Combattimento tra luce e tenebre

Rosini – L’arte della buona battaglia pp. 72-78

La luce si chiama Grazia, in greco charis. La parola è legata alla gratuità, a ciò che è gratis. È un regalo, infatti.

È la vita stessa, che è Cristo e che è grazia. È il dono di esistere, che riceviamo e che ha un solo significato possibile: è bello che ci siamo. È bello che esistiamo, che siamo stati chiamati a vivere e anche se sei il più ateo degli atei tu sei contento di esserci, vuoi vivere, e hai ragione a volerlo, ed è bello per tutti che ci sei.

Nella più disperata delle persone, anche nel più amaro dei suicidi, quella tragedia è la delusione di un’ipotesi di bellezza, di felicità e di amore che si percepisce come tradita, delusa; ma proprio quel dolore dice qualcosa di vero: non posso essere nato per sbaglio, per fallire, per naufragare. Eppure ho perso la strada di quella verità, e quando la perdo tutto mi sembra sbagliato e non ho più un motivo per tirare a campare; sono stato suggestionato da uomini e demoni per arrivare a questo. Mi sento fuori luogo nel mondo, perché non vedo più qualcosa di buono, di vero e di bello che intendevo riferito a me, alla mia esistenza. Ed era vero. La vita non può essere che una cosa buona.

È la grazia della creazione, la luce dell’essere, dell’esserci. È la semplice bellezza di questo mondo, quando non lo deturpiamo, è la tendenza alla felicità dei bambini, di tutti i bambini, se non li spaventi o non li maltratti. […]

Puoi essere chiunque, aver fatto qualsiasi cosa, aver distrutto o essere stato distrutto, essere alto, basso, bello, brutto, geniale o tontacchiotto, non conta: sei nato per vivere, per la luce, per l’amore, per la per la fedeltà, per la gioia, per la pace, per la libertà, per la giustizia. […]

La Grazia ha due sfumature, e il Signore Gesù le accende luminosamente, come dice di Lui il Vangelo di Giovanni: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”

Una grazia sopra un’altra grazia: il primo colore è la grazia della creazione, della chiamata alla vita, il dono primario e fondamentale, la vocazione più importante che si possa avere: vivere, comunque e sempre. Al di là di tutto.

Ma il colore di questa grazia, a motivo della tenebra, lo vediamo sbiadirsi, ed iniziamo a tradire la vita, a disobbedirle. Così iniziamo a distruggere le cose, le persone e soprattutto noi stessi. Questo è il peccato, e, siccome la vita è un dono e non ce la possiamo dare da soli, quando il peccato la rovina, non possiamo veramente aggiustare quello che abbiamo scassato, dentro e fuori di noi. Non ti puoi andare a comprare un’altra vita, ti tieni quella che hai, con tutte le ammaccature che le hai procurato.

Ecco la grazia sopra la grazia, il secondo colore: se il dono è rovinato c’è solo un up-grade possibile, qualcosa che va oltre il dono – non per caso si chiama perdono, il dono-iper.

Questo è ciò che Cristo è venuto a fare: non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui. La Grazia delle grazie è rinascere dalla misericordia di Cristo crocifisso e risorto, perdonati come Pietro che ha rinnegato, come l’adultera, come il figliol prodigo, come Zaccheo, come Matteo il pubblicano, che diventano più belli di prima.

Grazia su grazia. Una grazia ancora più grande, che dice molto più intensamente la stessa cosa che la grazia della vita già proclamava: che siamo amati. Anzi: che siamo amabili e infatti Qualcuno di meraviglioso ci ama. […] La Grazia della creazione è la nostra verità, e ancor di più lo è il perdono, la remissione dei peccati e la vita eterna.

