Figli di un padre

Julian Carron – Il brillio degli occhi. pp.101-121

In che cosa consiste uno sguardo vero sul reale? Chi mai lo ha vissuto? Chi lo ha introdotto nella storia e può aiutarci a viverlo?

Gesù ha vissuto sulla terra come ognuno di noi. Come vero uomo ha avuto a che fare con cose particolari, finite, fugaci, ha patito prove e sofferenze, fino a quella estrema della croce. Che cosa gli ha permesso di non soccombere alla parzialità, di non finire nel nichilismo o nella disperazione davanti alla prova suprema? Come Cristo ci aiuta a non essere travolti dalla parzialità delle cose e delle situazioni, dalla angustia dei nostri tentativi di autoaffermazione, dal vuoto di senso, dalla disperazione?

La nostra vita dipende da un Altro

Ne La convenienza umana della fede, Giussani riprende e commenta un brano di Ratzinger, che in Introduzione al cristianesimo scrive: «Che cosa accade quando io stesso mi faccio cristiano, quando mi sottometto al nome di questo Cristo, approvandolo così come l’uomo modello, come il parametro normativo d’ogni agire umano? Quale tipo di svolta dell’essere, quale posizione di fronte all’umanità mi assumo io, così facendo? Quale profondità raggiunge questo processo? Quale valutazione complessiva della realtà ne scaturisce?».

Una volta riproposto il brano, Giussani ne riprende i passaggi e ne sviluppa le implicazioni: «Ratzinger incomincia a dire che essere cristiani vuol dire sottomettersi al nome di questo Cristo – “nome” in senso ebraico – a questa Presenza, alla forza di questa Presenza, “approvandolo così”, riconoscendolo, “come l’uomo modello”, che deve investire la mia vita, come il criterio, “il parametro normativo d’ogni agire umano”. Dovrei cercare d’agire come agisce Lui».

Qual è allora la prima svolta che accade in noi, la prima novità che si introduce, quando ci «sottomettiamo» al nome di Cristo, approvandolo come il parametro normativo di ogni nostro agire? Anzitutto «la coscienza che la nostra vita dipende da un Altro ed è in funzione di questo Altro! La nostra vita, quando ci alziamo alla mattina e beviamo il caffelatte, quando ci rimbocchiamo le maniche per mettere a posto le cose in casa, quando andiamo al lavoro, qualunque sia questo lavoro (non c’è alcuna differenza), la nostra vita dipende da qualcosa d’altro, più grande, irrimediabilmente più grande, di cui è funzione». 

Questa, afferma Giussani, è la prima, fondamentale cosa che Cristo come uomo, Cristo come modello della vita, come parametro, come criterio dell’agire, fa succedere, deve far succedere in noi: «La coscienza che noi siamo “di” qualcosa di più grande, siamo “del” Padre. Questo lo si intuisce bene quando uno capisce che tutta la Sua esistenza è “in funzione” del Padre, è “proprietà” del Padre, è “del” Padre». «Padre», questa è la grande parola.

Nel momento che stiamo vivendo, dopo che il Coronavirus ci ha resi più unanimemente consapevoli di quanto siamo fragili, vulnerabili, dipendenti da quello che accade, queste parole risaltano con rinnovata e drammatica evidenza nella loro portata.

E precisamente la decisività del riferimento al “Padre” ciò «che aveva intuito confusamente l’apostolo Filippo quando, proprio un’ora prima che Cristo fosse preso, gli ha chiesto: “Continui a parlarci del Padre, faccelo vedere una buona volta questo Padre e saremo contenti!”. Capiva che questa era la parola che sconvolgeva il modo normale con cui gli uomini sentono loro stessi, andava alla radice di tutto, e abbracciava l’orizzonte di tutto, perché il Padre è l’orizzonte di tutto, la radice di tutto, infinitamente di più del paragone più vicino che possiamo fare, quello del bambino appena concepito, per il quale l’orizzonte totale e la radice totale è l’utero di sua madre (madre e padre, è lo stesso)». Qui infatti si tratta di una paternità ultima, radicale e continua. «Tam pater nemo, nessuno è così padre, Egli è l’unico Padre, tutta la nostra vita è in funzione di Lui, proprietà di Lui. “Filippo, è tanto tempo che sei con me e non hai ancora capito? Chi vede me, vede il Padre. “È questa l’origine della tenerezza e dello stupore senza fondo che Dostoevskij aveva per Cristo, perché nel Figlio è il mistero del Padre, cui noi apparteniamo, che si rende familiare.»

