Il sacrificio di Isacco

Bruna Costacurta – Prof. Esegesi dell’Antico Testamento – Pontificia Università Gregoriana

La richiesta del sacrificio di Isacco è un altro episodio centrale della vita di Abramo. Testo problematico di Genesi cap. 22. Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio Isacco. E’ problematico per la dimensione di sofferenza che mette in gioco. Il padre nostro nella fede, che deve attraversare questo momento di prova, e quindi l’angoscia della morte del figlio. E’ problematico proprio a livello di interpretazione e di visione di Dio, perché certo un Dio che si mette a chiedere che gli sacrifichino un ragazzo è quantomeno problematico. Cosa vogliono fare gli autori biblici con questo racconto? Dire che Dio chiede il sacrificio di bambini? Chiaramente no! [L’intenzione invece è di] Mettersi proprio in polemica con i sacrifici dei bambini che si facevano probabilmente nei paesi circonvicini a Israele e quindi organizzare questo racconto per dire: vedete! Sembra che Dio chieda i sacrifici! Non è vero! Dio non vuole i sacrifici! Infatti alla fine Isacco non muore. Alcuni tentano questa strada per rendere accettabile questo testo, ma la rivelazione biblica è sempre molto di più che mettersi in polemica con qualche altra cosa e allora può anche darsi che con questo racconto si volesse dire che Dio non vuole il sacrificio dei ragazzi, ma questo si sa. Certamente quando si mette in gioco la rivelazione di Dio e la si mette in gioco in rapporto tra l’altro ad una figura così paradigmatica e così importante come Abramo, sicuramente lì si vuole dire qualche cosa in positivo e non semplicemente una cosa in negativo, in polemica con altri. La ricchezza, insomma, deve necessariamente essere cercata altrove, e deve essere molta di più. 

