Don Luigi Giussani
Immaginiamo di essere seduti in questa sala. Qualcuno chiama: “Anna Rigotti”. Si crea il silenzio, e si ode una voce rispondere: “Sono presente”.
Guardiamo intorno, passiamo in rassegna i volti… Dov’è? Non c’è! Per uno strano fenomeno riecheggia la sua risposta: “Sono presente”, ma Anna Rigotti non c’è. Se qualcosa del genere succedesse sarebbe ben grottesco!
“Eterno Dio immutabile, la fonte è in Te dell’essere, nella Tua pace immobile Tu segni ai tempi il volgere”, dice un Inno della liturgia. Ora, se cantassimo queste parole (Eterno Dio immutabile…) e non ci fosse niente? Se udissimo le parole ma non esistesse niente? Sarebbe grottesco come nell’immagine usata. “Eterno Dio immutabile” risuonerebbe come quel “Sono presente” di Anna Rigotti che non c’è: nient’altro che una forma di suono, un’eco di parole.
Per la maggior parte della gente Dio vige così, è così. Per la maggior parte della gente (anche per chi va in chiesa) il rapporto con Dio, col divino, vale a dire con ciò che dovrebbe essere percepito come origine e destino di tutto, è così: “sono parole”.
Dio ha sfondato questa separazione, questo vuoto tra Sé e l’esperienza dell’uomo. L’esperienza implica un complesso di fattori misurabile, determinato da tempo e spazio, che viene raccolto dai sensi che è cioè visibile con gli occhi, tangibile con le dita, udibile con le orecchie (che tu ci sia, che tu sia presente mentre parlo, è un’esperienza). Dio, il Mistero che fa tutte le cose, ha sfondato la lontananza, il vuoto che l’uomo inevitabilmente porrebbe tra il tempo e lo spazio, cioè la realtà in quanto sensibile, visibile, tangibile, udibile, e Dio.
Il problema è quello di un divino sentito come astratto, di un “quid” che non è nominabile in modo sperimentale perché con la vita non c’entra, non è cioè percepito aver a che fare con niente (eppure, che le cose non si fanno da sé è così vero, che qualsiasi uomo ha il senso di questo destino più grande di lui, per quanto soffocato o alterato nella distrazione normale). Il Mistero ha sfondato l’astrazione e la lontananza in cui sarebbe inevitabilmente tenuto dall’uomo, poiché, non essendo né visibile, né toccabile, né udibile, il pensiero non lo può afferrare come afferra il significato di un viso e l’affezione non vi si può dirigere come si dirige su un viso.
La realtà di un viso è misurabile col tempo e con lo spazio, è visibile, tangibile, udibile: l’intelligenza può perciò rendersene conto, sorprenderne la profondità, e l’affezione muoversi verso di esso. Ciò che non è sensibile (tangibile, visibile, udibile), ciò che non è sperimentabile, non può essere vero oggetto di intelligenza e di affezione: intelligenza e affezione restano astratte.
Ciò che non è esperienza nel senso detto non può essere contenuto di un pensiero e di una affezione reali, ma di un pensiero e di una affezione astratti, che non hanno valore e tenuta, che non hanno cioè nessuna incidenza sul tempo e sullo spazio, su quel che si vede, si tocca e si sente.
Dio, noi lo viviamo così! Ma Dio ha sventrato, ha sfondato la distanza in cui noi lo sentiremmo e lo terremmo.
Come Dio ha sfondato questa lontananza? Incarnandosi e uscendo dal seno di una donna come bambino. Il Mistero che fa tutte le cose è stato concepito nel seno di una donna: è nato come un bambino, è cresciuto come un bambino. Mangiava, beveva, parlava. Piuttosto presto ha incominciato a discutere e i dottori della Legge ne restavano meravigliati: Come può questo ragazzo dire e conoscere queste cose? Poi ha incominciato ad uscir di casa (immaginiamo con che apprensione sua madre seguiva ormai gli avvenimenti); parlava per le strade a tre, quattro, cinque persone oppure a gruppi di trenta o quaranta, secondo i paesi e agiva in modo tale che la gente si stupiva: Ma come fa a fare queste cose? Come fa a parlare così? Nessuno ha mai parlato come quest’uomo! Nessuno ha mai fatto cose simili!