Per indicare il rendersi familiare del Mistero, di quella sorgente inafferrabile da cui istante per istante il cosmo e il mio io, come l’io di ciascuno, scaturiscono, a cui tutto l’essere in ultima istanza appartiene, «”padre” è la parola meno lontana che possiamo usare: padre e madre sono i simboli più vicini, i segni più vicini di questa familiarità. Ora, Dio è diventato uno fra noi. Ma quello che Cristo, come modello di umanità, come parametro, introduce in noi è questa coscienza profonda e sempre più invadente che noi apparteniamo a qualcosa di più grande a cui possiamo dire “Padre”. Dobbiamo riconoscerlo nel nostro lavoro e nei nostri rapporti, così da far diventare il primo intenso e offerto, e i secondi pieni di misericordia e di carità».

Che via ha scelto il Padre per introdurci alla relazione profonda e familiare con Sé? Ha inviato suo Figlio, rendendolo presenza intercettabile da noi, affinché nel Figlio fatto uomo per opera dello Spirito Santo potessimo “vedere” a quale rapporto di intimità con Lui noi siamo chiamati e quale novità questo insinui nel modo di guardare e di trattare tutte le cose.

Come l’uomo Cristo ha introdotto coloro che lo hanno sentito parlare e visto agire alla coscienza dell’appartenenza al Padre? Ogni suo gesto, ogni suo dire, ogni suo sguardo era investito, plasmato dalla coscienza del Padre, documentava la coscienza del Padre. «Cristo, come uomo, era totalmente determinato da questa coscienza, tanto è vero che ha potuto dire: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). A chiunque l’avesse fermato mentre camminava, mentre stava parlando con gli apostoli, mentre era là a mangiare, e gli avesse chiesto: “La tua coscienza di che cosa è piena in questo momento?”, avrebbe detto: “Del Padre”. “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete. Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,32-34). Compiere la Sua opera, questa è la vita.» Giussani dunque incalza, parlando di sé e di noi, qualunque cosa facciamo, su qualunque strada siamo: «La mia vita è compiere la Sua opera, non perché sono prete; per me è esattamente come per te che sei una dattilografa!».

Quella di Cristo è l’esperienza con cui noi siamo chiamati a paragonarci, a immedesimarci, è a essa che dobbiamo guardare. Se ora qualcuno ci fermasse per la strada mentre camminiamo e ci chiedesse: «La tua coscienza di che cosa è piena in questo momento?», che cosa risponderemmo? Non si tratta, sia chiaro, di ripetere certe parole, ma di sorprendere di che cosa è effettivamente piena la nostra coscienza mentre viviamo.

Che cosa vuol dire avere coscienza del Padre? Chi è il Padre? Il Padre è l’origine di tutte le cose, ciò da cui tutte le cose in ultima istanza provengono, procedono, il fiore del campo come la faccia della persona amata. E che nesso c’è tra la coscienza che Cristo ha del Padre e il rapporto che Egli ha con la realtà? Che interesse ha per noi questa modalità di vivere la sua vita di uomo in rapporto col Padre?

In Cristo è diventata familiare quella modalità di rapportarsi all’essere che corrisponde al cuore, che soddisfa, compie, non lascia delusi. È ciò per cui siamo fatti: «Riconoscere il reale come procedente dal Mistero dovrebbe essere familiare alla ragione, poiché proprio nel riconoscere il reale così com’è, cioè come Dio l’ha voluto, e non ridotto, appiattito, senza profondità, trovano corrispondenza le esigenze del “cuore” e si realizza fino in fondo la possibilità di ragione e di affezione che siamo. La ragione, infatti, per il suo stesso originale dinamismo, non può compiersi se non riconoscendo il reale in quanto affonda nel Mistero. L’umana ragione tocca il suo culmine, dunque è veramente ragione, quando riconosce le cose per quello che sono, e le cose sono in quanto procedono da un Altro».

