una pienezza più grande della vita e ad una salvezza più grande della salute.
Questa pandemia, con tutti i corollari e le conseguenze che comporta, è allora per tutti un’occasione di fermarci davvero, non solo perché costretti, ma perché siamo invitati dal Signore a stare davanti a Lui, a riconoscere che Lui, proprio ora, ci viene incontro in mezzo alla tempesta delle circostanze e delle nostre angosce, proponendoci un rinnovato rapporto di amicizia con Lui, con Lui che è senz’altro capace di arrestare la pandemia come ha calmato il vento, ma che soprattutto ci rinnova il dono della sua presenza amica, che sconfigge la nostra fragilità piena di timore – “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” – e ci vuole condurre subito al destino ultimo e pieno dell’esistenza: Lui stesso che rimane e cammina con noi.
Dovremmo sempre vivere così
Questa scena del Vangelo, così come la scena del mondo turbato di oggi, non dovrebbe sembrarci tanto estranea. In realtà, la nostra vocazione di battezzati, come la nostra vocazione alla vita consacrata nella forma monastica, dovrebbe sempre aiutarci e richiamarci a vivere così. La situazione attuale richiama a noi e a tutti i cristiani un po’ quello che san Benedetto dice del tempo di Quaresima (cfr. RB 49,1-3): dovremmo sempre vivere così, con questa sensibilità al dramma della vita, con questo senso della nostra strutturale fragilità, con questa capacità di rinunciare al superfluo per salvaguardare ciò che in noi e fra di noi è più profondo e vero, con questa fede che la nostra vita non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Dovremmo pure sempre vivere con la coscienza che siamo tutti responsabili gli uni degli altri, solidali nel bene e nel male delle nostre scelte, dei nostri comportamenti anche più reconditi e apparentemente insignificanti.
La prova che viene a tormentarci deve anche renderci più sensibili alle tante prove che colpiscono gli altri, gli altri popoli, che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza. Ci ricordiamo, per esempio, che mentre da noi infierisce il coronavirus, i popoli del corno d’Africa subiscono da mesi un’invasione di locuste che minaccia la sussistenza di milioni di persone? Ci ricordiamo dei migranti sospesi in Turchia? Ci ricordiamo della ferita sempre aperta in Siria e tutto il Medio Oriente?
Un periodo di prova può rendere le persone più dure o più sensibili, più indifferenti o più compassionevoli. In fondo, tutto dipende dall’amore con cui lo viviamo, ed è soprattutto questo che Cristo viene a donarci e a destare in noi con la sua presenza. Qualsiasi prova prima o poi passa, ma se la viviamo con amore, la ferita che la prova incide nella nostra vita potrà rimanere aperta, come sul Corpo del Risorto, come una fonte sempre zampillante di compassione.
Ministri del grido che mendica salvezza
C’è però un compito che siamo chiamati ad assumere in modo specifico: l’offerta della preghiera, della supplica che mendica la salvezza. Gesù Cristo, con il battesimo, la fede, l’incontro con Lui tramite la Chiesa e il dono di una particolare vocazione a stare con Lui nella “scuola del servizio del Signore” (RB Prol. 45), ci ha chiamati a stare di fronte al Padre chiedendo tutto nel suo nome. Per questo ci dona lo Spirito che, “con gemiti inesprimibili”, “viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente” (Rm 8,26). Prima di entrare nella passione e morte, Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Io ho scelto voi (…) perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,16). Non ci ha scelti solo per pregare, ma per essere sempre esauditi dal Padre.
La nostra ricchezza è allora la povertà di non avere altro potere che quello di mendicare con fede. E questo è un carisma che non ci è dato solo per noi, ma per portare a compimento la missione del Figlio che è la salvezza del mondo: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17). Anche il bisogno di salvaguardare o recuperare la salute, che tutti sentono in questo momento, magari con angoscia, è un bisogno di salvezza, della salvezza che preservi la nostra vita dal sentirsi senza senso, sballottata dalle onde senza un destino, senza l’incontro con l’Amore che ce la dona in ogni istante per giungere a vivere eternamente con Lui.