Che cosa allora è questo testo? Come tutti i testi della Genesi è un testo delle origini, dunque un testo paradigmatico, un testo che vuole proporre una figura di riferimento e un modello della fede, trattandosi di Abramo. Certamente in questo testo, in quanto appartenente alla Genesi e al ciclo di Abramo, ci viene presentato un paradigma di che cosa è il credente. L’angolatura di lettura di questo modello di fede viene proprio indicata nel primo versetto, quando il testo dice: “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!” Eccomi! E poi il comando. “Dio mise alla prova Abramo”. Questa è l’interpretazione che lo stesso testo dà di questo episodio. Però bisogna capire cosa vuol dire nella Bibbia “essere messi alla prova”. Non è certamente l’idea di un Dio che mette alla prova l’uomo, creando una situazione strana, artificiale, difficile, per vedere come l’uomo reagisceNon è la creazione artificiale di una situazione dolorosa per far passare al crogiolo l’uomo e quindi attraverso la sofferenza purificarne la fede. Dio non gioca con gli uomini, Dio non mette l’uomo in situazioni difficili per vedere che cosa succede, e non mette l’uomo in situazioni difficili neppure per farlo crescere, perché sarebbe una crescita artificiale; ci pensa la vita a far crescere gli uomini! Cosa vuol dire allora che “Dio mette alla prova”? Spesso si usa questa frase nella Bibbia. Persino il cammino dell’Esodo nel Deuteronomio è detto che è stato una prova. Vi ricordate come Dio vi ha messo alla prova, dandovi per quarant’anni la manna nel deserto. Che cosa vuol dire che “Dio mette alla prova”? Vuol semplicemente dire che il rapporto che l’uomo ha con Dio, questo è una prova per l’uomo. Il fatto che Dio esista mette l’uomo alla prova, nel senso che Dio è Dio. Non è un idolo e una creazione dell’uomo! Dio è Dio e quindi è trascendente, è alterità assoluta, è totalmente altro, è totalmente oltre. I suoi pensieri sono diversi dai nostri pensieri; le sue vie sono diverse dalle nostre vie. Allora essere in relazione con Dio, questo vuol dire essere messi alla prova; nel senso che essere in relazione con Dio ci chiede necessariamente fede, di fidarci, di uscire di noi per entrare in relazione con qualcuno che è assolutamente diverso, imprevedibile, incomprensibile. Essere in relazione con Dio ci chiede necessariamente di credere a ciò che non si vede, e questa è una gran bella prova! E’ questo essere messi alla prova. E’ la vita stessa che mette alla prova l’uomo; perché l’uomo è chiamato a gestire la vita in relazione all’invisibile all’interno di una vita il cui visibile invece sembra continuamente contraddire l’invisibile di Dio. Perché ciò che si vede nella vita è che il male trionfa e ciò che Dio rivela è che invece il male è vinto ed è il bene di Dio che trionfa. Perché il visibile della vita dice che ciò che conta e che fa contenti è il successo, il denaro, il potere, essere qualcuno e l’invisibile di Dio ci dice che la vera realizzazione di noi è nel perderci, è nel metterci al servizio e che la vera rivelazione del divino non è in ciò che è grande, ma in ciò che è piccolo, in ciò che è debole e che allora è su quello che bisogna giocarsi la vita. Perché il visibile di Dio sembra invitarci a cercare il nostro tornaconto, il nostro benessere e sembra dirci che il bene supremo è la vita nelle sue dimensioni di bellezza, di salute, di realizzazione e l’invisibile di Dio ci dice che la vita si realizza morendo, che l’unico modo per accedere alla vita è di dare la vita e che non c’è vita vera se non quando la diamo condividendola prima e poi dandola definitivamente quando il Signore ci darà il dono di poterci dare. Questo è essere messi alla prova: essere in relazione con il Dio del dono, del nostro Signore Gesù Cristo; essere in relazione con un Dio che muore e questa è la prova più grande a cui noi possiamo essere sottoposti. “Dio mise alla prova Abramo”: vuol semplicemente dire: Dio chiese ad Abramo di camminare con lui e camminare con Dio, prima o poi, mette alla prova. E in che senso allora questo camminare con Dio mette alla prova Abramo? Nel senso che camminando nella sequela del Signore, Abramo, modello di fede nel Signore, inevitabilmente e quindi come ogni credente, si ritrova ad un certo punto a doversi confrontare con il fatto che Dio sembra contraddirsi, che Dio sembra uno che prima ti dice una cosa, ti chiede una cosa, ti promette qualcosa e poi, sul più bello, sembra che si stia rimangiando tutto. Ti chiede di seguirlo, dicendo: solo seguendo me c’è la vita!

Tu ti fidi, gli vai dietro, fai anche esperienza di vita e l’esperienza che andando dietro a Dio è bello; con Dio ci si apre ad orizzonti di un altro tipo… e poi sul più bello tutto sembra smentito, c’è l’insuccesso, c’è la malattia, che invece ci blocca! Noi abbiamo lasciato tutto per andare dietro al Signore a fare la conquista delle anime e poi ci ritroviamo che nessuno ci si fila, che ci ammaliamo e non va bene, che ci mandano in un posto, dove sembra che Cristo si sia fermato alla fermata precedente… e uno dice: ma allora, ma perché Dio mi ha chiesto certe cose promettendomi delle prospettive e ora invece si sta rimangiando tutto? 

E’ l’esperienza del Dio che si contraddice ed è l’esperienza che fa Abramo. Eccola la prova! Abramo si è fidato, parte, accetta l’avventura, la prospettiva è quella della benedizione; Abramo si fida, accetta un’apparente cammino di maledizione perché si fida invece nel Dio della benedizione, fa esperienza che è vero, perché entra in una dimensione di fiducia che sembra diventare effettivamente feconda… Dio gli promette il figlio della promessa; il figlio della promessa tarda a venire; Abramo cerca di dare una spinta alla Provvidenza e quindi cerca di avere questo figlio da Agar, dal momento che Sara è sterile… nasce Ismaele… Dio gli dice: no, non ci siamo capiti! Il figlio della promessa è il figlio della promessa, è il figlio di Sara. Dunque Ismaele mandalo via! Abramo si fida, manda perfino via Ismaele, perché c’è il figlio di Sara; Abramo fa quest’esperienza che a fidarsi di Dio effettivamente poi si fa esperienza che la Parola di Dio si compie. 

