Rodolfo Casadei – Tempi
Hanno illuminato la torre Eiffel per celebrare l’introduzione del “diritto” all’aborto nella Costituzione francese come se si trattasse dell’abolizione della schiavitù o della presa della Bastiglia; alla vigilia delle elezioni europee hanno votato in massa, nel vecchio Europarlamento, a favore dell’introduzione dell’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; promuovono campagne di stampa a base di “inchieste” che denunciano le “pressioni” che le donne in stato di gravidanza subirebbero per non abortire (La Stampa, Le Iene, eccetera) e che sbarcano all’estero su testate come Libération, la quale titola “In Italia, una politica antiabortista rampante”; per bocca del segretario del principale partito di opposizione intimano: «Non voglio più vedere gli antiabortisti dentro ai consultori a impedire a donne e ragazze di abortire» (Elly Schlein, Porta a porta, 7 giugno 2024); espongono al pubblico ludibrio il deputato Lorenzo Malagola perché ha osato far approvare un emendamento che apre ai volontari delle associazioni per la vita le porte dei consultori che saranno attivati grazie ai fondi Pnrr. Con una tale veemenza che nessuno, nel mondo cattolico ufficiale, ha approvato apertamente l’iniziativa del deputato o almeno lo ha difeso dagli attacchi più beceri.
Chi cerca non di ridurre la facoltà legale di interrompere la gravidanza, ma semplicemente di persuadere ad evitare qualche aborto venendo incontro a eventuali necessità materiali e umane delle donne, viene additato come un delinquente, come figura esecrabile. Sbalordita da tanta tracotanza la mite Marina Corradi ha scritto:
«Si afferma il diritto della donna come assoluto, e dunque il concepito non possiede alcun diritto. I figli della Francia, almeno fino a una certa età gestazionale, non solo possono venire cancellati legalmente come del resto in Italia e in Europa, ma proprio non sono soggetti di diritto. Non esistono. È la prima volta che un paese afferma con una tale nettezza che il frutto del concepimento è un niente. Che eliminarlo sta nella assoluta discrezione della madre. È la prima volta che un paese dichiara solennemente in una Carta costituzionale che i suoi stessi figli appena concepiti sono un nulla» (Avvenire, 16 giugno 2024).
Aborto e nessun dilemma
Da dove nasce questo fanatismo abortista? Di fanatismo si deve parlare, perché non c’è altra parola per definire l’atteggiamento di chi accusa l’avversario di crimini inesistenti e cambia il significato alle parole pur di imporre la sua volontà totalitaria (a Bruno Vespa che le faceva notare che nei consultori i volontari pro vita non impediscono alle donne incinte di abortire, ma le vogliono soltanto informare di possibilità diverse dall’interruzione della gravidanza, la Schlein ha risposto che così fanno pressione, e fare pressione è la stessa cosa che impedire) e non prova nemmeno un briciolo di compassione per il destino del nascituro che verrà soppresso.
Pier Paolo Pasolini, che pure non era contrario alla legalizzazione dell’aborto a determinate condizioni, scrisse:
«Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente» (Corriere della Sera, 19 gennaio 1975).
E ancora, nelle Lettere luterane (1976):
«Io mi sono pronunciato contro l’aborto, e a favore della sua legalizzazione. Naturalmente, essendo contro l’aborto, non posso essere per una legalizzazione indiscriminata, totale, fanatica, retorica. Quasi che legalizzare l’aborto fosse una vittoria allegra e rappacificante. Sono per una legalizzazione prudente e dolorosa… l’aborto è un problema dell’enorme maggioranza, che considera la sua causa, cioè il coito, in modo così ontologico, da renderlo meccanico, banale, irrilevante per eccesso di naturalezza».
