Bisognosi di essere riconosciuti 2*

UNA SOCIETA’ DI PADRI SENZA DIO
Tommaso Scandroglio – La Nuova Bussola

È un dramma e non è un giallo. 66,3 milioni di visualizzazioni in 11 giorni. Si tratta di Adolescence, serie tv britannica in onda sulla piattaforma NetflixIl tredicenne Jamie Miller viene accusato di aver ucciso la coetanea Katie Leonard. Dieci minuti prima che si chiuda la prima puntata scopriamo che è vero: sì, è stato lui. Tutto qui. Oltre alla banalità del male a volte esiste anche la brevità del male che però è capace di riverberare i suoi effetti in profondità e a lungo.

Gli sceneggiatori Jack Thorne e Stephen Graham, che è anche il convincente interprete del padre di Jamie, hanno usato una vicenda iperbolica – un ragazzino che uccide una ragazzina – come lente d’ingrandimento per scrutare il mondo dell’adolescenza e il rapporto con la figura paterna.

Il cuore di questa serie è comprendere perché i ragazzi siano chiusi, violenti, incomprensibili, assenti, distanti e ribelli, insomma perché siano adolescenti. Thorne spiega al quotidiano The Guardian che Jamie «è il prodotto di genitori che non hanno visto, una scuola a cui non è importato nulla e un cervello che non l’ha fermato», oltre ai condizionamenti sociali, in specie Internet.

Partiamo dai genitori. L’idea dei creatori di Adolescence non è quella di gettare la croce addosso a questi. Il padre e la madre di Jamie sono persone equilibrate, prive di vizi, amorevoli con i figli, presenti, solide nel loro carattere. Così anche la sorella maggiore di Jamie. Quest’ultimo non ha subito abusi o traumi. Una famiglia, come si dice, normale. Ma, come ha accennato Thorne, non si sono accorti che in Jamie stava crescendo la mala pianta dell’odio, una disattenzione però non interamente a loro addebitabile: questi adolescenti sono indecifrabili come i codici che usano i ragazzi sui social per comunicare. È un’altra lingua, rivelatrice di un’altra cultura, di un altro mondo.

Adolescence è una serie sugli adolescenti e sui padri. Non sulle madri. Perché? Perché Jamie è maschio, anzi è un piccolo uomo mancato. Nelle quattro puntate – tutte girate in un vorticoso e vertiginoso unico piano sequenza – vi sono due figure paterne, entrambe positive, entrambi sui 50 anni: Eddie, il padre di Jamie, e Luke Bascombe, il detective incaricato del caso nonché padre di Adam che frequenta la stessa scuola di Jamie. Eddie e Luke sono virili, muscolosi, forti nell’aspetto e nelle scelte, decisi e risoluti. Come sono invece Jamie e Adam? Gracili (Jamie pare che abbia 10 anni), deboli (quando Jamie viene arrestato si urina nei pantaloni), esclusi dai compagni, bullizzati. Jamie, parlando con la psicologa, rivela che il padre si girava dall’altra parte quando, giocando a calcio, dava prova della propria inadeguatezza con il pallone. E inadeguatezza è la parola chiave. Jamie sa di essere la brutta copia di suo padre. Attenzione al particolare: Eddie ha conosciuto la madre di Jamie quando aveva 13 anni, la stessa età di Jamie quando ha ucciso la compagna. Jamie cerca l’approvazione del padre, il suo affetto, la sua stima e questi non delude, eppure nel confronto accesissimo e vibrante con la psicologa Jamie affranto ammette: «Sono brutto, il più brutto», pur non essendolo. Qui è la chiave di interpretazione più profonda di questa pellicola: in quel “brutto” c’è la distanza che lo separa dal modello paterno e dunque quel “brutto” certifica la mancanza di accettazione di sé, il rifiuto di sé, non tanto della propria identità, ma della percezione della stessa. Da qui l’odio, profondo, radicale, assoluto, accecante e devastante per sé e per gli altri, i compagni “riusciti” e le ragazze.