Il figlio della promessa nasce… arriva perfino al momento dello svezzamento… ha superato il suo momento critico. Quando arrivano allo svezzamento i bambini poi di solito ce la fanno ad andare avanti, in una società dove la mortalità infantile era molto alta, il momento dello svezzamento a tre anni era fondamentale, voleva dire che il bambino ce l’aveva fatta! Allora a questo punto si può anche accettare che Ismaele se ne vada. Ce l’ha fatta già, il che vuol dire: ce l’ha fatta Dio; il che vuol dire che Abramo finalmente ha la prova… valeva la pena di fidarsi di Dio. E proprio nel momento in cui finalmente sembra che la fede stia pagando, ecco che Dio ti contraddice. Dopo aver fatto esperienza di quanto è bello avere un figlio, dopo averlo visto crescere, dopo aver finalmente assaporato la gioia di una benedizione che ormai è totale, perché è l’esperienza bella di un Dio che ti benedice… dopo aver fatto quest’esperienza qui, Dio chiama Abramo e gli dice: “Prendi  tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che ami, Isacco, e va nel territorio di Moria, e offrilo in olocausto sul monte che io ti indicherò”. Abramo si era già sentito dire qualcosa del genere: “Vattene dal tuo paese, esci dalla tua famiglia”, solo che lì era per tentare l’avventura! Adesso Abramo deve di nuovo partire, ma questa volta sapendo dove andare e sapendo cosa va a fare; si tratta di andare nel territorio di Moria, che la tradizione identifica con la collina del tempio di Gerusalemme; dunque di andare proprio nel cuore del paese che Dio gli aveva promesso con la prima partenza, per andare a fare ciò che dovrà distruggere tutto quello che la prima partenza aveva costruito. E tutti quegli anni di buio nella fede, in cui Abramo si è fidato vengono ora vanificati da questa nuova richiesta. Abramo deve andare lì ad eliminare quell’unico figlio che era ciò che avrebbe dovuto dare vita a quel popolo che era la promessa di Dio e che era ciò per cui Abramo era partito la prima volta. Insomma si tratta di ripartire per distruggere tutto. E allora la prova è un Dio che si contraddice, non solo nel senso che si rimangia tutto quanto e così non sai più di chi ti devi fidare, ma che in questo rimangiarselo, ti fa entrare in una dimensione di angoscia e di buio totale, perché ti sta per chiedere la morte. La morte del figlio è anche la morte del padre. La morte del figlio è la morte della carne del padre; anzi di quella carne, che ora siccome è al di fuori del cuore del padre, poteva garantire al padre una vita che andava persino oltre la sua morte. Abramo poteva adesso morire tranquillo perché così la sua vita continuava in Isacco, e adesso invece Abramo deve andare a morire distruggendo tutto ciò su cui aveva costruito la sua felicità. 