Riconoscere la realtà come proveniente dal Mistero non è una illusione propria di visionari, un auto-convincimento, ma il culmine di un uso vero della ragione e dell’affezione. Quanto esso ci è familiare? Quante volte ci è accaduto di riconoscere il Mistero guardando le solite cose? Non è questione di doti. Riconoscere la realtà come segno del Mistero è alla portata di tutti, come afferma san Paolo nella sua lettera ai Romani: «Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute».

Se è alla portata di tutti, non è tuttavia scontato. Al contrario. Ciò che dovrebbe essere tanto familiare alla nostra ragione — strutturalmente fatta per cogliere il significato della realtà – quanto consono alla nostra libertà, storicamente ci appare lontano, sfuocato, non riusciamo a vederlo e affermarlo. Tanto è vero che quando ci accade di riconoscere il reale come segno del Mistero rimaniamo stupefatti. Vuol dire che non è per noi un’esperienza abituale. Abituale è semmai un altro modo di rapportarci alla realtà, che considera ovvia la sua esistenza.

Qual è l’esperienza quotidiana del rapporto con le persone, le cose, gli eventi propria di Gesù, così come la documentano i Vangeli? Gesù coglie tutta la realtà come avvenimento: «La dinamica dell’avvenimento descrive ogni istante della vita: il fiore del campo che “il Padre veste meglio che non Salomone” è avvenimento; l’uccellino che cade “e il Padre celeste lo sa” — è un avvenimento; “i capelli numerati del capo” sono un avvenimento. Anche i cieli e la terra che ci sono da milioni di secoli sono un avvenimento, un avvenimento che sta accadendo ancora oggi come novità, in quanto la loro spiegazione non è esauribile. Intravedere nel rapporto con ogni cosa qualcosa d’altro significa che il rapporto stesso è un avvenimento».

È difficile non rimanere sorpresi e attirati dallo sguardo di Gesù sul reale che i Vangeli descrivono. Egli documenta un modo di vivere la realtà che non la appiattisce, non la riduce, incarna e testimonia un rapporto vero, intero, con ogni aspetto del reale. Testimoniandoci come guarda tutto — il fiore del campo, l’uccellino che cade, la persona che soffre Gesù ci introduce a una familiarità con il Mistero che sta accadendo ora: tutto può essere vissuto come avvenimento, cioè in quanto proveniente ora — in ultima istanza — dal Mistero.

Che cosa gli consentiva di vivere il reale con questa intensità? Il suo rapporto col Padre. Per riprendere i termini utilizzati prima, Gesù non poneva la sua speranza in una affermazione di sé, in una Sua espressività, ma nel rapporto col Padre (anche i miracoli non sono mai uno sfoggio di capacità, sono sempre un rimando al Padre, sono compiuti perché tutti si accorgano del Padre e riconoscano che il Padre lo ha mandato). Il Suo modo di vivere come uomo non era una affermazione di sé, ma un’obbedienza alla volontà del Padre. Il suo costante rapporto col Padre, di cui la sua coscienza era piena in ogni momento, gli faceva vivere tutto con una intensità e una densità senza paragoni. Nell’uomo Cristo troviamo rispecchiato nella sua pienezza il contenuto della frase di Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore, […] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

Niente lo prendeva come il Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Neanche il male che subiva riusciva a staccarlo dal Padre. Anzi, proprio lì si vede tutta la densità del Suo rapporto col Padre, che Lo porta ad affidarsi oltre ogni misura. «Questa fiducia originale nel Padre, non offuscata da diffidenza alcuna, si fonda sulla comunione dello Spirito Santo con il Padre e il Figlio: lo Spirito mantiene viva nel Figlio l’imperturbabile fiducia per la quale ogni disposizione del Padre fosse anche la trasformazione della separazione personale in abbandono sarà sempre scaturente dall’amore, al quale ora, poiché il Figlio è divenuto uomo, occorrerà rispondere con umana obbedienza.» Qui sta la radice della vittoria di Cristo sul nulla. Il modo di vivere del Figlio è la vittoria sul nulla.