L’ammissione di non accettazione di sé stesso ci conduce all’analisi di un altro fattore che ha armato di un coltello la giovanissima mano di Jamie: il contesto sociale. Soprattutto Internet. Adam spiega al padre detective il movente dell’omicidio. Jamie è considerato dai suoi compagni un “incel”, termine che sta per “involontariamente celibe”: maschi che non hanno relazioni né romantiche né sessuali e non sono capaci di averle. Gli incel si ritrovano online e sono fautori di un’ideologia chiamata “Red Pill”. Il riferimento è alla famosa pillola rossa del film Matrix, che simboleggia il risveglio, il prendere coscienza della realtà e della propria condizione. La Red Pill degli incel insegna che vi sarebbero fattori genetici, evolutivi e ambientali che fanno sì che – come spiega sempre Adam al padre – l’80% delle donne siano attratte dal 20% degli uomini Chad, ossia uomini avvenenti, brillanti, sicuri di sé, virili, che ce l’hanno fatta (principio che si rifà in qualche modo a quello di Pareto in cui l’80% degli effetti proviene dal 20% delle cause).

Questa rappresentazione distorta della realtà porta alla misoginia e alla misandria: gli incel odiano le donne e gli uomini Chad. La mancanza di autostima di Jamie ha intercettato sul web questa comunità di incel, chiamata manosphere: siti, blog, forum, chat in cui gli incel più si commiserano più s’incattiviscono inneggiando alla violenza. Una reazione irragionevole alla cultura woke che vede il maschio come essere tossico e alla cultura femminista che ha ridotto il maschio ad un ruolo comprimario, perché debole e sentimentale.  Il cerino cade sulla benzina quando Kate prende in giro pubblicamente, su Instagram, Jamie dicendogli che è un incel. Subito dopo il ragazzo la pedina e l’accoltella per ben sette volte.

Lo sceneggiatore Thorne così commenta: «lui viene da un ambiente buono, come me; è un ragazzo intelligente, come lo ero io. La differenza fondamentale tra noi? Lui aveva Internet». L’altro sceneggiatore, Stephen Graham, si spinge a dire che la serie «parla di un problema universale più grande, che è l’alienazione». Jamie vive in un mondo virtuale, dissociato dalla realtà, alienato dalla verità delle cose, delle relazioni, degli affetti. Il mondo artefatto di Internet ha sostituito quello reale e così il ragazzo crede veramente alle teorie della Red Pill e crede veramente di essere un fallito. Un fallito che però troverà redenzione quando, nell’ultima puntata, si dichiarerà colpevole: è finalmente l’accettazione della realtà, della sua responsabilità e dunque di sé stesso. L’ammissione di colpevolezza segna il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta.

Thorne correttamente indica nella libertà uno dei motivi per cui Jamie ha ucciso. È un’affermazione contromano perché, così si predica, se un adolescente uccide la colpa in genere è della società o dei genitori. La serie invece non cerca alibi: Jamie ha voluto cercare alcuni contenuti sul web, ha voluto non opporsi a certe suggestioni, ha voluto frequentare certe amicizie (un suo amico gli fornirà il coltello), non ha voluto parlare con i genitori dei suoi problemi e infine ha pianificato e voluto la morte di Kate. Potete essere i migliori genitori sulla faccia della Terra ma esisterà sempre la variabile “libertà” che potrà compromettere ogni vostro sforzo. Adamo ed Eva avevano un Padre perfetto eppure…

Non sono tutte rose però per questa serie. La spina più acuminata è la mancanza di una soluzione a questo dramma, di una risoluzione al problema. Perfetta la diagnosi, manca la terapia. Uno studio del 2013 del Pew Research Center ci informa che i padri di una dozzina di anni fa dedicavano ai figli il triplo del tempo rispetto ai padri di sessanta anni fa. Ma qual è la qualità di questo tempo? Ossia: cosa trasmettono ai figli in tutto questo tempo? Eddie, lo abbiamo detto e lo ha confermato Jamie alla psicologa, è un padre attento e presente. Ma questa presenza da quali contenuti è caratterizzata? Probabilmente Eddie è uno dei migliori tra i peggiori. Vogliamo dire che ha dato ciò che ha potuto dare, ciò che ha ricevuto in quest’epoca di deserto e miseria culturale. Quest’uomo di 50 anni gli ha trasmesso la cultura della postmodernità, che è assolutista, ossia sganciata dalla storia (nessuna radice nel passato), sganciata dalla natura umana (nessuna legge morale), sganciata dalla trascendenza (nessun Dio). Non aveva altro da dargli e infatti la serie termina con queste ultime e amare parole del padre rivolte al peluche di Jamie: «Mi dispiace ragazzo. Avrei potuto fare meglio». Ma non sa nemmeno lui – e insieme a lui gli autori – cosa sia quel meglio, perché a lui sconosciuto. E se non lo sai, potrai essere anche il padre più amorevole e presente del mondo ma servirà a poco.