Notate la richiesta in una specie di crescendo: prendi tuo figlio… e già questo è grave! L’unico figlio, quello che ami! E’ interessante notare come il testo formula la cosa; questi che scrivevano sapevano scrivere! E in questa frase così densa di Dio coinvolgono emotivamente chi legge, perché ecco uno sta lì che dice: prendi tuo figlio. Bene, è il figlio, questa parola “figlio” viene nominata dieci volte nel racconto, quasi a dire siamo nella totalità, è questo ciò che è in gioco! Invece non si dice tante volte: “il tuo unico figlio” e le poche volte in cui viene detto lo dice Dio, non Abramo. Come dice Dio: quello è il figlio che Abramo ama. E’ una specie di girare il coltello nella piaga da parte di Dio. Non gli dice semplicemente: prendi tuo figlio! Insiste pure: guarda è il tuo unico! Dopo quello non ce n’hai un altro! Anzi, sai che ti dico: è quello che tu ami tanto! Una specie di formulazione crudelissima di questa richiesta che Dio fa ad Abramo, in modo che chi legge possa attraversare tutti gli abissi di angoscia di Abramo, così da capire bene cosa vuol dire la fede. La tradizione giudaica che capisce bene i testi, immagina che dietro a questa frase di Dio ci sia tutto un racconto e un dialogo, che cerca di spiegare questa insistenza di Dio: prendi tuo figlio, l’unico figlio, quello che ami, Isacco, e allora immagina che tra Dio e Abramo si sia svolto un dialogo di questo tipo. Dio dice ad Abramo: “Prendi tuo figlio!” e Abramo risponde: “Ma io ho due figli!” Aveva Isacco, ma aveva anche Ismaele! E allora Dio gli dice: “No! Il tuo unico figlio!” E Abramo risponde: “Tutti e due sono gli unici figli per la loro madre, perché Isacco è l’unico figlio di Sara e Ismaele è l’unico figlio di Agar. Dunque sono due gli unici figli”. “No!” Risponde Dio: “Quello che tu ami!”, “Ma, Signore, se è per questo, io li amo tutti e due!”. E allora qui Dio dice: “Isacco” e davanti a questo Abramo non può più dire niente. La tradizione giudaica vuole esplicitare la lotta di Abramo, che fa finta di non capire. Questo è tipico! Quando noi siamo davanti ad una volontà di Dio che ci appare dura. E’ interessante notare il tentativo patetico di Abramo di far finta di non capire, per non dover fare ciò che non vuole fare. E tutto si chiarisce quando viene quel nome: Isacco! E questo è formidabile, perché Isacco, in ebraico vuol dire “egli sorride, egli ride”, ed è la forma abbreviata del nome più lungo “Dio ha sorriso”. Dunque un nome che evoca la gioia; Dio che sorride e che insieme evoca i due episodi di quando una volta Sara e un’altra volta Abramo davanti all’annuncio che nascerà un figlio, ridono, e allora Dio dice: “Tuo figlio si chiamerà “ride””, per ricordare anche il riso di Abramo e di Sara. Quando poi Isacco nasce, Sara interpreta il nome di Isacco, dicendo: “Adesso quelli che sentiranno che io ho avuto un figlio, rideranno” ed è il grande riso liberatorio della gioia della nascita. Allora, questo figlio, che si chiama “riso, sorriso”, che serve a dire la gioia dei genitori che vedono questo figlio e qualche cosa gli ride dentro, davanti a questo figlio bello, questo figlio che ricorda la gioia della nascita, adesso costringe suo padre al pianto. E questo figlio che ricorda il riso incredulo di Sara e di Abramo, adesso costringe il padre ad una fede totale e senza riserve. E Abramo entra in questa fede, accetta il cammino dell’obbedienza.

Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato.