In tutto quello che fa, Cristo testimonia il suo rapporto col Padre. «Chi crede in me, non crede in me ma nel Padre che mi ha mandato.» Tutto, ogni suo gesto o parola, rimanda al Padre, al Mistero. Ogni Suo sguardo o azione sono invasi da questa Presenza. Come dice Giussani, con quella frase che ho fatto il proposito di ripetermi ogni volta che posso: «L’uomo Gesù di Nazareth – investito dal mistero del Verbo e perciò assunto nella natura stessa di Dio (ma la sua apparenza era assolutamente uguale a quella di tutti gli uomini) —, questo uomo non lo vedevano fare un solo gesto senza che la sua forma dimostrasse la coscienza del Padre». Insistendo su ciò che caratterizzava l’autocoscienza dell’uomo Gesù, Giussani riprende le parole del Vangelo di Giovanni: «”Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera.” Oppure: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. La Sua vita è come una mimesi continua, come un’imitazione continua, come uno specchio; la Sua coscienza era continuamente specchio del Padre. “Io non posso far nulla da me stesso: giudico secondo quello che ascolto”, che ascolto nella coscienza, “e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.”».

Gesù viveva nella consapevolezza che tutto il suo valore dipendeva dal rapporto col Padre. Fuori da questo rapporto niente sarebbe durato, niente avrebbe avuto consistenza. Il Padre, il rapporto con Lui, dava spessore e significato a ogni cosa: «Gesù si stupisce certamente dinanzi a tutto […], dal fiorellino più piccolo sino al firmamento sconfinato. Tuttavia tale stupore si origina dal ben più profondo stupore dell’eterno Figlio che nello Spirito assoluto dell’amore si stupisce per l’amore stesso che tutto domina e sovrasta. “Il Padre è più grande”».

Seguire Gesù: essere figli

Come può diventare familiare, storicamente, per ciascuno di noi, questo sguardo sul mondo e su di sé? Nella compagnia di Gesù. 

Imparare lo sguardo di Cristo sul reale ci conviene, perché «se l’uomo non guarda il mondo come “dato”, come avvenimento, a partire cioè dal gesto contemporaneo di Dio che glielo dà, esso perde tutta quanta la sua forza di attrattiva, di sorpresa e di suggestione morale, vale a dire di suggerimento d’adesione a un ordine e a un destino delle cose». Invece, quando il reale è riconosciuto come avvenimento, come originato dal Mistero, nella propria vita si produce una intensità senza paragoni: «Quale intensità è promessa alla vita di chi coglie, istante per istante, il rapporto di tutto con l’origine! Ogni istante ha un rapporto definitivo con il Mistero, e perciò non si perde nulla: esistiamo per questo, ed è questa la nostra felicità».

È il rapporto col Padre che rende carico di significato e di positività ogni singolo istante, anche il più effimero. E noi dobbiamo esserne consapevoli: «Non v’è momento / che non gravi su noi con la potenza / dei secoli; e la vita ha in ogni battito / la tremenda misura dell’eterno». [Ada Negri] Altrimenti tutto si sfalda e il vuoto di senso vince. Per questo seguire Gesù è la massima convenienza per noi. SeguendoLo, possiamo vedere avverarsi la Sua promessa: «Chi mi segue, avrà il centuplo quaggiù». Nella compagnia di Gesù il rapporto vero con il reale può diventare esperienza stabile in noi, la religiosità cioè il rapporto riconosciuto e vissuto col Mistero, dentro tutto, avendo a che fare con tutto — può diventare esperienza di ogni istante, e con ciò può diventare continua la differenza di vita che ne deriva.

Con Cristo nulla si perde, perché Cristo ci permette di entrare in una familiarità col Padre. «Dopo tanto nostro conversare e dopo tanta nostra compagnia, possiamo incominciare a sentire che razza di intensità, di nobiltà, di lievità di vita, che razza di vita diversa questo introduce! […] “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E la volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di ciò che egli mi ha dato”. Che io non perda nulla! Gesù si riferiva agli apostoli, ai discepoli, ma si può dilatare il senso di questa frase. La volontà del Padre è che io non perda nulla di ciò che mi ha dato: ogni momento, ogni circostanza di vita, ogni provocazione, ogni cosa da fare. È una intensità spontanea, sempre più spontanea – non è una fissazione —.»

