Don Julian Carron – Corriere della Sera
Caro Direttore, fallimento, insuccesso, sconfitta dei propri tentativi. Non riuscita nella vita. Quante volte è questo il criterio con cui una persona è guardata (a livello professionale, esistenziale, affettivo). E quante volte questo diventa lo sguardo con cui essa guarda se stessa. L’esito è quella vergogna di sé, dietro cui si nascondono situazioni umane fatte di ferite, lacerazioni, dolori, che ciascuno cova nell’intimo come un disagio che a volte esplode a livello personale e sociale.
Se uno non riesce, se non è all’altezza degli standard dominanti, che impongono la riuscita come criterio del vivere, allora è da scartare. È quello che il Papa (lo ha fatto anche di recente parlando dei disabili e dei carcerati) chiama «cultura dello scarto». Purtroppo questa cultura stravince – fino a diventare mentalità comune – non solo fuori, ma anche dentro di noi.
In mezzo a tutto questo scarto, resta qualcosa? Sì, rimane questa nostra umanità ferita, irrequieta, confusa: rimane e grida l’attesa di qualcosa che ci liberi da una situazione che sembra senza via d’uscita. Dio sceglie proprio questa situazione umana, che nessun tentativo sembra in grado di cambiare, per sfidare la cultura dello scarto con la novità di uno sguardo che esalta il valore infinito di ogni singolo uomo.
Davanti ai nostri fallimenti valgono anche oggi le parole del profeta Isaia: «Esulta, o sterile» (Is 54,1), cioè tu e io, che non riusciamo mai a raggiungere gli standard. «Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata» (Is 54,4). Ecco la sfida che Dio lancia al nostro modo così accanito di guardarci secondo la nostra misura o quella degli altri. Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti, di quel nichilismo che Galimberti descriveva sul Corriere della Sera come «vuoto di senso» (15 settembre 2019).
Ma come Dio lancia la sua sfida? Qual è il gesto più potente che Egli compie nei nostri confronti? Non ci offre una parola consolatoria, ma accade nella nostra vita. Per farci capire quanto valiamo, il Verbo – Dio, il significato, l’origine e il destino del nostro vivere – si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). Niente è più convincente di questo: il Signore del cielo e della terra assume la nostra umanità. Facendosi carne, e restando presente attraverso la carne, l’umanità reale di persone concrete, può abbracciare ogni situazione umana, entrare in ogni disagio, in ogni ferita, in ogni attesa del cuore. Può far riecheggiare oggi, come parole vive, quelle parole pronunciate per la prima volta duemila anni fa e che danno l’esatta misura della grandezza di ognuno di noi: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?» (Mt 16,26). Il nostro io vale più dell’universo! Don Giussani commentava in questo modo le domande di Gesù: «Nessuna donna ha mai sentito un’altra voce parlare di suo figlio con una tale originale tenerezza e una indiscutibile valorizzazione del frutto del suo seno, con affermazione totalmente positiva del suo destino; è solo la voce dell’Ebreo Gesù di Nazareth. Ma più ancora, nessun uomo può sentire se stesso affermato con dignità di valore assoluto, al di là di ogni sua riuscita. Nessuno al mondo ha mai potuto parlare così!» (Generare tracce nella storia del mondo, pp. 7-8).
Quando questo sguardo valorizzatore dell’uomo entra nella vita di una persona, stupisce fino a lasciare senza parole, inaugura uno sguardo su se stessi che non sarebbe altrimenti possibile. Come mi è capitato di constatare nei giorni scorsi ricevendo la lettera di una giovane amica: «Più cammino sotto questo sguardo, più mi diventano care anche tutte le ferite che ho, le mie piccolezze, i miei dolori, le cose che di me non comprendo, le paure, le meschinità, i peccati. Io so che esse sono la sola possibilità per intercettare il Signore che passa, perché mi rendono disarmata, bisognosa, piccola. Mi stupisco del fatto di non voler censurare più nulla di me, anzi, ostinatamente voglio guardare tutto fino in fondo. La mia umanità mi è cara solo perché è abbracciata così dal Signore che viene».
Mi viene in mente una pagina indimenticabile di questo incontro con Cristo presente attraverso l’umanità cambiata di un suo testimone. «Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata; […] “da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io”. “Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?”. […] “Lasciate”, disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, “lasciate ch’io stringa codesta mano”. […] Così dicendo, stese le braccia al collo dell’Innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale. […] L’Innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, […] esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono”» (I promessi sposi). Il punto veramente interessante è che l’esperienza dell’Innominato che Manzoni descrive è alla portata di tutti, la vediamo riaccadere in persone come quella giovane amica.
È questa la «buona notizia» che ci porta il Natale. Non solo delle parole buone, ma l’incontro con una realtà umana, carnale, che sfida il nulla che avanza e consente di guardare tutto se stessi – così come si è – senza vergogna, perché Gesù di Nazareth non si è vergognato di entrare nella nostra carne diventando uomo. Il Natale è quel bambino in fasce che ci dice: «Perché non ti guardi come io ti guardo, come io guardo la tua umanità? Non ti accorgi che sono diventato bambino proprio per mostrarti tutta la preferenza che io ho per te?».