Notate come il testo è scarno, non dice che Abramo lotta o piange, non fa dire nessuna parola ad Abramo, che, in silenzio, obbedisce: questa è la fede! Ma è una fede dolorosissima e il testo riesce a dirlo senza dirlo. La sequenza dei verbi è fuori posto. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé i servi, prese Isacco, spaccò la legna e si mise in viaggio. Non funziona! No, uno non prende l’asino, lo sella, prende i servi, poi sveglia Isacco, lo fa venire e poi dice: “Aspettate! Vado a spaccare la legna!” No! Non funziona così! Prima si spacca la legna ovviamente e dopo si preparano gli asini, si chiamano gli altri e si parte! Di solito così si fa e invece chi scrive questo testo mette la legna per ultima appositamente! E’ un modo con cui, senza dire, dice la lotta terribile di Abramo. Obbedisce in silenzio, fa tutto quello che deve fare, ma non fa la cosa terribile che è preparare le cose per l’olocausto. Prepara l’asino, chiama i servi, chiama Isacco… fa tutto per partire, ma come se fosse un viaggio normale, come se la legna non servisse, sperando fino all’ultimo che Dio gli dica: “No, guarda, non serve! Ho solo voluto vedere che aria tirava, non c’è nessun olocausto”. Quello che Abramo non vuole fare, Abramo non lo fa, fa tutto il resto, sella lui gli asini, un lavoro che di solito fanno i servi, così guadagna tempo e poi chiama quelli, tenta disperatamente di rimandare il problema fino a quando è tutto pronto, tocca partire, non c’è stato nessun contrordine e allora Abramo si decide a fare ciò che non vuole fare e spacca la legna e questo è il gesto inequivocabile: Isacco quindi dovrà morire. Vedete la lotta, la fatica di obbedire. Il testo biblico non ci presenta un Abramo che obbedisce sorridendo. L’obbedienza a Dio – non facciamoci illusioni – ogni tanto noi abbiamo questa idea che i santi obbediscono sempre nella gioia, nella serenità, nella pace, e quindi anche noi se vogliamo essere santi dobbiamo sempre sorridere, così anche diamo testimonianza, perché bisogna che si veda che noi siamo sereni. Non è vero niente! La serenità che Dio ci promette non è quella del sorriso idiota di chi dice che è tutto bello, anche quando invece bisogna piangere, bisogna gridare, bisogna dire che questo fa male e bisogna anche aspettare a spaccare la legna per poter dire che non vogliamo spaccarla, poi però la spacchiamo, piangendo, ma la spacchiamo! L’obbedienza a Dio, la fede è una cosa di uomini adulti, non da ragazzini sorridenti, e questo si vede qui con Abramo. E poi si parte e, dopo tre giorni di cammino (è significativo il riferimento ai tre giorni di Gesù!) si arriva finalmente al monte terribile. E qui di nuovo abbiamo Abramo che obbedisce e che insegna cosa è la fede.

“Abramo allora disse ai suoi servi: fermatevi qui con l’asino, io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi! E prese la legna dell’olocausto, la caricò sul figlio Isacco e prese in mano il fuoco e il coltello e proseguirono tutti e due insieme”.

Vedete c’è questa strana frase di Abramo che dice: “Ritorneremo!”. Lui sa che invece tornerà da solo. I servi non lo sanno, Isacco non lo sa e allora questo “ritorneremo” è strano; con tutta probabilità il testo ci vuole dire che qui Abramo si sta preoccupando di Isacco. Qui Abramo, che è un padre, non vuole che Isacco sappia ciò che sta avvenendo, non vuole che Isacco si spaventi e soffra più del dovuto. Questo è un tentativo con cui Abramo tiene nascosta la verità di Isacco per proteggere Isacco. Abramo vuole salvare il figlio dall’angoscia e insieme però questo apre Abramo ad una realtà che misteriosamente scommette sulla vita. Abramo vuole evitare che suo figlio soffra ma, così facendo, entra in una dimensione di dono di sé, che consente ad Abramo stesso di superare in qualche modo nella fede la morte e di poter quindi dire e credere che non so come, non so in quale modo, ma misteriosamente torneremo. Il dono di sé per il figlio consente ad Abramo di entrare nella vita. Non c’è vita vera se non nel dono di sé e qui Abramo stesso accede a motivo del suo amore ad una dimensione di fede più alta e questo Abramo che sta accettando di sacrificare il figlio capisce adesso che, non sa come, ma in qualche modo Dio gli sta restituendo questo figlio.