Immaginiamo, quando Lui tornava a casa, come sua madre rimaneva impacciata: ultimamente non poteva saper bene chi era suo figlio. Di Lui sapeva solo, per le parole dell’angelo, che sarebbe stato misterioso. E tuttavia, tra quello che l’angelo le aveva detto e quell’uomo che aveva davanti non c’era per quella donna nessun distacco. Era suo figlio e non era come lei poteva immaginare. Non poteva pensarlo. Anche lei, quando lo sentiva parlare e lo vedeva agire, diceva: “Come fa a saper queste cose?” Come fa a fare queste cose. Ma non c’era differenza: non c’era un salto, un vuoto, tra quell’uomo in carne ed ossa, suo figlio, che aveva allattato, e il mistero che Lui portava con sé, il mistero che Lui era, il divino che era. Non poteva immaginarsi come facesse le cose che faceva e come dicesse le cose che diceva, ma non c’era per lei nessun distacco.In verità, essa fu la prima a capire, perché già nelle parole dell’angelo vi era l’anticipo: “Sarà chiamato Figlio dell’Altissimo”.
Dio, l’origine e il destino di tutto, ciò di cui tutte le cose, ultimamente, sono fatte (è questa la frase che nessuno capisce e da cui nessuno resta colpito, mentre è la più inconcepibile, la più tremenda e più grande, perché ristabilisce la distanza infinita e al tempo stesso afferma la concretezza di questo ultimo), Dio, per aiutare l’uomo, si è reso compagnia all’uomo, è diventato compagnia umana: è entrato nella vita stessa dell’uomo con forma umana. Questo è Gesù Cristo: Dio fatto carne, Dio fatto uomo.
Per farsi riconoscere, Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo forma umana, così che il pensiero e tutta la sua immaginatività, l’affettività e tutto il suo sognare sono stati come bloccati, calamitati.
C’era lì Uno che cacciava i demoni, che guariva i ciechi, che guardava la donna peccatrice in modo tale che essa qualche giorno dopo gli lavò i piedi piangendo che guardava cioè fino a cogliere la radice del cuore dell’uomo. Passando davanti a quell’albero, Gesù alzò lo sguardo verso chi si era arrampicato e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché voglio venire a casa tua”. Zaccheo scese in fretta e Lo accolse con gioia. E a Matteo, che era un gabelliere, uno che riscuoteva i soldi, semplicemente disse: “Vieni con me”. E lui abbandonò tutto e Lo seguì.
Questa è la cosa senza paragone più grande, senza la quale l’uomo è fatto fuori e tutto è vuoto: Dio, per aiutare l’uomo, si è reso compagnia umana. Perché se c’è quel vuoto tra tempo e spazio e Dio, tempo e spazio sono destinati a diventar vuoto.
Quell’uomo in cui Dio si è reso carne per diventare compagnia all’uomo ha detto: “lo sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo.” Solo se è presenza ora, infatti, Egli può influire su di me e cambiare la mia ora può cambiarmi e rendermi quello che Lui vuole. Solo ciò che agisce nel presente “è”.
Ciò che non agisce nel presente non è, non c’è. Perché noi non possiamo uscire dal presente: partiamo dal presente, agiamo nel presente, finiamo nel presente. Il presente è la grande caratteristica dell’essere. “Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo.” Ma se è con noi tutti i giorni, deve essere visibile, tangibile, udibile, misurabile in tempo e spazio, oggi, adesso. Altrimenti non è, c’è solo un vuoto.