Nessuna nostalgia delle acque materne nelle Schlein, nelle Bonino, nei Macron, nei Biden, nei Trudeau, nei direttori e negli editorialisti de La Stampa, Repubblica, Corriere della Sera, eccetera. Nessun dilemma morale. Nessuna tristezza. Nessuna remora, nessun rimorso, nessuna gratitudine. Gratitudine, sì, perché se ciascuno di noi è vivo, lo deve alla catena ininterrotta di antenate che hanno deciso di portare a termine una gravidanza, magari extraconiugale e in condizioni di indigenza, anziché interromperla. Uno che per esempio si chiama Casadei, che è il cognome che si dava ai trovatelli (come Esposito, come D’Angelo e Dell’Angelo, come Diotallevi, eccetera), come potrebbe essere indiscriminatamente favorevole al “diritto” di abortire?
I pionieri sovietici del “diritto di abortire”
Da dove nasce allora questa ossessione abortista, questa protervia? Un occhio alla storia e un occhio alla concezione di sé dei moderni ce lo fa capire. Il primo paese al mondo a legalizzare l’aborto è stato l’Unione Sovietica nel 1919, ovvero il primo Stato che ha promosso l’ateismo su base scientifica è stato anche quello che ha sdoganato per primo l’interruzione di gravidanza. Secondo una logica inoppugnabile. Se Dio non esiste gli esseri umani non hanno un’origine divina, dunque la loro vita non è sacra: li si può eliminare se ostacolano la rivoluzione oppure quando sono nel ventre della madre ma le condizioni materiali o soggettive sono sfavorevoli alla nascita.
Il comunismo è parte integrante delle ideologie moderne ateistiche e prometeiche che affermano che l’uomo si fa da sé, è il prodotto di se stesso e non la creatura di un qualunque Dio. Evidentemente l’uomo è un prodotto della natura, ma siccome il rapporto corretto con la natura è quello della dominazione della stessa da parte dell’uomo, l’aborto è un caso evidente di affermazione della volontà illimitata dell’uomo che sottomette ai propri desideri la natura coi suoi limiti.
Il volano dell’ateismo pratico
Nel resto dell’Europa non c’è stato bisogno di una dittatura marxista-leninista per arrivare allo stesso risultato: il materialismo, che declassa il feto da persona a grumo di cellule sacrificabili, si è imposto per via sociale attraverso l’individualismo e il consumismo. L’Europa “cristiana” ha mantenuto l’aborto nell’illegalità – con limitate aperture nel Nord Europa negli anni Trenta-Quaranta – fino al 1967, quando il Regno Unito (dove il sovrano sarebbe anche capo della Chiesa) ha approvato l’Abortion Act. Da lì è dilagato in tutto l’Occidente.
L’ateismo di fatto, non necessariamente teorizzato, si è portato via il principio della sacralità della vita in ogni fase dell’esistenza. Se Dio non c’è o non c’entra perché non è conoscibile, l’uomo è il creatore di se stesso, è il figlio di se stesso. Nessun altro figlio può imporgli rispetto e obbedienza: né il Figlio di Dio, né il figlio nel grembo della donna. L’aborto inteso come diritto è il necessario esito della visione del mondo che vede nell’uomo il creatore di se stesso. L’uomo diventa l’esperimento che egli conduce su se stesso, fino al postumano.
Il dogma dell’uomo creatore di se stesso
Di qui nascono la rabbia, l’indignazione e tutte le reazioni fanatiche degli abortisti di cui sono oggetto coloro che semplicemente cercano di sottrarre all’aborto qualche bambino in più, entrando in empatia con le donne intenzionate a mettere fine alla gravidanza e offrendo loro solidarietà concreta.
La nascita di un bambino anziché la sua soppressione dovrebbe essere un evento che rallegra tutti. E invece no. Perché ogni bambino che nasce da una donna che era intenzionata ad abortirlo è la dimostrazione vivente che l’uomo può non concepirsi come il creatore di se stesso, può fare a meno di considerarsi il padrone della vita, e riconoscere invece una dignità che lo precede e che lo obbliga: quella della vita nel grembo materno che è sbocciata al di fuori del suo controllo. Tutto ciò che richiama alla mancanza di controllo assoluto sulla realtà e al fatto che non ci siamo generati da noi stessi, ma attraverso il “sì” di una donna, mette in crisi l’uomo moderno così come quello post-moderno. Che allora, pazzo di rabbia, diventa violento.