“Ritorneremo”. E comincia allora adesso il cammino difficile della salita e durante la salita c’è il dialogo tra il padre e il figlio. E Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio! Rispose: eccomi, figlio mio! Riprese: ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? E Abramo rispose: Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”

I due stanno salendo… Abramo ha il fuoco e il coltello… Isacco ha la legna… Anche questo probabilmente è un gesto di affetto del padre che non vuole dare al figlio strumenti pericolosi come il fuoco e il coltello. Lo sta portando ad ammazzare, eppure ha paura che Isacco si possa tagliare oppure che si possa scottare! Questo è quello che fanno davvero un padre ed una madre. Il figlio che muore e che tu salvaguardi fino all’ultimo! Così in qualche modo i due ruoli si precisano in un modo molto drammatico; da una parte c’è Isacco con la legna, cioè tutto ciò che dovrà finire, che dovrà bruciare e sparire, e dall’altra parte c’è Abramo con il fuoco e il coltello. Il padre che diventa l’aguzzino; il padre che è colui che dà la vita e che diventa adesso quello che deve dare la morte. Vedete la drammaticità e in questo dramma ecco la domanda del ragazzo: qui c’è tutto, manca l’agnello! E questa volta Abramo è messo alle strette e deve rispondere! Il racconto è costruito in modo tale che chi legge venga coinvolto e chi legge quando sente Abramo che dice: “Torneremo!”, è costretto in qualche modo a prendere posizione, perché Isacco non lo sa che Abramo lo deve sacrificare, ma noi che leggiamo lo sappiamo e in qualche modo allora siamo chiamati a prendere una decisione: da che parte vogliamo stare? Dalla parte di Isacco che non sa niente e allora bisogna che lo avvisiamo, o vogliamo stare dalla parte di Abramo che sa, eppure obbedisce! Il racconto è fatto in modo tale che chi legge ora sia dentro la scena, e quando Abramo dice: “Torneremo!” ti viene la voglia di dire: No! Isacco, non andare! Chi legge il racconto bisogna che prenda una decisione: o avvisare Isacco e allora si chiude tutto e noi torniamo a casa, nel senso che Dio non ci chiede più niente; oppure metterci con Abramo e allora, a questo punto, chi legge deve sapere che si deve salire sul monte Moria.

Se accettiamo di andare con Abramo, non ci facciamo illusioni; ognuno di noi conosce i propri “Isacchi” e sappiate che prima o poi bisognerà che muoiano. I propri “Isacchi”: che vuol dire? Vuol dire ciò su cui noi abbiamo messo in gioco la nostra vita, i doni di Dio che sono diventati ciò su cui si basa la nostra esistenza e vedete quindi i nostri “Isacchi” sono quei doni di Dio, che in quanto doni di Dio sono belli, santi, grandissimi, meravigliosi, ma relativi. Sono doni di Dio, non “dio”; sono le promesse di Dio, non “dio” e noi invece li abbiamo fatti diventare “dio”, li abbiamo identificati con Dio. E noi siamo lì che diciamo: Dio mi ha promesso Isacco, allora adesso Dio deve essere quello che mi lascia Isacco, o mi lascia Isacco o non è più Dio e Isacco è diventato il nostro “dio”, il nostro assoluto! Quando noi non distinguiamo più tra i doni e il Donatore, tra le promesse e colui che fa le promesse, quando le promesse anche di Dio belle e meravigliose, quando i doni anche di Dio belli, meravigliosi, diventano assoluti per noi, quello è diventato per noi quell’Isacco, di cui bisognerà prima o poi liberarsi, perché non è più il dono di Dio, ciò che ci consente di essere in relazione con Dio, ma ha finito per sostituire Dio. 