Se Gesù non fosse hic et nunc, qui ed ora con una espressione che, soprattutto nei primi anni, il Papa ha amato dire tante volte ci sarebbe un vuoto sterminato.
Il Suo nome Gesù Cristo non sarebbe che una pura parola (esattamente come quella eco che dice: “Sono presente”, e non c’è nessuno). “Sarò con voi tutti i giorni”: Egli è presente. Ma dove è? Come è? Come Gesù Cristo è presente in modo sensibile, visibile, tangibile, udibile, così che il pensiero possa rendersene conto e l’affezione dirigersi, e la nostra vita essere incisa, dominata e cambiata dalla Sua presenza, avere in essa il suo punto di appoggio (origine), intravvedervi il destino, sperimentarne la costitutività?
Lo sappiamo bene, Cristo è presente tutti i giorni in quanto afferra talune persone che il Padre gli dà in mano, coloro che il Padre destina alla vita eterna e le fa parte del mistero della Sua persona (non per nulla il segno più grande e reale di questa assimilazione è il mangiare e il bere: l’agape eucaristica. Un mangiare e un bere: c’è qualcosa di più assimilabile di un boccone che si mangia e di un sorso che si beve?). Cristo è presente secondo la modalità che Lui ha creato: la compagnia delle persone che afferra e immedesima con Sé. Con queste persone immedesimate con Sé e quindi legate fra loro, Egli è presente nel mondo con una faccia.
In che modo Gesù, Dio fatto uomo, il padrone del tempo e dello spazio, afferra queste persone e le porta dentro di Sé? Come Gesù ha afferrato e portato dentro di Sé noi? È il Battesimo il gesto con cui Egli afferra l’uomo e lo porta dentro di Sé. Non c’entriamo nulla noi. È Lui che nel corso della storia, fra tanta gente, nella folla che cammina per il mondo, prende ora l’uno ora l’altro, senza domandare il permesso a nessuno!
Il Battesimo è un gesto di possesso che è realmente possesso, è un segno che contiene ciò di cui è segno. Gesù Cristo è il padrone di tutto, ma in talune persone questa signoria Egli la vuole esprimere nel mondo, nella storia, perché tutti vedano perché tutti possano vedere.
Tutti voi che siete stati battezzati vi siete immedesimati con Cristo (Gal 3,26). Immedesimati: diventati una cosa sola con l’Io di Cristo, membra Sue. Perciò, se tra milioni di persone ha scelto, per esempio, noi che siamo qui, ognuno di noi è stato assimilato a Cristo. Col Battesimo Cristo ci ha preso e ci ha portato in Sé. E se ha preso me e ha preso te, noi siamo una cosa sola, diventiamo membra l’uno dell’altro: Non sapete che siete membra l’uno dell’altro? (Ef 4,25).
Il modo con cui Cristo è presente a noi e con noi tutti i giorni è una compagnia fatta di carne e di ossa, di tempo e di spazio, misurabile, visibile, udibile, tangibile: sperimentabile. Cristo ha preso ognuno di noi col Battesimo e si è reso costantemente e attivamente presente a noi nella compagnia di tutti coloro che ha preso come noi.
A ognuno di coloro che afferra, Cristo assegna un compito. Della vita di tutti coloro che sceglie e rende parte di Sé, Egli ha un disegno, che è una collaborazione al grande disegno per cui è diventato uomo, è morto ed è risorto: il disegno della salvezza del mondo. Come fa parte di Sé l’uomo che nel Battesimo afferra, così lo fa parte del grande disegno per cui è venuto. Tua madre e tuo padre hanno avuto un certo compito. A te è stato dato un altro compito […]
Ma l’uomo, come Dio l’ha creato, è libero. E a Cristo che l’ha preso può dire: “No, non voglio!”, come un bambino capriccioso che, di fronte a un bicchiere, dica: “No, non è un bicchiere!”. Noi possiamo dire di no al fatto di essere stati afferrati, al gesto con cui Gesù ci ha presi, ci ha resi parte di Sé, membra del suo corpo, e ci ha destinati ad un compito. Non potendo far nulla da sé (“Senza di me non potete far nulla”), l’uomo può applicare la sua libertà solo come “sì” o come “no” all’iniziativa di un Altro, accettando o non accettando cioè che l’Altro faccia. Se l’uomo accetta che l’Altro “faccia”, diventa creativo come Lui, diventa una cosa sola con Lui: l’amore a Cristo diventa allora una cosa sensibile, più sensibile di ogni altro amore. È l’esperienza a cui siamo chiamati.