È l’intensità testimoniata da Bonhoeffer, in una delle lettere scritte dalla prigionia, conclusasi con la morte, a motivo della sua opposizione al regime nazionalsocialista: «”Lasciate andare, cari fratelli / ciò che vi tormenta / ciò che vi manca / tutto io vi rendo”. Che cosa significa questo “tutto io vi rendo”? Nulla va perduto, ma in Cristo tutto è recuperato, serbato, ovviamente in forma mutata, trasparente, chiara […]. Cristo rende […] tutto questo e precisamente nel modo in cui era inteso originariamente da Dio, libero dalla deformazione del nostro peccato».

Ogni circostanza è suscettibile di portare quella novità che Cristo ha introdotto nel mondo. Ma perché ciò accada non è sufficiente un nostro sforzo – anche se ciò non significa che non occorra la nostra libertà —. Guardiamo bene che cosa vuol dire seguire Gesù. Qual è la via che Gesù ci testimonia? Non lo sforzo, ma la figliolanza. L’essere figli. Gesù ci insegna che cosa vuol dire essere figli testimoniandoci come Lui è figlio. La via della pienezza che Egli documenta non è quella dell’essere capaci, ma dell’essere figli.

San Paolo ricorda ai cristiani della Chiesa nascente la sorgente di questa familiarità: «Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”». E ancora: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”». Commenta Benedetto XVI: «Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù […] ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. È questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli “Abbà!” Padre. Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti, siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova». Infatti, sottolinea H. Schlier, l’essere in Cristo Gesù «si manifesta a noi, ci diventa accessibile e presente, diventa nostra esperienza storica nell'”essere nello Spirito” […]. Nello Spirito, infatti, Gesù Cristo si manifesta e si concede all’esperienza».

E a questo diventare figli che suggestivamente accenna Isacco della Stella, nei suoi Sermoni: «Che cosa desidera di più il servo, se non diventare figlio?Anzi chi, o miei fratelli, oserebbe anche debolmente credere ciò, se la stessa bontà di Dio non lo permettesse e lo promettesse?». E poco oltre: «Come io e te siamo una cosa sola, così essi siano una cosa sola con noi. Ecco verso dove si spinge il servo, verso dove si riconcilia il nemico perché da nemico diventi servo, da servo amico, da amico figlio, da figlio erede, da erede uno, ancor più diventi uno con la fonte stessa dell’eredità; e così come non potrà essere privato di se stesso, allo stesso modo non potrà essere privato dell’eredità che è Dio stesso».

Il nostro errore è pensare che la diversità di Gesù risieda in una sua superiore capacità, che gli permetterebbe di fare quello che noi non riusciamo a fare, cioè vivere senza cedere al nulla. Invece Gesù non viene meno e non diventa arido, non è vittima del nulla, perché vive per il Padre. È questa la Sua unica forza: «Io vivo per il Padre». La Sua diversità non è nella capacità di essere Se stesso autonomamente. La Sua diversità è nel suo essere Figlio. Qui sta tutta la differenza qualitativa di Cristo.

Il contenuto della Sua autocoscienza è il rapporto col Padre. «”Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria” [l’affermazione di sé] — e questo ci taglia la testa: basta pensare a quando discutiamo “ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato, questi è veritiero”. Non si cerca l’affermazione dei propri punti di vista, ma l’affermazione piena di tentativo e di umiltà della verità, nella ricerca del “parere” di Colui che ci ha mandati.»

Che cosa vuol dire non cercare l’affermazione dei propri punti di vista? È un atteggiamento diverso della coscienza. «La parola “coscienza” sulla bocca del cristiano è totalmente l’opposto di quella sulla bocca dell’uomo moderno. Sulla bocca dell’uomo moderno la parola coscienza (“io seguo la mia coscienza”) significa il luogo dove uno genera i suoi pareri, i suoi pensieri, e ha il diritto di affermare quel che pensa e sente, perché intende sé come la sorgente di tutto: la coscienza è concepita come la sorgente dei criteri e dei pareri.» Per l’uomo cristiano, invece, la coscienza è «il luogo di sé dove uno cerca e ascolta la verità di un Altro; perciò il cristiano è per sua natura umile, e quando la cosa è chiara, è certissimo, è umilmente certo, e tutto pronto a mettere in atto le sue energie per una ricerca, per “sentire”, come diceva prima il Vangelo di Giovanni: “Colui che mi ha mandato è veritiero, e io dico al mondo le cose che ho udito da lui”. Diciamo ciò che abbiamo udito».