In altre parole Isacco per noi è quello che noi creiamo ogni volta che noi chiudiamo Dio dentro i nostri schemi. Dio è colui che ci regala la terra, ci dà un figlio, colui che ci benedice, Dio è quello che mi fa andare bene il lavoro in parrocchia, mi tiene in buona salute, mi fa trovare grazia agli occhi del vescovo. Abbiamo chiuso Dio dentro i nostri schemi. Dio è diventato Isacco e Isacco è diventato “dio” e allora la nostra salvezza è che Dio ci dica: prendi tuo figlio e sacrificalo, cioè: che si rompano gli schemi e si faccia finalmente esperienza che Dio è più grande anche dei suoi doni, delle sue promesse e delle nostre chiamate. Dio è più grande di tutto!

Se si sale con Abramo ecco che ci ritroviamo con Abramo che deve rispondere ad Isacco: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!” Vedete: siamo ancora nella linea di quel “ritorneremo”, misteriosamente, a occhi chiusi, nella fede, Abramo dice: “Dio provvederà, Dio farà”, come? Non lo so! Ma Dio farà! Tutto questo avviene nella sofferenza, perché quella frase: “Dio provvederà l’agnello, figlio mio!” in ebraico è ambigua, perché “figlio mio” in ebraico, si dice come si fa sempre quando c’è l’aggettivo possessivo. In ebraico, quando ad un sostantivo si mette l’aggettivo possessivo, non si può più usare l’articolo! Dunque, quel “figlio mio” può essere “figlio mio”, ma può anche essere “il mio figlio”, perché non sappiamo se c’è l’articolo o no, dal momento che, essendoci l’aggettivo possessivo, l’articolo non c’è, ma potrebbe esserci. Questo vuol dire che questa espressione “figlio mio” può giocare nel testo come un vocativo ed è la traduzione normale: “Dio provvederà l’agnello, figlio mio!” Ma può anche funzionare come se avesse l’articolo e allora la frase è un’altra: “Dio stesso si provvederà l’agnello, il mio figlio!” E allora Abramo sta dicendo quello che sta succedendo. Quale delle due è vera come frase? Tutte e due! Abramo sta misteriosamente fidandosi e dicendo: Dio provvederà, ma sta dicendo questo nel dolore terribile della perdita e quindi sta dicendo: questo agnello, che si provvederà è mio figlio, con tutto quello che questo comporta! 

E dopo che Abramo ha nominato Dio, il vero protagonista, Abramo, non parla più, neppure Isacco; si lasci invece la parola al gesto terribile della morte. Il racconto rallenta terribilmente il ritmo e c’è questo racconto minuzioso del ragazzo legato, della legna messa sull’altare, e lui messo sopra e poi Abramo che prende il coltello, e poi che stende la mano, lentissimo! Hanno detto in un secondo che ci hanno messo tre giorni per arrivare al monte, e invece lentissimo è il racconto, perché ormai la voce è solo quella della morte, dopo che Dio è stato nominato. 

E quando la morte sembra prendere il sopravvento, ecco che Dio è più grande di ogni schema. Quando sembrava di aver capito Dio: “Dio è quello che mi dà il figlio!” Dio dice: “No! Prendi il figlio e ammazzalo”, perché io sono un altro. Quando allora uno dice: “Dio è quello a cui bisogna sacrificare Isacco?”, lo sta nuovamente rinchiudendo nello schema. Se dite che adesso abbiamo capito, che Dio è quello che chiede Isacco, usiamo un altro schema. Dio è sempre oltre! E allora Dio interviene e Isacco non muore. E Dio si manifesta definitivamente come il Dio della vita e Dio provvede veramente! Abramo vede il monte da lontano, dice Dio vedrà sul monte; e quando sta per sacrificare Isacco viene fermato e vede l’ariete che deve sostituire Isacco e allora chiama il monte: “Dio vede”. Vede il monte, Dio vedrà, vede l’ariete, il monte si chiama Dio vede! Si parte dal vedere terribile del monte che è quello del sacrificio per arrivare al vedere di Dio, che cambia persino il nome al monte. Il monte non è il monte del sacrificio, della morte: è il monte della vita, il monte dove Dio vede. Ma per riuscire a vedere che Dio vede e per riuscire a vedere l’ariete che deve sostituire la morte del figlio, bisogna che prima Abramo abbia visto, abbia accettato di vedere il monte, abbia accettato di morire. E allora, quando accetta di morire, scopre che Dio è invece il Dio della vita.

