Marina Corradi – Avvenire
Tre giorni a Natale. Sono le ore in cui ogni anno una frenesia prende molti di noi, anche se non vorremmo. È la spesa da portare a casa per le cene di famiglia, sono gli ultimi regali, è il traffico delle città che incalza, aggressivo, caotico. Sono i supermercati traboccanti di cibo, tanto che ti chiedi come faremo, a mangiare tutta questa roba, che quasi, con la sua eccessiva abbondanza, può opprimere. (Che senso ha, ti domandi? Ai tempi della fame era bello che la tavola del Natale facesse dimenticare gli stenti quotidiani. Ma ora, nelle spesso sazie case del Primo mondo?) Ovunque echi di Jingle bells, Babbi Natale, e luci, a illuminare le lunghe notti del solstizio d’inverno. Ovunque segni di festa. Ma se la sera, all’ora dell’uscita dagli uffici, guardi sul metrò le facce dei passeggeri, le vedi stanche, affannate e non liete come vorrebbe questa vigilia. Come se sapessero tutto, a memoria, di questo tempo che ogni anno torna uguale, e si adeguassero per rispetto della tradizione, dei nonni – per fare felici i bambini. Come se rispondessero “auguri!”, perché così fanno tutti; ma, se glielo si domandasse, esiterebbero a dirne la ragione. Auguri, sì, ma auguri di cosa?
A camminare nelle nostre città in questi giorni viene da pensare che questo nostro Natale gonfio, pieno di cose, fastoso, abbia da tempo perso il suo baricentro, in una corale smemoratezza. O forse, quasi in una vergogna: perché dire ad alta voce che quel bambino in una grotta, due millenni fa, è il cuore e il centro del mondo, sembra una fiaba. E gli adulti non possono ammettere, di credere alle fiabe.
Ma fermiamoci a pensare: a chi ci è caro, ai genitori che abbiamo perduto, a chi ci ha lasciato da poco, e il cui ricordo, in certe case, rende strazianti questi giorni di festa. Pensiamo ai nostri figli bambini, o giovani, in quell’età in cui tutto ancora è promessa. È tollerabile l’idea che con la morte tutto, di chi abbiamo amato, finisca? Non so quale giovane madre o padre, chino su una culla in un primo Natale, sopporterebbe questo pensiero: se davvero ci si soffermasse senza scacciarlo, come il più maligno degli incubi. Eppure ogni giorno questo mondo ci insegna che siamo solo materia, chimica, trama di geni, che siamo semplicemente splendide macchine, però ordinate a morire. È il destino cui in un grande film di Ridley Scott, “Blade Runner”, un replicante, cioè un clone dotato di una vita a termine, si ribella ferocemente: uccidendo quel padre che gli ha dato la vita, ma non può risparmiargli la morte. Mi è sempre parso così dolorosamente umano, il replicante ribelle di “Blade Runner”; più umano di tanti di noi, che censurano in sé la domanda di non morire per sempre, o se ne dimenticano.
Ma chi ci ha promesso una vita eterna, chi ha detto al ladro crocifisso al suo fianco ‘oggi sarai con me in Paradiso’, chi è tornato dalla morte e ha offerto il petto alle dita incredule dell’apostolo Tommaso? La più grande, la più indicibile delle nostre domande si regge su Gesù Cristo. Senza quel bambino che venne al mondo a Betlemme non avremmo ragione di sperare di rivedere un giorno il viso di nostro padre, gli occhi di nostra madre, e i figli, ciò che abbiamo di più caro. Senza Cristo, nasceremmo solo per morire. Questi bambini così vivi, così belli, di cui ci innamoriamo, anche loro un giorno inceneriti nel nulla – povera materia che torna al suo muto destino.
Insopportabile pensiero. Non certo, parrebbe, un pensiero natalizio. Ma il cuore del Natale, ciò che spingeva con vigore in cielo la stella dei Magi, è il principio della più grande rivoluzione, portato fra noi da quel bambino. La gioia del Natale è questa: che lui è nato. E che in lui la morte non sarà per sempre. Non la nostra, né quella di chi amiamo. Né quella ignota, miserabile, di milioni di poveri, profughi, senzatetto, perseguitati. L’evento del Natale non è una dolce fiaba: è un colpo di maglio alla morte, una linea secante che irrompe come una lama nell’universo e nel tempo, e li trasforma. Senza Cristo, senza quel bambino, nasceremmo solo per morire, noi e i nostri figli. E invece è nato, è venuto, come i profeti nei secoli avevano annunciato. Questa è la gioia vera, a Natale. Auguriamoci di ricordarla, di dirle a chi non sa, di tramandarla. Altrimenti, ‘auguri’: ma, auguri di che?