Allora la terapia, per nulla facile, è tornare a riconnettersi con la tradizione personale, familiare e culturale, con la realtà delle cose che rimanda ad una morale oggettiva e soprattutto con Dio. Perché senza Padre non si è padri.

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QUELLO CHE NON VEDIAMO NEI NOSTRI RAGAZZI
Simone Fotunato – Tempi

Stavo per disdire Netflix, poi è uscito Adolescence. È la miniserie di cui tutti parlano. Appena 4 episodi, ciascuno girato in un unico piano sequenza, con un cast di grande talento. La vicenda inizia con la polizia che irrompe in casa di una famiglia della piccola borghesia inglese e arresta senza tanti fronzoli Jamie Miller, il figlio tredicenne (impersonato da Owen Cooper, alla prima prova attoriale davanti a una telecamera, di strabiliante bravura).

Sembra un’incredibile svista: il ragazzino si piscia addosso e si dichiara innocente; il padre tutto muscoli lo difende a spada tratta; fatichiamo a parteggiare per i poliziotti; immaginiamo (anzi, speriamo!) che nel prosieguo delle puntate si scoprirà il vero colpevole. Un tubo. Il giallo è risolto in partenza: un video inchioda Jamie. Restiamo perplessi: a che servono gli altri tre episodi? A cercare di trovare risposta alla domanda che il padre, in lacrime, rivolge al figlio, abbracciandolo dopo un iniziale scatto di orrore: «Perché? Perché?».

Le verità scomode di “Adolescence”

Ma come si può dire perché un tredicenne squarti a coltellate una compagnetta di scuola? Temevo tantissimo, dopo un inizio così dirompente, che tutto venisse etichettato sotto qualche targa à-la-Netflìx: che so, uomini, etero & caucasici cattivi – donne, gay & afro buoni, o meraviglie manichee consimili, a cui siamo ormai noiosamente abituati. Invece no. Certo, si parlerà di mascolinità tossica, di manosfera, di incel. Ma il motivo per cui Adolescence è sulla bocca di tutti credo non sia riducibile a queste pur drammatiche ed influenti marcescenze della nostra quotidianità.

Adolescence, infatti, che fa di una certa rudezza (a partire dai martellanti piani sequenza) la propria cifra stilistica, ci sbatte in faccia senza mezzi termini verità scomode che non è banale sentire.

“Adolescence” e l’incomunicabilità tra adulti e ragazzini

Innanzitutto, che adulti e giovanissimi non condividono più il medesimo linguaggio. Emblematico, sotto questo punto di vista, il secondo episodio, quello più poliziesco (nel senso che ha al centro due detective e un’indagine: la ricerca dell’arma del delitto). Il pur bravo e onesto investigatore Luke Bascombe non riesce a cavare un ragno dal buco, poiché – come gli rivelerà il figlio Adam, che frequenta la stessa scuola di Jamie, e conosce e condivide, pur essendo uno sfigato, il linguaggio dei suoi coetanei – non è stato in grado di interpretare correttamente le emoji che la vittima (Katie) aveva lasciato su Instagram a Jamie.

A sua volta, Adam ignora che quelle emoji richiamino l’immaginario del film Matrix, pellicola che non appartiene alla sua generazione, in un perfetto cortocircuito semantico. Eppure, dietro quelle emoji, utilizzate in quel modo, si cela un bullismo infido, di cui Jamie è stato vittima (e da cui la reazione violenta, spropositata, delle coltellate): accuse a sfondo sessuale, come se i tredicenni potessero avere contezza di cosa sia davvero il sesso, che “conoscono” depauperato da ogni significato e ridotto alla pornografia e alla pseudo-mitologia di cui sono zeppi i loro smartphone. Dunque: adulti che non sanno interpretare la lingua dei ragazzi; ragazzi che adoperano termini (e simboli) privi di alcun significato. Incomunicabilità, da cui l’ignoranza.

