Scifoni – Senza offendere nessuno
Il praticante p. 106-107
Abbiamo ormai compiuto una singolare separazione tra fede e pratica, per cui si può essere cattolici non praticanti, innamorati non fedeli, attivisti non militanti; si può fare volontariato a distanza, aiutando una Ong con donazioni fisse mensili (e se richiedi la domiciliazione bancaria non dovrai neanche ricordarti di farlo una volta al mese, per tutta la vita sosterrai il volontariato internazionale senza neanche accorgertene), si può essere anticonsumisti comprando prodotti etici, ossia si può essere anticonsumisti che consumano (…)
Da almeno un secolo per molti di noi il credo è ormai diventato un’esperienza puramente mentale, privata, un’igiene spirituale che riguarda solo l’intimo dell’individuo, non per forza le sue azioni. Ha smesso di essere un’esperienza di popolo per ridursi a fede individuale. Non c’è obbligo di frequenza, la pratica è una componente facoltativa: se proprio ti interessa puoi aggiungerla, ma ciò comporta l’accettazione del popolo dei fedeli, con cui però poi devi avere a che fare. Te li ritrovi in casa, e qualcuno non si lava! Siamo diventati dei credenti igienici, o credenti che non hanno voglia di mischiarsi con gente abbastanza impresentabile (…)
Oppure abbiamo paura che qualcuno possa interpretare male, che possa pensare che siamo troppo cattolici e prenda le distanze. Perché si, siamo cattolici, ma non siamo mica come quei cattolici là, mica ci beviamo tutto, noi scegliamo solo quello che meglio si adatta alla nostra personalità, alla nostra cameretta, perché nella religione della nostra cameretta nessuno deve venire a dirci cosa dobbiamo o non dobbiamo fare, perché noi abbiamo un rapporto intimo con Dio, talmente intimo che il venerdì sera ci andiamo a prendere l’aperitivo in piazzetta, noi e Dio, senza quell’altra gente abbastanza impresentabile.
Il vittimista p. 16-19
In Italia ci lamentiamo tutti, in Italia siamo tutti minoranze bisognose di protezione. La maggioranza sono gli altri. In Italia siamo tutti cuccioli nel canile. I cani di razza che vivono negli appartamenti sono gli altri (…)
C’era un tempo oscuro e barbaro in cui i tiranni imponevano la propria volontà con la ferocia delle loro schiere; erano tempi difficili, ma quantomeno era facile stabilire chi fosse il più forte: era quello che menava più forte. Questa pratica continua ancora oggi e continuerà sempre in quella parte di mondo dove abbiamo scelto di combattere le nostre guerre tradizionali; in quei territori martoriati dalle bombe è forte chi mena, è debole chi piange.
Nella nostra fortunata parte di mondo si combatte un’altra guerra, che ha regole d’ingaggio opposte: è forte chi piange più forte. Vince chi spiega meglio all’opinione pubblica che il proprio avversario è cattivo. Vince chi convince. Vince chi conta più morti. E i morti diventano clave, i nostri morti gridano che abbiamo ragione noi (…)
Sul nostro pianeta duemila anni fa è successa una cosa importante. È arrivato un uomo di nome Gesù di Nazareth e tutto è cambiato. Anche la riflessione sul ruolo della vittima nella società. Prima del sacrificio di Cristo le vittime non erano considerate vittoriose, erano semplicemente i perdenti, erano la chiara conferma che il carnefice avesse vinto.
La buona notizia del Vangelo si è diffusa come un incendio in tutto il mondo, e ha cambiato il nostro modo di concepire le vittime di sopraffazioni, di sfruttamento; la comunità umana ha cominciato ad avere uno sguardo diverso nei confronti dei diseredati, dei poveri, degli afflitti, ha iniziato a prendersi cura dei più deboli perché ritenuti immagine di Dio.
Ma si è avviato anche un altro processo. Il vittimismo è il fratellastro del cristianesimo, e ne è il suo contrario, la sua parodia. Dopo la morte di quel nazareno, molti di noi, credenti e non credenti, hanno cominciato a scimmiottare la sua crocifissione, mettendo in croce se stessi, di propria volontà, a volte costruendosi una croce su misura, a propria immagine e somiglianza. Ci siamo illusi che per essere simili a Cristo non fosse necessario perdonare come lui ma solo individuare un nostro carnefice, vero o presunto, e sbattergli in faccia la nostra croce. Abbiamo cominciato a credere che stare su una croce ci garantisca di essere dalla parte dei giusti. Che stare su una croce significhi essere un po’ Dio.
Santa Teresa d’Ávila spiega cos’è la contemplazione cristiana, un’attività all’apparenza elementare che consiste in questo: osservare un’immagine di Cristo in croce e pensare solo a quello, dimenticandosi di sé. Il vittimismo è l’esatto contrario: è contemplare se stessi e dimenticare chi si ha di fronte, è immaginare di essere il crocifisso da contemplare […]
Negli ultimi due secoli il pensiero moderno ha combattuto il senso di colpa cattolico, considerandolo il maggiore responsabile della nostra infelicità. La battaglia ha dato un esito imprevisto, e oggi il senso di colpa è un grande rettile in via di estinzione. In pochi si affliggono per le proprie colpe, ma un piccolo mammifero sta prendendo il suo posto nell’ecosistema della nostra psiche: il senso d’innocenza. La colpa è degli altri. Il risultato è che continuiamo a essere infelici, e a invocare un salvatore. Ma nessuno può salvare il vittimista.