Fine vita

Proponiamo alcuni articoli per fare un pò di luce nell’attuale dibattito attorno all’esperienza del “fine vita”.

Domande da non eludere

Massimo Camisasca – Avvenire

Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla

Caro direttore, la recente sentenza della Corte Costituzionale in merito all’impunibilità, a certe condizioni, dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita, pur in attesa delle motivazioni, richiede a tutti, credenti e non credenti, una profonda riflessione che ci consenta di uscire dai singoli casi, pur senza perderli di vista, per mettere in luce quali conseguenze questa decisione ha sulla nostra cultura e sulla nostra visione dell’esistenza. Non si tratta infatti di una questione marginale, ma di un cardine fondamentale della concezione di sé, del mondo e del rapporto con gli altri.

La vita è un dono o è invece qualcosa di cui noi possiamo liberamente e arbitrariamente disporre? Non possiamo evitare questa domanda guardando a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri amici, alle persone che ci sono più care. La vita è un dono anche quando essa è segnata dalla malattia, dalla povertà, dall’indigenza, dalle terribili conseguenze che possono avere sugli uomini e sulle donne di ogni età le gravi patologie, gli incidenti? La vita continua a essere un dono anche quando essa si svolge in condizioni drammatiche, che sembrano contraddire radicalmente tale concezione? La vita è un dono anche quando in noi sembrano spente le possibilità di relazione con gli altri, quando il dolore sembra attanagliare tutto il nostro corpo, quando sembriamo diventare un peso per coloro che più ci amano? La vita è un dono quando, in base ai criteri utilitaristici ed edonisti che dominano il nostro tempo, sembriamo essere diventati ‘inutili’, quando occupiamo un posto letto che potrebbe essere ambito da altri, quando l’uomo è considerato essere unicamente un numero dal servizio sanitario? Non possiamo eludere tutte queste domande, che ci obbligano a considerare quale sia il punto di vista da cui guardiamo il bene e il male, e la dignità della persona.

Nel sommo rispetto verso coloro che soffrono, e che potremmo domani essere noi, verso i loro parenti e verso le necessità di tutti – rispetto che ci obbliga a non giudicare mai l’interiorità della coscienza di ciascuno – non possiamo allontanarci dal principio che ogni vita umana ha una dignità che non spetta a noi spegnere in nessun modo e per nessuna ragione. E ciò è vero non solamente sulla base di considerazioni che derivano dalla fede di chi crede, ma anche sulla base della ragione. Tutto ciò è affermato chiaramente può arrogarsi il diritto né tanto meno ricevere per legge il dovere di contribuire attivamente a interrompere il corso della vita. Nessun famigliare, pur premuto da sentimenti di pena o di immensa fatica, può premere il bottone o azionare la siringa per determinare la morte di un suo caro.

Occorre intraprendere con decisione un’altra strada: non lasciare soli i parenti, accompagnarli, sostenerli, aumentare in modo rilevante e significativo i contributi dello Stato per le strutture, pubbliche e private, predisposte ad accogliere chi necessita di terapie del dolore, di cure palliative e di ospitalità nelle fasi terminali della vita. Sono tutte situazioni che vanno affrontate con grande rispetto e con profonda partecipazione. Chi può stabilire quale sia la soglia del dolore insopportabile, psichico o fisico? Non si apre così la porta alla nascita di una cultura nuova e malvagia, per la quale una malattia mentale o un’altra patologia troverebbero nel suicidio assistito la strada normale della propria risoluzione?

Papa Francesco si è pronunciato a più riprese in modo molto chiaro e con parole gravi su tutte queste tematiche. Il 20 settembre scorso ha affermato: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia ». Queste espressioni sono state riprese dalla Nota della Conferenza episcopale italiana del 26 settembre.

Non devono essere mai questioni di bilancio dello Stato o delle strutture sanitarie a favorire una cultura di morte. La decisione del paziente, di cui parla la sentenza della Corte costituzionale, deve essere aiutata a sapere che esistono possibilità di affronto della sua situazione di dolore, che esistono strade di accompagnamento. Il più delle volte è proprio la paura della solitudine e della sofferenza ‘inutile’ a determinare la disperazione che porta verso il desiderio di morte. Troviamo qui grandi analogie con la realtà dell’aborto, che pur presenta ovviamente grandi differenze. La donna è spesso portata con immenso dolore e sensi di colpa verso la scelta dell’aborto perché non le sono state offerte altre strade, non ha avuto adeguati consigli, accompagnamenti e proposte di accoglienza. Come quarant’anni fa, ci troviamo non tanto di fronte a una divisione fra credenti e non credenti, quanto piuttosto a una di quelle scelte che determinano per decenni, e forse per secoli, lo sguardo che abbiamo sulla vita e sulla morte, e quindi sul futuro della nostra umanità. Giustamente la Nota della Cei dice: «La preoccupazione maggiore [del momento presente] è anche dalla nostra Costituzione repubblicana all’art. 2 e dall’art. 3 della ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo’ del 1948, firmata anche dal nostro Paese. È necessario ribadire come tutto ciò sia sostenuto e accompagnato da una decisa avversione all’accanimento terapeutico. Non ci sono ragioni per prolungare indefinitamente l’esistenza, quando essa va verso la sua naturale conclusione. Questo è vero soprattutto per chi crede in una vita eterna oltre la vita naturale. Lo scacco della morte, così orribile e penoso per ciascuno di noi, non è uno scacco definitivo, ma il passaggio, pur doloroso e ripugnante, verso una vita migliore. Nessun medico, la cui professione è sempre un impegno di cura nei limiti delle umane possibilità, relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità». Diritto alla vita, accudimento dell’anziano e del malato, rispetto del creato: sono tre capitoli di un unico libro.


