Alessandro D’Avenia – Corriere della Sera
«Quando una festa si avvicina, gli uomini si preparano per celebrarla, ognuno a modo suo. Ce ne sono molti e anche Benedikt aveva il proprio, che consisteva in questo: se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio». Così comincia il bellissimo romanzo breve dello scrittore islandese Gunnar Gunnarsson: Il pastore d’Islanda, edito da Iperborea, che andrebbe riletto ogni anno in questo periodo. «Avvento» ha la stessa radice di avventura. Adventus infatti (da advenio, da cui il nostro avvenire) era l’incontro/scontro con qualcosa di straordinario che un uomo medievale, a seguito delle sue avventure nella selva (della vita), finalmente raggiungeva per diventare cavaliere: un evento tale da far morire il vecchio io e farne nascere uno nuovo, così come accade nei momenti chiave della nostra esistenza. E nel caso di Benedikt, un povero contadino islandese, con un cane di nome Leó e con il suo montone Roccia, di che cosa si tratta? In un periodo dell’anno freddissimo, a cavallo tra novembre e dicembre, Benedikt si avventura tra le montagne per trovare le pecore smarrite durante i raduni autunnali delle greggi, prima che il gelo le inghiotta: «Dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi». Perché?
Responsabile viene da rispondere. Chi risponde? Solo chi riceve un appello. Quella di Benedikt non è infatti una gita o un diversivo, ma un avvento. Lui, contadino, affronta l’avventura in cui mette a repentaglio la sua stessa vita per un motivo semplice e decisivo per la trama di ogni esistenza, rispondere alla domanda: per cosa vale la pena vivere? Per quale «avvento» sono in gioco? Che cosa aspetto? Il desiderio, fuoco della vita, è ancora acceso? Infatti ogni «avvento» mira a un «natale». Nella cultura cristiana è Dio che si fa trovare, tra le montagne, come un bambino qualunque e bisognoso di tutto, così che i primi a diventare protagonisti dell’avventura/avvento sono i meno protagonisti della storia umana: poveri pastori che vegliano nella notte sul loro gregge. Ma questo vale per ciascuno di noi. Ognuno, come Benedikt, sente che c’è qualcosa di buono da fare della e nella propria vita, e che questo qualcosa, di cui l’avvento è la ricerca, ha bisogno di un «natale», cioè di una nascita: nostra e altrui. E la strada è la risposta a cose e persone che hanno bisogno di noi, che ci chiamano, anche se sono mute, come, per Benedikt, le pecore disperse nel gelo: «Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e salve prima che la grande festa portasse la sua benedizione sulla terra». Il racconto, da leggere in poche ore al calore buono di casa, mentre magari fuori cresce una notte buia e fredda, si snoda in una ricerca che, passo dopo passo, diventa un’epica del bene. E quando sembra che tutto si metta male, accade sempre qualcosa che rilancia la scommessa fatta dal protagonista, proprio perché si imbatte in qualcun altro, come lui, che si sta prendendo cura di un altro pezzettino di mondo, ferito e disperso. La somma di tutte queste quotidiane e piccole cure operate dai giusti salva «il mondo», che è semplicemente ciò che abbiamo attorno e che troppo spesso ignoriamo, ma che Benedikt trova anche in una candela che lo ha guidato nel buio: «Prima di passare in casa, strinse lo stoppino tra due dita. È un atto di compassione verso la luce, non lasciare che si consumi invano». È questo il segreto dell’avvento, cioè di ogni avventura che prepara una (ri)nascita: il coraggio e la compassione per un pezzettino di mondo ferito o semplicemente dimenticato. Ed è sorprendente scoprire quanto salvare quel pezzetto di mondo salvi un pezzetto della nostra anima. Benedikt lotta con una natura aspra che tenta in tutti i modi di congelare il suo desiderio di bene, ripetendogli: ma a che vuoi che serva? E credo che lui non risponderebbe «alle pecore smarrite», ma: «a non smarrirmi io» nel gelo del cuore. Per vivere infatti non basta restare in vita, ma occorre essere vivi: nascere e rinascere sempre.
Il racconto del contadino islandese regala al lettore il senso di questa compassione quotidiana che, in mezzo a tanto gelo, accarezza e riscalda la pelle del mondo. «A Natale sono tutti più buoni», un luogo comune che nasconde solo una cosa vera, a Natale ci ricordiamo di poter essere un po’ più «presenti» (che in italiano vuol dire anche regali): chi ha bisogno delle nostre cure e attenzioni (più che mai in un Natale inevitabilmente segnato da tante ferite e solitudini dovute al periodo attuale)? Se leggerete la storia di Benedikt vi verranno in mente le risposte: dove l’autore arriva inizia l’avventura del lettore, il suo coraggioso avvento, il suo possibile natale.
Stupendo!
Non commento, ma una cosa mi viene di condividere qui in questo luogo virtuale, curato in particolare da don Mik. La cosa è questa: Antonio ed io siamo poco assidui al cinema e ai film, ma ogni tanto proviamo ad acculturarci. Avevamo iniziato ad andare ad un cineforum con cari amici conosciuti ad una vacanza estiva, ora con la pandemia abbiamo dovuto sospendere, però la cosa ci è servita comunque a destare in noi il desiderio di cercare film belli, significativi, che offrano spunti di riflessione e lascino in noi un qualcosa che si traduce in uno sguardo di positività, al di là di tutto il pessimismo che le circostanze e la realtà attuale possono provocarci.
Ieri sera su Rai 1, invece della solita infinita e scioccia fiction, hanno trasmesso un bellissimo film: “Ben is back”. Film che a me ha generato una commozione infinita in particolare per come gli interpreti hanno saputo sintetizzare senza alcuna retorica, ma con assoluta evidenza, il fatto che l’amore riesce a sormontare ogni avversità. Incurante della fatica, del pericolo, della sconfitta che nella vita può sembrarci a volte scontata. Nel film è l’amore di una madre che non si arrende davanti ai drammatici “sbagli” di un figlio, ma pensando a tante persone che hanno questo sguardo, questa passione per chiunque altro, fino ad arrivare al sacrificio della propria vita per la sua salvezza, mi balza avanti con chiarezza a quale Amore si sentono chiamate a rispondere persone così. Quello di Dio che ci ama così, fino a mutare perfino il nostro male in bene, se solo ci arrendiamo e ci affidiamo Lui.