Al massimo muoio!

Costanza Miriano

Quando i nostri figli erano piccoli, uno di loro – non posso rivelare né identità né sesso, pena la radiazione dall’albo nazionale madri, perciò userò il maschile perché la lingua italiana funziona così, mi dispiace per le sindache, le ministre, le assessore – era particolarmente pauroso. Si spaventava tantissimo per ogni cosa che non poteva controllare, a volte vomitava dalla tensione o si rifiutava di fare alcune cose. Adesso è passata (pure troppo), ma mi ricordo il tempo speso a cercare di ragionare con quel figlio. L’esercizio era: proviamo a vedere che succede se si avverano le tue più fosche previsioni. Vai in quel gruppetto e nessuno vuole giocare con te. Allora? Allora troverai altri bambini. E se neanche gli altri? Ne troveremo altri ancora. Oppure: ma se ti lanci che può succedere di grave? Ti rompi un braccio, e allora? Lo ingesseremo, e allora?

Una volta, sinceramente non ricordo quale pericolosissima prova stessimo affrontando (la bici senza ruotine? un giro sul pony?) ci siamo spinti un po’ avanti con il gioco degli “e allora?”, e il figlio in questione ha concluso serafico: “Va be’, tutt’al più muoio. Tanto c’è la vita eterna”.

Credo sia stato l’apice del successo della mia carriera educativa (poi rapidamente precipitata).

Ecco, mi pare che in tempi di virus persone con questa certezza ce ne siano poche in giro. Si è diffuso in giro un terrore così esasperato che è spiegabile solo con il fatto che la morte non è proprio contemplata come possibilità. È la grande rimossa, va tenuta a distanza il più possibile, neppure i vecchi vogliono prepararsi a morire meglio possibile. La vita eterna, poi, è una favoletta a cui crediamo solo noi cattolici tradizionalisti.

Tutto il modo contemporaneo di vivere, pensare, consumare, si regge solo se si è certi che tutta la vita si gioca qui. Tutto il terrore smisurato – letteralmente, cioè oggettivamente non commisurato alle reali dimensioni numeriche del problema – rispetto al virus, tutta l’ossessione per la cura della salute secondo me è spiegabile perché l’ipotesi di morire appare inammissibile. La morte è il grande nemico, l’ultimo, e questo è così da sempre, in tutte le culture, ma adesso che la dimensione trascendentale è generalmente stata cancellata, il solo pensiero della morte non fa più solo paura come è naturale che sia, è proprio intollerabile, non si può pensare.

È ovvio che non sto dicendo che non si debbano fare cose ragionevoli per tutelare la salute propria e degli altri, bisogna essere responsabili perché la vita è un dono di Dio: mio figlio, quello che diceva “tutt’al più muoio”, non lo mandavo a caccia di cinghiali a tre anni, né a sfrecciare in bici senza casco nel buio nel traffico. Allo stesso modo, con la stessa prudenza, essendo ignorante di medicina, io rispetto le regole imposte, pur avendo molti dubbi rispetto ad alcune di esse. Rispetto tutto, ma con sereno scetticismo, nello spirito di dare a Cesare quel che è di Cesare, ma con la ferma, granitica certezza che la durata della mia vita la decide Dio, in pandemia e in ogni altro tempo:  magari è già partito l’embolo che mi ucciderà stasera, o l’infarto di domani, per non parlare dei tumori e dei vasi che volano dalle finestre.

Anche io, se pensassi che la mia vita si gioca tutta sul piano biologico, avrei una paura tremenda, ma quello che Cristo annuncia al mondo è che Lui ha vinto la morte […]

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