Michele Lugli
Di fronte al dibattito sul suicido assistito, che sta occupando le piazze e i giornali in questo tempo, sono rimasto improvvisamente sorpreso da una evidenza.
Prima di esporla vorrei fare alcune premesse per stabilire i confini del mio giudizio.
Innanzitutto non mi interessa giudicare chi chiede il suicidio assistito perché giudicare la sua esperienza di sofferenza dall’esterno sarebbe una presunzione.
Inoltre mi pare evidente che non possiamo costringere qualcuno a vivere perché violando la sua libertà negheremmo la vita che vogliamo difendere.
Infine mi pare riduttivo semplificare il dibattito dividendoci in favorevoli o contrari come spettatori che commentano la partita dalle tribune perché la sfida invoca un coinvolgimento personale più grande di una semplice opinione.
Qual è dunque l’evidenza che mi ha sorpreso?
Molto spesso ho ascoltato persone affermare: “se il malato vuole porre fine alla sua vita che male c’è?”. Di fronte a questa affermazione mi è sorta spontanea una domanda: per parlare in questo modo che cosa vedono?
Facciamo un esempio per illuminare il punto per me decisivo. Se io possedessi un quadro di Van Gogh di inestimabile valore e, dopo avervelo mostrato, lo buttassi nel fuoco di fronte a voi, che cosa provereste?
Sono sicuro che il sentimento dominante di fronte al mio gesto sarebbe una sorpresa negativa che si potrebbe esprimere con l’espressione popolare: “che peccato!”. Perché avreste questa reazione? Perché ho distrutto un bene che ha un grande valore.
Ecco l’evidenza! Un quadro di Van Gogh ha un valore; se lo distruggo tutti rimangono dispiaciuti e contrariati, ma se uno dice che vuole porre fine alla sua vita molti rispondono: “se lui lo vuole che male c’è?”. Non si produce nemmeno un sussulto di coscienza perché non si vede in lui un valore. Non ci si sente interpellati. Ci si lava le mani dicendo che è la sua volontà. Lo si lascia apparentemente libero, ma in realtà lo si abbandona alla sua solitudine.
Esiste uno sguardo differente! Io vedo in lui un valore! se decide di farla finita non rimango indifferente; il suo gesto mi addolora; la sua sofferenza è una invocazione silenziosa di aiuto; senza parole mi chiede che io mi prenda cura di lui.
Il problema non è quello che desidera il malato – che rispetto – ma quello che vedi tu; se vedi un valore lo difendi; te ne prendi cura; te lo prendi a cuore.
Chi apparentemente rimane neutrale rispetto alla scelta del fine vita in realtà sta esprimendo un giudizio di valore. Chi non vede in te un valore ti sta spingendo verso il suicidio.
Se non hai un valore sei solo un disturbo; perché dovrei sprecare tempo e risorse per te? Non lo dicono a parole ma con il loro sguardo.
Se un malato decide di farla finita dipende anche dallo sguardo che ha sentito su di se tutta la vita. Se ti hanno guardato sempre e solo in funzione della tua performance quando non sarai più autonomo ti sentirai inutile.
Il problema quindi per me è tutto nello sguardo che offriamo e che riceviamo. È questo sguardo che riconosce nella persona un valore irriducibile che fa la differenza.
Questo sguardo se si moltiplicasse creerebbe un clima e una civiltà diversa. Questo sguardo potrebbe continuare a produrre frutti anche se il suicidio assistito diventasse legale.
Allora cominciamo a domandarci: cosa vediamo quando guardiamo gli altri?
Vorrei dire che prima di “guardare” sono stata “Guardata” e finchè non mi sono resa conto di essere Guardata, io vivevo nel Mondo vedendo ma non Guardando, stretta nella mia superficialità e nel mio egoismo che faceva rivolgere il mio sguardo solo sulle mie difficolta, sui miei bisogni. Per Grazia ho incontrato lo Sguardo di Dio e ho avuto la Grazia di Vedermi come Lui mi vede, la prima reazione è stata sentirsi Perdonata perchè Egli mi ha fatto fare esperienza del Suo Perdono, la seconda è come potevo io non “Perdonarmi” se Lui per primo mi aveva tutto Perdonato e questo Ricevere il Perdono e Perdonarmi a mia volta mi ha guarito da tutte le mie ferite, sanando il mio cuore sofferente. Una volta che sei davanti a quello Sguardo, lo Sguardo di Dio nulla è più come prima, e il dono è proprio che nell’esperienza viva di questo Sguardo che ricevo nella Santa Eucarestia, nell’Adorazione ma anche attraverso il prossimo tu non puoi fare a meno di Guardare come Egli Guarda, di perdonare come Egli Perdona, di cercare di Amare come Egli Ama, ecco come guardo gli altri? Ora non vedo solo più Persone ma vedo Anime, Anime da Amare.
E’ verissimo che “uno sguardo fa la differenza”.
Vorrei raccontare due episodi di “sguardi”, che esulano dal suicidio assistito, ma parlano di quotidianità, dove “lo sguardo” è protagonista.
Mia madre non è la classica “mamma italiana”, per la quale i figli sono intoccabili, perfetti, e i migliori di tutti. Anzi.
Il suo sguardo su di me era sempre critico: potevo sempre fare di meglio e di più. Sicuramente lei lo faceva con intenti buoni, per farmi tirare fuori qualcosa in più, per incoraggiarmi a non accontentarmi e a migliorarmi.
Ma a me spesso faceva soffrire.. non riuscivo a capire la sua severità.
E quando arrivava un complimento da lei ero la bambina più felice del mondo e mi sentivo invincibile: avevo finalmente l’approvazione di mia madre, lo sguardo positivo su di me. E questo mi dava felicità e sicurezza.
Ho poi un altro episodio, di domenica pomeriggio in oratorio, durante la festa di Carnevale.
Ero in oratorio pronta a portare fuori i vassoi per offrire la merenda ai bambini.
Alcuni ragazzi della Parrocchia si erano seduti in oratorio, in cerca di “calore”.
Erano davanti ai vassoi e li guardavano. Al che, prima di portare fuori tutto, li guardo e faccio “ve le lascio questo vassoio di frappe?” Una ragazza mi guarda e mi fa “magari, sei la prima che ci offre qualcosa e non ci dice che non dobbiamo mangiare”, e hanno ringraziato.
Mi si è stretto il cuore per le parole di quella ragazza, perché dimostravano secondo me (al di là del cibo) un forte bisogno di essere guardati, considerati (ci siamo anche noi!), ascoltati.
E questo per me è stato un grande insegnamento: guardare di più l’altro, parlare di più con gli altri; dire una parola di più e non una in meno; superare magari la timidezza, e “lanciarmi”, perché magari chi ho davanti non aspetta altro che un cenno, una parola, una mano tesa per essere rinfrancato o rincuorato.
Grazie infinite perché questa riflessione, contrariamente a quanto mi accade se mi lascio impantanare su polemiche astratte, mi ha riportata alla verità quanto esprime don Michele. Mi ha fatto pensare alla storia di un giovane critico cinematografico, per chi volesse, riporto il link di una sua testimonianza pubblicata su YouTube: https://youtu.be/RYssgXRiMmA.