Il Cristo di Dali

Alfredo Tradigo – Tempi

Quella sera di venerdì 27 marzo 2020 in piazza san Pietro la pioggia rigava i colori dell’antico crocifisso di san Marcello al Corso, che nel 1600 salvò Roma dalla peste. Pioggia e lacrime. Unica presenza, in quella piazza insolitamente deserta, quella di papa Francesco che dal colonnato del Bernini lanciava la sua benedizione Urbi et Orbi al mondo prigioniero della pandemia. Oggi ci vorrebbe un’altra benedizione così sopra il mondo in guerra. Una doppia benedizione di speranza. Per questo la Chiesa, nella sua materna cura, inaugura il prossimo Anno Santo nel segno della speranza. E lo fa con la mostra “Il Cristo di Dalí a Roma”, aperta fino al 23 giugno proprio nella chiesa di san Marcello dove, accanto all’antico crocifisso miracoloso, i fedeli possono ammirare una grande, originalissima tela di Salvador Dalí dal titolo “Il Cristo crocifisso di san Giovanni della Croce” (1951). Un’immagine mozzafiato proveniente da Glasgow (Scozia) con un Cristo crocifisso bello come un Dio e che sembra volare “appeso al cielo”.

A prima vista sembrerebbe strana la scelta di un’opera di Dalí – sia pure si tratti di un Crocifisso – per parlare di speranza cristiana. Al di là delle apparenze, l’eccentrico e inquietante artista catalano, maestro del surrealismo, dopo la conversione, avvenuta a metà degli anni Quaranta, ha affrontato più volte il tema del sacro, in particolare l’iconografia della crocefissione. Alcune sue opere sono esposte in Vaticano e Dalí stesso è stato ricevuto da due papi: Pio XII nel 1949 e san Giovanni XXIII nel 1959.

Lo scandalo della Croce

La Chiesa, nel suo più che decennale dialogo con gli artisti (iniziato con Paolo VI), ha visto in Dalí e nel suo “Crocifisso di san Giovanni della Croce” un’opera originale e dal profondo significato spirituale, ispirata tra l’altro da un disegno del santo carmelitano Giovanni della Croce, direttore spirituale di Teresa d’Avila. E proprio dal convento spagnolo di Avila il prezioso disegno, che risale al 1575, è giunto a Roma per essere esposto accanto alla tela della Crocifissione di Dalì, quasi l’uno fosse il progetto dell’altro.

Salvador Dalì, Cristo di San Juan de la Cruz, 1951,
olio su tela, 205×116 cm nell’originale, Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow

Il Cristo di Dalí, risorto e glorioso, appartiene all’iconografia del Cristo triumphans dei primi secoli cristiani, quando allo “scandalo della croce” si preferiva mostrare la gloria del Risorto, vincitore sulla morte. L’altra faccia della teologia della croce, quella del dolore – il Cristo patiens caratteristico del Cinque-Seicento – è rappresentata dal Crocifisso miracoloso di san Marcello al Corso e soprattutto dal famoso Crocifisso di Matthias Grünewald (1516) che si trova a Colmar, in Alsazia, da cui Dalí stesso dichiarò di volersi staccare: «Voglio dipingere un Cristo che sia in tutti i sensi l’esatto opposto del Cristo materialista e brutalmente intimistico di Grünewald».

Il disegno reliquia di San Giovanni della Croce

Come un novello Icaro

E davvero il Crocifisso di Dalì irraggia gioia, speranza, bellezza. L’artista catalano (aveva 47 anni quando lo dipinse) supera d’un balzo ogni tradizione rovesciando la prospettiva della crocifissione, il punto di vista da cui siamo abituati a guardare Gesù in croce, dal basso verso l’alto come lo vedevano Maria e il discepolo Giovanni. Dalí ci mostra invece un inedito Cristo colto dall’alto, a volo d’uccello. È come se Dio Padre guardasse il Figlio dall’alto dei cieli, come nel disegno di san Giovanni della Croce, che un amico carmelitano francese, padre Bruno de Jésus-Marie, fece conoscere all’artista in una riproduzione.