“Adolescence” non divide le squadre in buoni e cattivi

Legato a questo, Adolescence funziona poiché non divide le squadre in buoni e cattivi. E in un mondo post-protestante come il nostro, che gode nel sapere quante lacrime ha versato Filippo Turetta, l’ho apprezzato moltissimo. Jamie ha compiuto un’azione mostruosa, ma è a sua volta vittima: non solo del bullismo di Katie, ma di un contesto che, a parte una carezza (in casa), un tentativo di disciplina (in classe) e uno smartphone, non ha saputo offrirgli granché. Al termine del terzo episodio (il più bello: un’azzardata, ma riuscita, lunga sequenza di dialogo tra Jamie e la psicologa), il ragazzino esplode con un: «Non ti piaccio nemmeno un po’? Che ne pensi di me, allora?», in cui, oltre a una punta di narcisismo (chi non ce l’ha?), ho colto anche un disperato bisogno di essere voluto bene (chi non ce l’ha?).

È il mistero del male, che insidia noi creature che per il male non siamo fatte; ciò è ben esemplificato dalla cameretta di Jamie, su cui si chiude il quarto episodio: ammiriamo un tenero peluche (a tredici anni ancora ci stanno i peluche sopra i letti dei ragazzini!), innocente, sotto la carta da parati che rappresenta un cielo stellato, inquietantemente strappata nel mezzo. Un dettaglio forse non casuale: c’è uno strappo nella storia del mondo, un male che serpeggia, che nessuna politica e nessuna teoria pedagogica basteranno a emendare. Occorrerebbe altro, che l’uomo non può darsi. Sono contento che gli autori di Adolescence non abbiano avuto la superbia di offrirci una ricetta per cui i tredicenni non prenderanno più a pugnalate le compagne. Si sono limitati a metterci davanti l’uomo: e non è poco.

Anche mio figlio potrebbe farlo? Sì

Venendo a concludere, l’ultimo aspetto degno di nota, che è poi quello per cui tutti i genitori del mondo stanno parlando di Adolescence, è che la miniserie ci palesa un dato di fatto: i genitori ignorano cosa i figli pensino e facciano. È sempre stato così; solo che, da quando c’è lo smartphone, i figli spesso sono educati altrove, in community virtuali che li coinvolgono ben più della scuola, che sembra aver sempre meno presa, e delle famiglie, che spesso non hanno grandi proposte di senso da condividere coi più giovani.

L’incontro col lupo cattivo non avviene più a chi si perde nella selva oscura lontano dal villaggio: la foresta s’è mangiata tutto, anzi, ce la portiamo pure in tasca. «Anche mio figlio potrebbe fare quello che ha fatto Jamie?», è l’inevitabile domanda che ci viene vedendo Adolescence. Risposta: sì, certo. Mica ogni assassino sembrava, ogni volta, “una bravissima persona”?

Nessuna ricetta, ma una possibilità

E allora? Allora una soluzione facile non c’è. C’è però almeno una possibilità: guardare l’umano, per quel mistero (quel guazzabuglio, diceva Manzoni) che è il suo cuore insidiato dalle ombre. «Sai, ho ancora davanti agli occhi quel bambino imbranato», dice il padre di Jamie alla moglie, seduti sul letto, nell’ultimo (struggente) episodio. È quel che provo a dire a me stesso quando un alunno diventa insopportabile, o mia figlia mi fa perdere la pazienza: c’è un bambino, lì sotto, e quel bambino è sempre un bene, occorre lottare per esso. E subito dopo, quando il padre, stupito per quanto sia in gamba la figlia maggiore, chiede alla moglie: «Come abbiamo fatto una figlia così?», la consorte gli dà una risposta che vale la visione di Adolescence: «Così come abbiamo fatto Jamie».

È solo a quel punto che il padre trova il coraggio di riaprire la porta della cameretta di Jamie, rimasta chiusa dal giorno in cui la polizia lo ha trascinato via. La serie si chiude su parole che certo non bastano, ma che sono un buon inizio e che tutti i genitori farebbero meglio a ripetersi la sera prima di andare a letto (anche coloro che, come il padre di Adolescence, sono convinti di aver fatto di tutto per preservare i figli dal Male): «Mi dispiace ragazzo, avrei dovuto fare di meglio». Stavo per disdire Netflix. Tocca aspettare ancora un attimo.

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L’IO NON PUO’ RISOLVERSI DA SE
Lorenzo Bassani – Tracce

La miniserie Adolescence è bella e spietata. Non offre le scappatoie a cui siamo abituati. Pochissima musica, inquadrature con quasi nessun campo, solo piani. Quattro sequenze di quasi un’ora ciascuna: la si guarda tutta d’un fiato, il nodo alla gola non ti lascia mai.

