Doninelli – Tracce
Quando, poco più di una settimana fa, è uscita la lettera di Julián Carrón sul coronavirus l’ho letta con molto interesse, ma poi l’ho chiusa e mi sono messo a pensare ad altre cose. Ho sempre creduto di essere un tipo poco incline alla paura, ma mi sbagliavo. Ora mi appare chiaro come in quel pensare ad altro la paura fosse già in gioco.
Dopo qualche giorno ho riletto la lettera e nelle pieghe di uno stile sempre misurato, attento a comunicare un’idea in modo non equivoco, ho ritrovato intatto il dramma, l’unico vero dramma, mio e di tutti. Ecco anzitutto la citazione di Ratzinger, «solo questo Dio ci salva dalla paura del mondo e dall’ansia di fronte al vuoto della propria esistenza». Questo Dio, leggiamo. Il Dio che è entrato nella storia e mi ha raggiunto. Io so che è entrato nella storia perché mi ha raggiunto, di questo sono certo.
Ma nelle parole di Ratzinger c’è anche il vuoto dell’esistenza. E non è un particolare secondario. Chi dice di non conoscere quel vuoto o è uno sciocco o sta mentendo. Carrón parla della «nostra essenziale impotenza». Essenziale per me vuol dire senza rimedio. Non c’è nessun antidoto a quella impotenza, e in questi giorni lo si capisce bene. Anche qui, parole piene di dramma: Carrón parla di incubo, l’«incubo in cui siamo precipitati». È l’incubo della paura, certo, ma le domande di cui la paura si popola sono domande giuste: che ne sarà di noi, dei nostri figli, dei nostri cari, degli amici, delle persone che contano per la nostra vita? E poi anche: che ne sarà delle attività che abbiamo intrapreso, dei nostri buoni progetti? Perché ci sono progetti buoni, buonissimi. Aprire una scuola in uno slum di Nairobi è un progetto buonissimo. Costruire case per i favelados del Brasile è un progetto buonissimo. Queste e altre cose chiedono dedizione, intelligenza, umiltà, fatica.
Eppure questa malattia, che piano piano sta assumendo il volto di un vero flagello, sembra voler intaccare anche questo aspetto buono delle nostre vite. Perciò il cardinale Zuppi usa, senza mezzi termini, la parola «male». Oggi riflettendo pensavo che la nostra epoca è forse la prima, in tutta la storia, in cui siamo riusciti (pro tempore) a tenere la morte fuori dall’orizzonte quotidiano. Non ci si pensa. È come un insetto che vola silenzioso e discreto, poi un bel giorno pizzica anche noi e allora addio, e questo è tutto. Non sappiamo più concepirla, ci mancano le categorie. Per i miei nonni non era così. La morte era una compagnia quotidiana, sicuramente brutta ma così presente da doverci fare i conti sempre, si può dire giorno per giorno. Affrontando la paura, i nostri antenati hanno costruito la civiltà che ora stiamo distruggendo. Oggi quella paura si è riaffacciata, e io provo quello che mio nonno deve avere provato tante volte. Per me invece è una novità. Ho avuto molti dolori, questo sì, ma si trattava di episodi per così dire eccezionali, come la morte di una persona molto cara: parentesi in cui le giornate avevano un ritmo diverso, dove tutto si faceva chiaro ma alla fine la vita poteva rientrare, con un po’ di turbamento in più, nei binari di prima.
Adesso è diverso perché questa malattia non occupa nessun posto eccezionale, e si confonde con la normalità della vita: fare la spesa, salire sull’autobus, cenare con qualche amico. È una storia un po’ differente.
Poi però mi sono chiesto: ma io cosa voglio dalla vita?Voglio vincere il premio Nobel per la Letteratura? Naturalmente non mi dispiacerebbe, però non è questo che voglio. Io voglio una vita bella, una vita che sia bella fino alla fine. So che è una pretesa non da poco, e che il più delle volte ciò che faccio va nella direzione opposta, però ho conosciuto persone che hanno vissuto così, fino all’ultimo istante, quindi so che è possibile. Persone che sono andate incontro alla morte senza rinunciare a una virgola della loro umanità. Potrei fare tanti nomi e cognomi.