Ascoltare la verità di un Altro, dire ciò che si è udito da un Altro: è forse un atteggiamento arduo o strano? No, risponde Giussani, riferendosi agli adulti cui sta parlando: «Lo fate sempre, pardon, lo fate spesso», bisogna solo diventarne coscienti. «Che cosa grande è essere coscienti di farlo, sorprendervi nel dire o nel raccomandare le cose ai vostri figli, così come ai vostri amici, perché è lo stesso, sorprendervi nel parlare ai vostri figli e poter dire: “Colui che mi fa parlare così è veritiero, e io dico le cose che ho udito da Lui, io sto dicendo a mio figlio le cose che ho udito da Lui”.» Quando, nel rapporto coi figli, opera questa coscienza nuova, «che tranquillità, che sicurezza, che pace c’è allora! Siete liberi anche di fronte alla risposta che il figlio darà. Quando invece è il nostro parere che conta, vogliamo  tutti i costi che passi: dominiamo». Sono questi i segni concretissimi di una verifica se la coscienza nuova generata da Cristo comincia o meno a penetrare nelle nostre viscere.

Il punto è dunque che la coscienza del Padre diventi sempre più familiare, affinché ciascuno possa dire, come Gesù: «Colui che mi ha mandato è con me». È una esperienza che matura nel tempo, continuando a camminare, non cessando di percorrere la strada che l’incontro sempre spalanca, come dicevamo. «Proviamo a pensare, a immaginare una persona, un uomo, che dieci, cento, mille volte al giorno prenda coscienza del fatto che Colui che lo ha mandato, cioè Colui che lo fa, il Mistero che lo fa, è con lui, che Dio è con lui: la serenità di certi volti, di certi volti di monaci o di monache, ha qui la sua radice. Ma in questo sta la serenità impressionante del volto di tanti nostri amici, perché tra di noi vivono queste cose.»

Una tale presa di coscienza plasma ogni istante, ogni gesto, ogni sguardo, il modo di affrontare tutto, passo dopo passo. «”Da Dio vengo, non vengo da me stesso!”. Non sto dicendolo a voi, sto dicendolo a me», sottolinea Giussani nel mentre lo richiama, e «ognuno deve dirlo a se stesso: non vengo da me, da un Altro sono uscito, e perciò io debbo fare le opere di Colui da cui sono uscito, debbo ascoltare, devo guardare, devo imitare. Se in qualunque momento della sua vita uno si fosse accostato a quel giovane o a quell’uomo, Gesù di Nazareth, e gli avesse chiesto: “Cosa stai pensando?”, avrebbe detto: “Al Padre”, ma non astratto dalle cose». Non c’è alcuna alternativa infatti tra pensare al Padre e pensare o interessarsi alle cose. «Pensare al Padre è un modo veritiero di pensare alle cose, è il modo vero di pensare alle cose: è una modalità dello sguardo che porti a tua moglie o a tuo marito, ai tuoi figli, al tuo lavoro, al bene e al male che ti accade, a te stesso.»

Gesù ci rivela il Mistero come Padre. È Lui che ci insegna a dire: «Padre nostro». Cogliere istante per istante il rapporto di tutto con l’origine significa allora cogliere il rapporto di tutto con il Padre. E questo ci fa vedere tutte le cose nella loro verità, interezza, costruibilità.«Ma pensate che il rapporto con il Mistero, con il Padre, come diceva Gesù, e quindi l’imitazione di Cristo, non ci faccia guardare l’uomo, la donna, i figli e i fiori, le cose? No, ce le fa guardare in un modo cento volte più intenso e più vero. Così che, pur balbettando, comprendiamo che la verità sta da questa parte; pur attraverso il nostro balbettare, noi percepiamo che la verità ci viene da qui.»

Il male è la dimenticanza

Il rapporto col Padre non distoglie dalle cose, non le sopprime, ma le riempie di significato. Pensare al Padre è la modalità veritiera di pensare alle cose. È uno sguardo finalmente vero. Tutto allora acquista una densità, una intensità unica: finalmente si afferma il valore dell’istante, dei rapporti, del lavoro, della realtà, delle circostanze, della sofferenza propria e altrui.