La serie racconta di un delitto figlio dell’impulsività, del vuoto identitario, del prevalere del bisogno sul desiderio, di un “sé” non definito e che non incontra nulla di altro. Lo spettatore è condotto nella ricerca della comprensione del motivo dell’omicidio attraverso tre luoghi.

Il primo sono i “social”, luogo di solitudine e violenza, di violenza perché di solitudine. La menzogna di questo luogo inizia dal nome. I “social” non hanno nulla di sociale, sono pieni di odio, di voyeurismo, di abbandono, di anestesia del pensiero. Sono costruiti per essere esattamente questo. Gli adulti di Adolescence si muovono come analfabeti in una grammatica ignota: non comprendono le dinamiche, ne sono spaventati.

Il secondo luogo è l’istituzione: la comunità scolastica dal quale l’assassino proviene e quella psichiatrica dove viene incarcerato. Anche qui il nome nasconde una menzogna: sono “comunità”, ma ciò che mettono in comune è la solitudine.

Entrambe le comunità pongono limiti. Sono forti nel caso dell’istituzione psichiatrica, che ha il potere di togliere tutto, e deboli nel caso della comunità scolastica, che vorrebbe togliere qualcosa – ad esempio gli smartphone – ma non ne ha la forza.

Il limite dovrebbe essere tale per creare uno spazio, necessario per accogliere qualcosa che entra. Eppure in Adolescence nulla viene proposto. Limitare per fare spazio non basta, se questo non diventa luogo di proposta autentica.

Nella scuola le parole degli adulti sono ripetitive e formali. Gli adulti non hanno nulla da dire, sono atterriti di fronte ai ragazzi, non hanno nulla da raccontare. Si trovano a concludere che «questi ragazzi sono impossibili… sembra un recinto per il bestiame».

Quando la migliore amica della ragazzina uccisa chiede aiuto, la risposta della professoressa è: «Faremo in modo di farti parlare con qualcuno». La sua migliore amica è morta, lei si apre con un adulto, e questo è tutto ciò che ha da proporre?

Il sottinteso di «parlare con qualcuno» è evidente: con uno psicologo. E così la scena si sposta nella comunità psichiatrica, dove è detenuto l’assassino. Al culmine della valutazione della psicologa – presentata come affettuosa e intelligente – per cercare di comprendere il gesto di Jamie, il ragazzo accusato di omicidio, questa chiude bruscamente la relazione comunicando che il suo lavoro è finito e che non tornerà. Lui grida: «Ma io ti piaccio?», e l’adulto non risponde. Potrebbe dire  «sì!» oppure  «no!», ma sceglie di non rispondere, abbandonandolo all’angoscia.

A quale angoscia? All’angoscia di non incontrare nessuno. Che vita incontrano le vite dei nostri ragazzi? La vita è costituita dagli incontri. Mostrare bellezza, evocare la curiosità di ciò che è altro, attrarre, è possibile solo se siamo contenti della nostra vita. Solo allora possiamo guardare con simpatia ogni cosa.

Dove è presente questo adulto che nei primi due luoghi è assente o non risponde? Si direbbe nel terzo luogo, la famiglia. I genitori e la sorella del ragazzo sono affettuosi, presenti, e fragili. È una famiglia isolata, che non dona i propri figli al mondo e non dona il mondo ai propri figli.

«Lo abbiamo fatto noi», dicono i genitori nell’ultima puntata, costretti dall’inevitabilità del crimine ad ammettere che hanno fatto  «troppo poco». Lo ribadisce la sorella:  «Jamie è nostro». I figli non sono solo nostri, non li abbiamo fatti soltanto noi. Ancora una volta la menzogna è alla radice del fraintendimento: la “famiglia” non diventa “casa”.

Da dove ripartire? Adolescence non risponde. Non c’è un luogo diverso nel quale imbattersi, non c’è diversità umana che renda “casa” ogni luogo che noi e i nostri ragazzi viviamo.

Il problema del nostro io non si risolve con il riferimento a sé. È la spinta verso ciò che è altro a decidere chi sono io. Il compito dell’adulto è offrire un’ipotesi di lavoro che faccia iniziare un cammino. Che ci siano persone che possano accompagnare questo cammino. Il vuoto identitario richiede una comunicazione di senso, di una prospettiva. Un dono di sé, la prossimità di un rapporto autentico.