Voglio una vita bella, cioè: voglio, o meglio mi piacerebbe moltissimo andare in paradiso: un posto dove secondo me non si può andare da soli. Mi dispiacerebbe molto trovarmi in paradiso senza mio padre, mia madre, mia moglie, i miei figli, tutti gli amici. Vorrei perfino trovarci tutti i gatti che mia mamma ha avuto nel corso degli anni. So che è un’enormità teologica, ma forse la sostanza è giusta: la mia felicità è legata, qui e ora, a un legame che mi oltrepassa, che la teologia chiama “comunione dei santi” e che mi tocca attraverso una storia giunta fino a me, qui, in questo preciso istante.
Ma tutto questo esistenzialmente (come si diceva un tempo fra noi) cosa può significare? Torno a quanto dicevo prima, quando parlavo di questa malattia come di un male che spazza via tutti i nostri progetti. Io prego affinché passi al più presto, che la sua minaccia si allontani dalle nostre teste, ma c’è qualcosa di molto importante che devo trattenere: l’evidenza di trovarmi, forse per la prima volta nella vita, in una situazione dove ben poco dipende da me.
Questo mi pare il carattere specifico di questa prova, almeno per me. Posso lavarmi spesso le mani, non portarle alla bocca, evitare i luoghi affollati, starmene il più possibile in casa mia, rispettare le distanze di sicurezza, ma tutto questo è ben poco, perché l’efficacia di queste azioni dipende da quello che fanno tutti, e questo non si può calcolare. Auspicare sì, ma non mettere in conto.
Perché in conto, per la prima volta da che sono al mondo, non posso mettere più niente. Questa malattia mi fa paura perché in modo inequivocabile capisco che la mia vita non è nelle mie mani. Non è necessario il coronavirus per capire questo, ma è un fatto che il coronavirus l’ha reso evidente, non teorico. La teoria la sapevo già, qui è un’altra storia.
Tutto l’Antico Testamento insiste sulla differenza radicale tra gli idoli («opera delle mani dell’uomo») e il vero Dio. Eppure, nonostante ciò, com’è difficile (almeno per me) comprendere che l’autore della realtà non sono io! Lo capisco in astratto, ma nei fatti è cosa dura da capire perché è dura da accettare. Senza un atto di libertà è difficile capire veramente qualcosa!
La trama dell’esistenza è così radicalmente non-mia da generare la paura– perché questa mi pare la vera radice della paura: la scoperta che il disegno a cui la realtà obbedisce non è mio, non mi appartiene, e io non posso perciò farci niente. Mio nonno contadino lo capiva molto meglio di me.
Ce lo diciamo sempre: tutto è dato, tutto ci è stato dato. Ma io me ne accorgo quando le cose vanno male, eppure è vero anche quando vanno bene, quando i miei progetti hanno successo, quando mi sento dire “bravo”.
I doni che abbiamo ricevuto, e che sono molto più numerosi di quanto immaginiamo, dovrebbero farci tremare non meno delle calamità. Cosa ho fatto per meritare di incontrare don Giussani? Meno di niente.
So che non succede, ma forse dovrebbe succedere, perché la radice è la stessa, nel male come nel bene: che le cose ci sono date, che noi stessi ci siamo stati dati, non siamo cioè altro che un dono, un atto gratuito, a cui dire sì.
Non senza amarezza, don Carrón dice che i testimoni della vittoria della fede — ossia di Gesù Cristo — nel tempo e nello spazio sono così rari che, specie nel momento dell’angoscia, li si nota immediatamente.
Oggi è più chiaro che non sono le nostre capacità, la nostra intelligenza, le nostre analisi e in generale i nostri discorsi a fare di noi dei protagonisti, ma solo la coscienza del niente che siamo, e che potrebbe gettarci nella disperazione se un miracolo che si ripete ogni giorno non ci spingesse verso la più ragionevole delle azioni: chiedere. Non disperare, ma mendicare. Quando don Giussani definì il mendicante «protagonista della storia» non intendeva fare un paradosso: diceva una realtà fattuale, concretissima.
Nell’andamento ondeggiante delle mie giornate, tra paura e spavalderia, questo è il sole che brilla, sia pure — spesso — dietro una spessa coltre di nuvole.