Questa coscienza del nostro compito prioritario di preghiera per tutti deve renderci universalmente responsabili della fede che abbiamo, e della preghiera liturgica che la Chiesa ci affida. In questo momento in cui è imposto alla maggior parte dei fedeli di rinunciare all’Eucaristia comunitaria che li raduna nelle chiese, quanto dobbiamo sentirci responsabili delle Messe che possiamo continuare a celebrare nei monasteri, e della preghiera dell’Ufficio Divino che continua a riunirci in coro! Non abbiamo certo questo privilegio perché siamo migliori degli altri. Forse ci è dato appunto perché non lo siamo, e questo rende la nostra mendicanza più umile, più povera, più efficace di fronte al Padre buono di tutti. Dobbiamo essere più che mai consapevoli che nessuna delle nostre preghiere e liturgie va vissuta senza sentirci uniti a tutto il Corpo di Cristo che è la Chiesa, la comunità di tutti i battezzati tesa ad abbracciare tutta l’umanità.
La luce degli occhi della Madre
Ogni sera, in tutti i monasteri cistercensi del mondo, entriamo nella notte cantando il Salve Regina. Anche questo dobbiamo farlo pensando alle tenebre che spesso avvolgono l’umanità, riempiendola di timore di perdersi in esse. Nel Salve Regina chiediamo su tutta la “valle di lacrime” del mondo, e su tutti gli “esuli figli di Eva”, la luce dolce e consolante degli “occhi misericordiosi” della Regina e Madre di Misericordia, affinché in ogni circostanza, in ogni notte e pericolo, lo sguardo di Maria ci mostri Gesù, ci mostri che Gesù è presente, che ci conforta, che ci guarisce e ci salva.
Tutta la nostra vocazione e missione è descritta in questa preghiera.
Che Maria, “vita, dolcezza e speranza nostra”, ci doni di vivere questa vocazione con umiltà e coraggio, offrendo la nostra vita per la pace e gioia di tutta l’umanità!
Roma, 15 marzo 2020
3a Domenica di Quaresima Fr. Mauro-Giuseppe Lepori OCist
Questo virus è arrivato nella vita di ciascuno di noi come qualcosa di imprevisto imprevedibile che ci ha trovati tutti con la stessa forza di un uragano che quando passa spazza via tt.Per me è stato diverso.E quasi un anno che nella mia vita è arrivato un’altro uragano,la separazione da mio marito,altro fatto imprevisto,forse prevedibile ma tanto doloroso quanto il codiv 19 per i danni fatti nella mia vita.Ero arrivata ad un punto in cui nella grande fatica cominciavo a ritrovare un senso o meglio cominciavo a capire che quello che mi stava succedendo(che non era quello che io volevo) era per me una Grazia perché vivere questa circostanza della vita in reale comunione con Cristo può essere solo una Grazia.Dall’inizio ,(anzi no perché all’inizio ero molto arrabbiata con Lui)nelle mie preghiere chiedevo solo una cosa:”Signore io non sono in grado,fammi!”Giorno dopo giorno ho visto realmente non solo quello che Lui stava facendo con me,che non era assolutamente opera mia,ma soprattutto che Lui era con me facendo vere le parole della mia canzone preferita “….non avere paura c’è Qualcuno con te”Non l’ho mai visto e sentito così vicino nel reale,con volti e nomi,probabilmente perché cosi’mal ridotta’ ho fatto spazio ad una grande povertà di spirito e mi sono affidata completamente a Lui.Preziose sono state le parole del Gius “Cristo mendicante del cuore umano il cuore umano mendicante di Cristo”È per questo che il CODIV 19 non è entrato nella mia vita in maniera così violenta come può essere stato per altri,mi ha trovata preparata avevo trovato l’ANTIVIRALE per eccellenza.Certamente tutte le sofferenze e le fatiche in questa nuova di sono amplificate soprattutto perché mi ritrovo da sola con i miei figli,ma anche la Grazia che sto ricevendo ogni giorno è più grande e più vera ,perché mi permette di riconoscere che sto vivendo questa Quaresima in comunione con Lui , Lui che dice a me “DONNA ,PERCHÉ PIANGI?”