Sappiate che, secondo la tradizione giudaica, Isacco sul monte Moria è morto. Perché secondo la tradizione giudaica, quando si è arrivati sul monte Moria e Abramo ha legato Isacco; Isacco, che sapeva ciò che stava succedendo, dice: “Legami, perché ho paura di non farcela!” Allora Abramo prende il coltello e piangendo uccide Isacco. Ma le lacrime che scendono sul coltello rendono inoffensiva quell’arma. Guardate: ciò che salva la vita dei figli sono le lacrime dei genitori! E ciò che rende inoffensivo lo strumento di morte è il pianto delle vittime. Abramo e Isacco piangono. Il padre piange e salva il figlio. Isacco piange e rende inoffensiva l’arma. E’ il pianto delle vittime che salva il mondo e che trasforma il coltello in altre cose. Ebbene, il coltello diventa inoffensivo ma – dice la tradizione giudaica – Isacco muore. E allora a quel punto interviene Dio, che dice:“Abramo, Abramo!” Due volte, perché non chiama solo Abramo, ma sta richiamando Isacco in vita e Isacco risuscita dai morti. Questo ci spiega perché nella lettera agli Ebrei, quando si parla di Abramo e si parla del sacrificio di Isacco, si dice che Abramo è diventato padre nella fede e questo è stato per noi come parabola, perché lui ha creduto nella risurrezione dei morti. Si parla di questo nella lettera agli Ebrei, perché la tradizione giudaica diceva che Isacco è morto e Dio lo ha risuscitato. Quasi a voler dire fino in fondo che l’unico modo per poter scoprire il Dio della vita è di fare tutto intero il cammino della morte e dunque aprirsi al mistero pasquale e allora il testo direbbe: guardate, il Dio che si contraddice – ed è l’esperienza che noi facciamo nei momenti bui della nostra vita di fede – il Dio che si contraddice esce dalla contraddizione, facendo risorgere dai morti. La fede vera, la fine dell’apparente contraddizione di Dio è il mistero pasquale. Lì c’è vera rivelazione di Dio, lì c’è la sintesi di tutti i suoi doni. E allora quando si è scoperto questo, si può scendere dal monte e tornare soli, perché il nostro testo si conclude dicendo: e poi Abramo tornò dai suoi servi e insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea Abramo tornò dai suoi servi. Isacco non c’è! Lui ha detto: “torneremo!”, ma quando il racconto finisce Abramo torna solo, perché il sacrificio di Isacco si è consumato veramente, per la vita, perché Isacco viva, per il mistero pasquale, ma lì sul monte, qualche cosa si è davvero giocato della paternità di Abramo e Abramo è diventato veramente e definitivamente padre, perché veramente e definitivamente ha accettato di perdere il figlio. Ed è accettando questa paternità che lascia il figlio vivere, partire, diventare grande… che Abramo è diventato definitivamente padre di Isacco e di tutti i credenti ed è diventato definitivamente padre nella fede, modello per noi del cammino di fede, della vera paternità spirituale, che accetta di perdere il figlio, perché il figlio si possa veramente ritrovare e che accetta di dare davvero la vita perché il figlio possa vivere, entrando così definitivamente in quel mistero pasquale che si è consumato lì sulla collina del tempio, secondo la tradizione di Moria e che si consuma definitivamente sulla collina del Golgota, per aprirci definitivamente alla possibilità di accogliere i doni di Dio senza più appropriarcene e allora sarà per la vita e non più per la morte.