Dire “sì” vuol dire accettare Cristo. Ma si dice “sì” o si dice “no” a Cristo così come ci appare, come ci si stringe vicino ed entra nella nostra esistenza. Ed Egli vi entra con la compagnia in cui ci ha chiamato. Il “sì” a Cristo è un “sì” alla modalità con cui Cristo è presente a noi, perciò è un “sì” alla compagnia vocazionale (il “sì” detto a Cristo e non alla compagnia vocazionale è come dire: “Sono presente” e non esserci!).
Se diciamo di sì, se Lo accettiamo, con tutta la fatica nel tempo ogni cosa si illumina e “passiamo di luce in luce”, come dice san Paolo. Se diciamo di no, tutto cade nel niente, decade, fino all’oscurità totale e permanente come i vecchi palazzi in rovina, pieni di serpi e di rovi.
Per seguire la tua vocazione, Cristo ti aiuta accompagnandoti. Ti accompagna fisicamente con la compagnia in cui ti ha collocato. Egli diventa presente a te, a te che ha chiamato a questa vocazione in questa compagnia. Attraverso la compagnia di coloro che ha chiamato come te Cristo si stringe attorno a te: questa compagnia è proprio Cristo presente. La presenza di Cristo è la compagnia di coloro che ha chiamato come te. Questa compagnia è Cristo nella sua realtà umana, è il corpo di Cristo che ti si rende presente, tanto che Lo tocchi, Lo vedi, Lo senti.
Il suo valore è più profondo di quello che vedi (perciò ognuno, in questa compagnia, ha una dignità grandissima e non lo puoi trattare come tante volte lo tratti); ma quello che vedi è il mistero di Cristo che ti si rivela.
“Corpo” dice non tutto quello che uno è. Dice ciò che appare e si lascia vedere di quello che uno è. Ma questa apparenza è reale (non è come sentir dire: “Sono presente” e non c’è nessuno). Il corpo è reale, sperimentabile. E noi siamo parte di questo Suo corpo, che ha una profondità molto più grande di quel che si vede, ha un valore che eccede la realtà umana dei suoi componenti, ha una radice che affonda in una terra a noi ignota: la terra dell’Essere, del Mistero.
Il corpo non lascia vedere tutta la personalità, ma è l’inizio di tutto il misterioso cammino dentro la personalità. Il mistero di Cristo è come il mistero del nostro io, che si documenta nel corpo. Ciò che si vede, ciò che si sente, ciò che si tocca, il tuo comportamento, vale a dire ciò che io sperimento di te, mi rivela qualcosa di quello che sei, del mistero del tuo io: “gli occhi sono lo specchio dell’anima”.
Allo stesso modo questa compagnia in cui Cristo ti ha chiamato e con cui ti si stringe attorno ti rivela quello che Lui è per te: attraverso lo sguardo e il comportamento che Egli suscita in coloro che ti ha messo attorno nella misura in cui Lo riconoscono, Gli obbediscono e ne vivono la memoria, tu conosci di più chi è Cristo. Ci sono persone nella compagnia che ti fanno sentire la memoria di Cristo in modo dieci volte più facile che non tutte le altre: se “gli occhi sono lo specchio dell’anima”, queste persone sono l’iride dell’occhio. Attraverso questo corpo capisci il Mistero che vi abita, l’Io che vi sta dentro, che è l’origine e il destino di tutto.