Nella sua ricerca spirituale e visionaria di una nuova metafisica cristiana Dalí cerca Dio e la sua bellezza. Scrive: «Voglio dipingere Cristo bello come un Dio quale Egli è veramente». Alla ricerca di una nuova metafisica evoca sulla tela una luce straordinaria che disegna muscolo per muscolo il torso di un Cristo michelangiolesco, atletico, quasi hollywoodiano, che apre le braccia come un novello Icaro, pronto a spiccare il volo da una croce che diventa, con le sue larghe assi, quasi un palcoscenico, su cui si recita una sacra rappresentazione. Un faro potente illumina la scena dall’alto, una luce caldissima che è la luce teologicamente precisa di Dio Padre nelle cui braccia il Figlio risorge. È un’immagine cinematografica che ci ricorda come Dalì lavorò con i più grandi registi: Bunuel, Hitchcock, Disney. Per questo Dalí per il suo Cristo scelse come modello l’attore Russ Saunders. E a sua volta Mel Gibson, cinquant’anni dopo, prenderà spunto dal Crocifisso di san Giovanni della Croce per il finale del suo The Passion uscito nel 2004.

La luce che illumina il Figlio

Ombre e luci giocano un ruolo importante nel Cristo cosmico e metafisico di Dalí. La croce porta sulla sommità del braccio verticale un cartiglio che segna con la sua ombra trasversale il vertice della composizione. A sua volta il braccio orizzontale della croce (patibulum) è attraversato dall’ombra delle due braccia e delle mani di Gesù che risultano staccate dal legno prive di chiodi, sangue, ferite. Il corpo gravita nell’aria in un perfetto equilibrio che ricorda un tuffatore sul trampolino, prima dello slancio. Il corpo è scontornato perfettamente in un nero pieno. La luce risplende nelle tenebre primordiali. Luce del Padre che illumina il Figlio.

Dalí riesce a mettere insieme tra loro due prospettive impossibili. La visione di Cristo dall’alto e la visione frontale del lago di Tiberiade con la barca e i pescatori di Galilea che si rovescia in avanti verso di noi. In questo spazio “virtuale” il nostro sguardo si muove ed è come se planassimo con un deltaplano partendo dalla croce, attraversando strati di aria e nubi dorate, fino all’orizzonte di un azzurro zaffiro e cinerino, un cielo luminoso che si riflette nelle acque del lago di Tiberiade, dove le barche e i pescatori ricordano i miracoli di Gesù, la tempesta sedata e la pesca miracolosa.

Fino a The Passion di Gibson

Cristo risorto regna dalla croce ed è speranza che illumina il mondo. Noi, come i discepoli, laggiù in fondo, siamo pellegrini, pescatori di speranza. Lui è sceso, si è fatto uomo ed ora ascende al cielo, sospeso tra cielo e terra ma senza dimenticare la croce, segno di vittoria, trono da cui regna. Dopo le due esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945) che sono alla base della sua conversione, Dalì coglie nella Crocefissione la dimensione atomica, il nucleo dell’Atomo-Cristo, materia redenta che fa nuove tutte le cose. Il grido di Giovanni Paolo II “Cristo centro del cosmo e della storia” (1979) viene in quest’opera anticipato da Dalì di una trentina di anni, come una profezia.

Se infine l’arte cresce sull’arte, come un albero e i suoi rami, è proprio dall’ultima enigmatica scena del film The Passion di Mel Gibson che l’opera di Dalí sembra compiersi in un percorso iniziato nel Cinquecento dal disegno del mistico carmelitano esposto in san Marcello. Mel Gibson ci propone una lunghissima carrellata che sale in verticale dalla collina del Golgota fino al cielo. Qui la terra e il crocifisso quasi scompaiono laggiù in fondo ma, dall’alto, dove il regista ci ha portati, una goccia cade, la prima goccia, la prima lacrima dal cielo. Una goccia di speranza con cui Dio Padre piange sul Figlio, si commuove, ci raggiunge. Un atomo di vita nuova piovuto dal cielo. Atomo di speranza, seme nascosto nel cuore della materia. Nuova creazione. Un assist per Mel Gibson. Un colpo di genio dell’eccentrico Dalí.

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Il Cristo di Dalí a Roma
Roma – Chiesa di San Marcello al Corso
13 maggio – 23 giugno
Orario: tutti i giorni dalle 8 alle 20
Ingresso libero