Portare il fuoco

D’Avenia – Corriere della Sera

«Erano sulla strada. Lui spingeva il carrello. Negli zaini c’erano le cose essenziali. Casomai avessero dovuto abbandonare il carrello e fuggire. Scrutò la terra devastata in lontananza. La strada era deserta. “Tutto bene?” chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro». In uno dei romanzi più belli del nuovo millennio, La strada di Cormac McCarthy, sullo sfondo oscuro e freddo di un mondo colpito da una ignota catastrofe, brilla la luce della relazione di un padre e del suo bambino, che viaggiano tra mille pericoli in cerca di salvezza. Su una terra sterile e disabitata si aggirano ormai solo sparute bande di uomini disposti, per mangiare, a divorare gli altri. Padre e figlio sono il fuoco in mezzo alla fredda tenebra del mondo. Non è un caso che, nel libro, la parola usata più di frequente sia proprio «fuoco», non solo quello che i due cercano di accendere ogni sera (a rischio di tradire la loro presenza) per sopravvivere al gelo e per cucinare, ma un fuoco simbolico: «Ce la caveremo, vero, papà?», “Sì. Ce la caveremo». «E non ci succederà niente di male». «Esatto». «Perché noi portiamo il fuoco». «Sì. Perché noi portiamo il fuoco».

Venerdì scorso il Papa ha benedetto una piazza San Pietro deserta e battuta dalla pioggia, sollevando sulla città e sul mondo l’Eucarestia, presenza costante di Cristo nella faticosa storia umana, in un silenzio rotto soltanto dal contrappunto di campane e sirene. L’evento ha colpito tutti, credenti e non, per la sua potenza simbolica. Anticamente il «simbolo» era un disco di terracotta spezzato in due per identificare una persona (non esistevano ancora gli indirizzi o i documenti): un messaggio veniva recapitato a chi mostrava l’altra metà del «simbolo» (etimologicamente significa infatti: mettere insieme). I simboli, quindi, mettono insieme parti della realtà che sembrano separate: l’uomo è l’unico essere simbolico, cioè capace di dare un significato spirituale alla materialità delle cose, tanto che se emetto il suono «ti amo», accade qualcosa che va molto al di là dello spostamento d’aria. Nell’Esodo (3,14) quando Dio dice il suo nome a Mosè, la sua presenza è segnalata da un roveto che brucia senza consumarsi: un simbolo in cui terreno e divino sono uniti. In ogni cosa terrena c’è una parte divina, ma la metà divina è invisibile e si offre solo a chi sa metterla «a fuoco». Nel romanzo di McCarthy portano il fuoco solo coloro che ne sono abitati, come il padre rivela al figlio: «Devi portare il fuoco». «Non so come si fa». «Sì che lo sai». «È vero? Il fuoco, intendo». «Sì che è vero». «E dove sta? Io non lo so dove sta». «Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo». Il fuoco è nel figlio, perché il padre lo ama ed è pronto a dare la vita per lui. Senza amore perdiamo lo sguardo simbolico sulle cose, e prevale il «cannibalismo»: usiamo tutto e tutti per accrescere noi stessi. L’amore gratuito di Dio invece ci cura e protegge dall’egoismo che porta a impostare le relazioni in modo utilitaristico. Quando il fuoco abita nell’uomo, la sua vita, come il roveto, arde, illumina e riscalda senza distruggersi e distruggere. Senza questo Amore divino o gratuito è difficile mettere «a fuoco» la parte invisibile della realtà, che però è essenziale per darle un senso pieno (ad esempio per me: il volto acerbo di un alunno mostra già il frutto da far maturare; la pagina vuota diventa la dura terra che aspetta parole da far crescere). Senza questo Amore si vede tutto «sfuocato», si giudicano le cose e le persone solo dalla metà visibile, cioè inadeguate alle nostre aspettative o da usare per i nostri scopi. Quando invece si educa lo sguardo simbolico, che è quello gratuito di poeti, bambini e innamorati, si mette tutto «a fuoco», si scorge nelle imperfezioni di cose e persone un’occasione di scoperta e di cura: tutto diventa pieno di senso perché, nel dedicare impegno e attenzioni a ciò che è fragile e incompiuto, la vita cresce in e attorno a noi.

Non so se il virus sia stato creato in laboratorio e sia sfuggito al controllo ma, comunque sia, ci sta mostrando che non possiamo controllare tutto e ci sono cose e persone non a nostra disposizione. Per combatterlo metteremo in campo tutte le risorse materiali, ma senza una riscoperta di quelle spirituali, l’amore gratuito per tutti gli esseri viventi, sarà stato tutto inutile. Nel corso della storia il bambino comprende che chi porta il fuoco «non mangia la gente», non manipola e distrugge la vita, soprattutto quella fragile, ma la serve con tutto se stesso, come i medici e gli infermieri in queste ore, perché «il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno». Di questo fuoco abbiamo bisogno, oggi più che mai: ma ce ne ricorderemo anche domani?