Ci sono dei segni di questa modalità vera di trattare tutto: libertà, pace, certezza imperturbabile, fiducia, abbandono («Nelle tue mani affido, consegno il mio spirito»). L’ansia non l’ha più vinta in noi, non siamo più determinati dalla riuscita di una nostra espressività, non dominano più la paura e l’incertezza. «E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire?», dice Claudel, mettendo queste parole in bocca ad Anna Vercors, ne L’Annuncio a Maria.

Eppure, quanta menzogna e parzialità nel nostro modo di pensare e di trattare noi stessi, gli altri, le cose! Quale ne è l’origine ci domandiamo? e subito rispondiamo: il peccato, ma senza sapere bene in che cosa veramente consista il peccato. Ci viene subito in mente la nostra mancanza di energia, di forza di volontà, di coerenza. È il sintomo della tendenza al moralismo che accompagna come un’ombra quello che viviamo e rende opache tante nostre giornate.

Proviamo allora a guardare la cosa più a fondo, senza lasciarci immediatamente fuorviare dal moralismo. L’esperienza del peccato è «letteralmente il venir meno della coscienza del Padre, cioè il venir meno della tensione a far accadere questa coscienza». Infatti, «se io sono legato a questo “più grande di me”, […] e se la mia natura è vivere coscientemente, allora, se io abbandono la coscienza di questo rapporto, questo è il male! Il male è l’agire umano che abbandona la coscienza di questo rapporto. […] Il vero male, la stoffa del male è questa dimenticanza. Che importanza hanno allora le preghiere del mattino e della sera! Che importanza ha dire il Padre Nostro! Obblighiamoci a dirlo adagio, pesando le parole: che almeno un istante nelle ventiquattro ore uno diventi uomo, perché poi influisce su tutto!».

Il vero problema non è innanzitutto la mancanza di energia, di forza di volontà, di coerenza, ma la dimenticanza, la mancanza di familiarità col Padre.Non è un problema di capacità. Quando manca la coscienza del Padre, cioè la coscienza di essere figli, si riduce lo scopo del vivere; esso diventa la pura affermazione di noi stessi; vale a dire, facciamo tutto «per uno scopo effimero, che butta nel nulla tutto. Se facciamo per noi stessi, buttiamo nel nulla tutto. Il novanta per cento, anzi, tutte le nostre azioni hanno questo destino terribile, contro cui noi dobbiamo camminare». Perciò, nella misura in cui la coscienza che la nostra vita è funzione di qualcosa di più grande non cresce in noi e, nel tempo, «non sottende tutto quello che facciamo, noi sbattiamo nel niente tutto».

Fare per se stessi equivale a buttare tutto nel nulla, tutto diventa effimero per mancanza di profondità, di significato. Manca lo scopo adeguato dell’azione, della cosa che dobbiamo fare. La vita è ridotta ad apparenza, è appiattita: il mangiare, il bere, il fare famiglia, il lavorare, il tempo libero eccetera. Ultimamente non resta niente per cui valga la pena vivere, niente che possa attirarci e rendere le cose significative. Il valore delle cose, infatti, dipende dal significato che hanno e dalla intensità di coscienza con cui le viviamo.

Giussani ripropone un episodio significativo occorsogli nel periodo dei suoi primi anni di insegnamento. «Mi ricordo – e lo raccontavo i primissimi tempi che facevo scuola di religione che subito dopo la guerra, quando c’erano i carri bestiame, una volta sono tornato da San Remo, dove ero stato per conto della Caritas di Milano […], in prima classe. Ma anche in prima classe si era uno sopra l’altro. C’era, vicino a me, un signore molto distinto, attempato, avrà avuto settant’anni. Mi dice che era stato a San Remo per dare una grossa offerta a un convento. E poi aggiunge: “Guardi, io”, e non mi ha detto il nome, “ho ottenuto tutto quello che volevo ottenere nella vita, perché ho decine di stabilimenti, di industrie” – insomma, era un grosso industriale -, “ma io, giunto a settant’anni, mi domando se non ho perso la vita”.»

Come possiamo imparare noi oggi quella familiarità con il Mistero, con il Padre, e perciò quel rapporto con la realtà, che Gesù ha introdotto nella storia? In ciò ne va della possibilità di non soccombere alla tentazione del nichilismo, al sospetto sulla inconsistenza ultima della realtà, di noi stessi, e sulla positività del vivere. Che cosa può generare figli come Gesù oggi?

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