Quello che non possiamo pretendere di capire è in che modo Cristo identifica il Suo corpo con queste membra che siamo noi, facendoci rimanere noi stessi e, nello stesso tempo, assumendoci come una cosa sola (eis: una persona sola, secondo l’espressione di Galati 3, 26-28) con Lui.
Percepire la presenza di una compagnia in modo tale da riconoscere in essa il mistero di Cristo presente è un culmine oltre la ragione: si chiama fede, in quanto la oltrepassa. La ragione nasce dentro il terreno della esperienza (non può che partire di qui), ma termina, seguendo il dinamismo stesso che le è proprio, sulla soglia di un “oltre”, di un “altro”, implicato dall’esperienza ma “al di là” di essa, “più grande” della capacità di immaginazione e di presa della ragione: l’infinito, il mistero. La ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. La totalità dei fattori di una realtà implica il suo rapporto con l’infinito, col mistero, da cui la sua esistenza ultimamente dipende.
Riconoscere la presenza dell’infinito in modo tale che essa si percepisca come fattore di una realtà umana è la fede. Infatti il mistero di Cristo si rivela e si rende presente a me in una compagnia. “Compagnia” è qualcosa di sperimentabile. Ma come essa sia il mistero di Cristo non lo vedo, è al di là dell’esperienza: percepire questa Presenza, riconoscere il mistero di Cristo presente in essa, si chiama fede. E se non arrivo qui non sono ragionevole, perché non tutti i fattori sono tenuti in considerazione.
Ma era soprattutto questo che qui mi premeva richiamare: Cristo si stringe attorno a te attraverso la compagnia di coloro che ha chiamato come te. Cristo ti aiuta accompagnandoti fisicamente con la compagnia in cui ti ha collocato. Perciò puoi vivere la tua vocazione ciò cui Cristo ti ha chiamato attraverso il Battesimo e la collaborazione al Suo disegno cui ti ha destinato solo se tu fai parte di questa compagnia, la accetti e la segui, imiti il meglio che essa ti esprime, vi obbedisci. Altrimenti non potrai vivere la vocazione nel suo concreto.
Come nasce questa compagnia? Come mai tu sei in questa compagnia? Il “questo” della compagnia come fa ad essere identificato? Perché tu sei in questa e non in un’altra compagnia? Come avviene tale distinzione? Attraverso un incontro che il Signore ti ha fatto compiere. Cristo ti ha preso nel Battesimo, ti ha fatto crescere, diventar grande, e ti ha fatto accadere un incontro. Vale a dire, ti ha fatto sperimentare la vicinanza di una realtà umana diversa, corrispondente, persuasiva, educativa, creativa, che ti ha in qualche modo colpito.
E allora hai detto: “Vado insieme con loro”, hai cioè accettato di sentir l’urto che ti spingeva verso quella realtà umana incontrata. L’hai accettato: nessuno infatti è stato preso con un laccio e condotto qui; anche chi più sentisse disagio, è qui perché l’ha voluto. E l’ha voluto perché è stato colpito da qualcosa, foss’anche per un soffio. Perché Cristo “lavora” anche a soffi.
“Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero” (1 Re 19,11-21). Il Signore era nel mormorio di quel vento leggero. Anche per un soffio, anche solo per un momento, tu hai avvertito come un’attrattiva, un suggerimento, hai avuto una intuizione di qualcosa di più bello, di più corrispondente, di migliore. E hai detto “si”. L’incontro poteva essere con centomila altri temperamenti o altri fascini: tu hai avuto questo. Hai incontrato una persona di questa compagnia e hai percepito il soffio nuovo di una promessa di vita, hai presentito una Presenza corrispondente all’attesa originale del cuore. Perciò questa e non un’altra è la compagnia nella quale Cristo è diventato compagno alla tua vita e si stringe a te nel cammino, ti cinge e ti sostiene […]