Annalisa Teggi – Tempi
«Abbiamo tagliato il cordone e mio cugino l’ha portata subito in ospedale», ha raccontato un soccorritore e dalla folla qualcuno ha lanciato una coperta. Anche questo piccolo gesto estemporaneo deve essere accuratamente annotato, dopo la recisione del legame più intimo con la madre. L’uomo è quella creatura che in una scena di distruzione apocalittica lancia una coperta. Dio lo benedica.
La voragine dell’annichilimento
Miracolo, una parola cancellata dall’età contemporanea, ma che torna nei titoli che si danno a notizie simili. Capitò a Rigopiano, sul Mottarone e nel contesto di eventi tragici in cui una parola di vita si contrappone alla voragine dell’annichilimento. Ma perché le meningi globali sono sempre, strenuamente, all’opera per mettere sul tavolo l’evidenza di una realtà piatta, senza trascendenza, senza sospetto di alternative al caos o alla casualità, e poi di fronte a certi eventi tirano fuori dal cassetto il miracolo?
Non stanno pensando a un effetto speciale ultraterreno che per una frazione di tempo ha dominato la cieca forza tellurica per preservare una creatura piccolissima. La triste e semplice verità è che nel gergo della cronaca «miracolo» è sinonimo di caso fortunato, espressione repellente se la ragione ci pensasse davvero. Si può tollerare di vivere assumendo l’ipotesi che gli accadimenti personali siano, in modo del tutto casuale, sfortunati o fortunati? Fortunata è l’aggettivo che sceglieremmo per la neonata sopravvissuta sotto le macerie?
Qualcosa che si vede
C. S. Lewis ha dato una definizione precisa di miracolo: «I miracoli ripetono con lettere più piccole la stessa storia che è scritta nel mondo a lettere troppo grandi per essere viste da noi». Il miracolo, dunque, è qualcosa che deve essere visto, è questione di sguardo, cioè di relazione con un fatto.
Non c’è solo lo stupore per una circostanza incredibile, ma c’è la nostra coscienza che da bella addormentata all’improvviso si sveglia: di fronte alla neonata nuda, esposta con il suo cordone ombelicale e salva, sentiamo che il contenuto di quell’immagine non è un’opinione o un sentimento, ma niente meno che qualcosa che finalmente siamo disposti a chiamare verità, e una verità che ci riguarda. Che sia così, che la nostra nuda e indifesa creaturalità possa essere sottratta allo schiacciamento.
Ritrovarci a riconoscere questo, contemplando un fatto, è miracolo. Ed è scritto a lettere troppo grandi nel nostro quotidiano – cioè ne è pervaso tutto il mondo dalla sistole cardiaca ai buchi neri – per metterlo a fuoco, abbiamo bisogno di schegge più piccole ed eclatanti che ci ri-mettano sull’attenti.
Il travaglio di una madre
Nella cornice di quest’ipotesi un altro miracolo c’è sotto le macerie di quel palazzo di 4 piani. C’è un altro fatto che, contemplato, ci chiede la mossa di una relazione e immedesimazione. Una madre ha travagliato in mezzo al terremoto. Forse non è un dato cronologico perfettamente esatto, ma la sostanza dell’accaduto non va lontano da ciò. Il cordone ombelicale ancora attaccato lascia intuire un parto pressoché contemporaneo alle scosse. L’accelerazione del processo di nascita accade in momenti di pericolo e non dipende dalla volontà della madre. Non è dato sapere cosa abbia vissuto la donna, in termini di terribile coscienza degli avvenimenti.
Resta l’immagine della forza mastodontica e distruttiva della natura e il travaglio di una mamma, la nascita in mezzo al cataclisma. E questo è un miracolo dalla visibilità più ostica da mettere a fuoco. Ci porta nella zona grigia prima dei riscontri evidenti, prima della speranza esplicita, prima del timbro sul biglietto vincente. Siamo in costante travaglio, con gradi di intensità maggiori o minori.
La novità dirompente
E attorno le cose cadono, si frantumano, ci schiacciano. Non esiste un pavimento stabile a cui fissare le nostre mosse, qualcuno spinge sempre e le eventualità fanno vacillare mosse e impalcature. Bene che vada lo chiamiamo sforzo, sacrificio. Spesso lo riduciamo all’onnipresente stress. È ben raro riuscire a essere consapevoli che questa fatica sia un travaglio, che il nostro essere in affanno e all’opera in un contesto perennemente sismico – ostacoli, crolli, azzeramenti, spinte, schiacciamenti – sia il preludio di una qualche nascita, anche al di là di quello che è dato a noi vedere.
Cambia tutto se, sotto il peso di forze opprimenti, riconosciamo che il nostro fiato corto e le spinte a denti stretti non sono una fatica da superare alla svelta senza fecondità alcuna. Guardare quella madre, ancor prima di sapere – e ringraziare – che sua figlia è nata e si è salvata, può sussurrare il miracolo che ci sposta dall’orizzonte dell’affaticamento in circostanze ostili all’ipotesi che la novità dirompente di una vita nuova sia già dentro la nostra prova sotto sforzo.