Questa verità è in noi, questa luce sulle cose che viene dal più profondo, ha il colore della gratitudine, è percezione di abbondanza che si concretizza in mille aspetti generosi della vita, e quindi è memoria costante di essere stati amati nella misura del perdono delle cose più brutte che possiamo aver fatto; così, liberati in modo tale che il senso di colpa è diventato un gioioso debito una voglia di amare per cui ci sembra sempre poco quel che diamo in risposta a questo amore, come bimbi affettuosi. Siamo nati per amore e per l’amore.

Ma come mai perdiamo la strada così facilmente? La Grazia delle grazie contro cosa combatte? Cosa c’è di traverso fra la vita naturale, bella e gratuita, e la vita nuova, meravigliosa e ancor più grande? C’è di mezzo una tenebra che si chiama paura.

La vita biologica, meravigliosa e grandiosa, sgorga nel grembo di una madre e attraversa una porta molto seria: il parto, distacco doloroso, di solito e comunque angosciante. Si viene strappati da un luogo caldo ed accogliente e ci si trova lanciati nell’ignoto. Si chiama parto apposta: si diparte, ci si divide dalla madre.

Si comincia quindi con una grande paura e un grande dolore. Eppure stiamo nascendo e il distacco è essenziale per la riuscita dell’esistenza, a partire dal livello biologico. L’autonomia è necessaria per la sopravvivenza. Insomma: ci sta succedendo una cosa buona.

Invece quel dolore pianta in noi un enigma irrazionale, corticale, fondamentale: qualcuno ti accoglierà? Ossia: dove vai a finire? Domande che ti tortureranno tutta la vita. Ad ottant’anni ancora non lo saprai con certezza… La paura di essere abbandonati. La paura di andare soli incontro all’ignoto.

Proprio la stessa che il Signore esprime sulla Croce: nel momento massimo del suo prendere su di sé il peso della nostra esistenza Gesù deve entrare in questo terrore, dotazione di bordo dell’umanità.

Quella paura è un bivio di fronte al quale siamo ogni giorno, e in forza della quale, nella nostra abissale fragilità, tendiamo a prendere la via storta, la peggiore.

L’ansia ci vince e la vita diventa una scuola di sopravvivenza. La tensione ci accompagna e resta latente, e viviamo come gente che fondamentalmente più che viva è ancora viva.

Ci vorrà l’amore di Cristo per prendere la via bella… ci vorrà la sua morte e resurrezione per accogliere la profondità della semplice verità biologica: il dolore del parto era un inizio, non una fine. Avevamo paura di morire e stavamo nascendo proprio in quel momento. La vita non parte da un inganno ma da una Pasqua. Ma questa è una lezione che non assimiliamo mai del tutto.

Come è fatta la via storta che la paura ci fa prendere? Evagrio ed i Padri orientali la chiamano filautia, anticamente noi la traducevamo alla lettera e la chiamavamo amor proprio, nella più brutta delle accezioni.

È la centratura nel proprio ego che deriva dall’orrore del vuoto. Il terrore per se stessi diventa ansiosa e disordinata celebrazione di sé, dei propri possessi e dei propri bisogni. È avidità e vanità. Una domanda latente ma violenta, che esplode nelle passioni, con le quali si cerca inutilmente di colmare l’abisso sul ciglio del quale sta la nostra esistenza.

È l’ansia per il proprio ego che si risolve nella sottolineatura, nel foraggiamento e nella difesa di questa identità falsa, che in realtà non crede alla solidità della propria vita e si procaccia rassicurazioni di ogni tipo. È un’identità falsa, appunto, un ego intessuto di incertezza che oscilla fra il disprezzo e l’assolutizzazione di sé.

È solitudine gelida in fondo alla propria psiche, è un dubbio, dalle radici remote, sulla possibilità di farcela. È ribaltamento continuo fra illusione e scoraggiamento, nella ricerca di una soluzione a portata di mano a quell’enigma totalizzante, nella speranza di averla trovata e nel difenderla disperatamente, proprio mentre si sperimenta che non funziona.[…]

 

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