L’etica contro l’ideologia tutela il ruolo dei medici

Stefano Ojetti – Avvenire

Vicepresidente nazionale Amci (Associazione medici cattolici italiani)

Caro direttore, era una sentenza annunciata e facilmente prevedibile, per come era stata già formulata la legge 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), quella che la Corte costituzionale ha pronunciato sull’aiuto al suicidio, questione fin’ora normata dall’art. 580 del Codice penale che prevedeva pene tra i 5 e i 12 anni di carcere per i trasgressori. La Corte, in attesa di un inevitabile intervento del legislatore, ha aperto alla non punibilità subordinandola al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda (la legge 219 appunto).

Risulta invece incomprensibile il fatto che l’articolo 32 della Costituzione, sempre citato dai fautori dell’autodeterminazione in materia di salute, venga menzionato ed applicato solamente nella sua prima parte: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma mai nella sua seconda ancor più importante: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» e quale è il massimo rispetto della persona umana se non quello della salvaguardia della vita? I punti fondanti di tale sentenza si basano sul riscontro di queste condizioni: presenza di patologia irreversibile, condizioni di sofferenza fisica o psicologica intollerabile, trattamenti di sostegno vitale come unico strumento di sopravvivenza del malato, capacità del malato stesso di prendere decisioni libere e consapevoli. Su tali condizioni credo che qualche considerazione di carattere medico-scientifico vada fatta. La pratica clinica insegna infatti che pazienti con prognosi infausta spesso sopravvivono inspiegabilmente per svariati anni, così come al contrario altri sopravvivono solamente pochi mesi nonostante la spettanza di vita sia, secondo i protocolli, di alcuni anni.

Allora qual è il criterio di irreversibilità clinica rispetto alla reale sopravvivenza se, non raramente, ci si trova di fronte a tali inspiegabili situazioni? Parlare di dolore fisico incoercibile risulta oggi obsoleto, quando attualmente attraverso le cure palliative e, all’occorrenza, la sedazione profonda si tengono sotto controllo, con grande beneficio per il paziente, patologie dolorose che fino a qualche tempo fa era inimmaginabile poter affrontare. L’annosa problematica relativa al sostegno vitale, come «unico strumento di sopravvivenza» sollevata peraltro già nelle Dat, equivale a dire essenzialmente che se l’idratazione può essere interrotta provocando il decesso, essa allora può essere paradossalmente equiparata alla stessa alimentazione che, ovviamente, se sospesa provoca egualmente la morte.

La problematica diventa complessa quando si fa cenno alla sofferenza psicologica. Si può soffrire psicologicamente infatti per le più svariate motivazioni non sempre correlate a una patologia fisica. Si può essere depressi per un crac finanziario, per un divorzio, per problematiche legate alla famiglia o a malattie dei propri cari e le ragioni possono moltiplicarsi all’infinito. Anche il malato neoplastico va tipicamente in depressione, compito del buon medico è quello di supportare psicologicamente e aiutare il paziente anche con terapia farmacologica. In tutte queste condizioni di depressione anche senili risulterà in un prossimo futuro anche lecito, se richiesto, l’aiuto al suicidio? La problematica reale che inevitabilmente si apre quindi è quella etica contrapposta a quella ideologica dell’autodeterminazione: il corpo è mio e ne faccio quello che voglio. È poi eticamente accettabile che uno Stato si preoccupi più di trovare strumenti e risorse per assicurare una ‘buona morte’ piuttosto che al contrario assicurare una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuol vivere? Basti pensare ai malati non autosufficienti che quei genitori anziani, spesso con pensioni minime e senza aiuti, non riescono più anche fisicamente ad accudire in casa.

La realtà è che risulta molto più facile ed economicamente conveniente per lo Stato affrontare il problema del fine vita ‘staccando la spina’ piuttosto che col ‘prendersi cura’, che significa farsi carico della persona al crepuscolo della propria esistenza con ovviamente tutta la fatica e gli oneri che ciò richiede: saper ascoltare, saper lenire la sofferenza e assicurare alla famiglia tutta quella assistenza medico-infermieristica che il sofferente richiede. Quattro sono essenzialmente le prestazioni sanitarie che bisogna garantire alla persona nel momento più difficile della propria esistenza per accompagnarlo a una morte dignitosa: l’idratazione per non condannare il paziente a morire di una orribile morte quale la sete, il controllo del dolore certamente raggiungibile oggi con tutti i presìdi – farmacologici e no – messi a disposizione dalla moderna medicina, l’assicurare una buona ventilazione con ossigenoterapia ed eventuali broncoaspirazioni se indicate, e da ultimo ma non meno importante l’igiene della persona, assicurando in tal modo al sofferente il sollievo, la dignità e il rispetto del proprio corpo.

La sentenza sulla non punibilità a determinate condizioni del suicidio assistito rischia di aprire le porte all’eutanasia, offrendo un incentivo di fatto a situazioni e comportamenti (anche familiari) che potrebbero portare nel tempo ad agire negativamente nei confronti di un congiunto. In una tale problematica certamente non può e non deve essere coinvolta la figura del medico, il quale deve essere libero di operare secondo scienza e coscienza in accordo con l’art. 17 del codice deontologico « il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte» .

A tale proposito il Santo Padre, nel recente incontro avuto con la Federazione nazionale dei medici e odontoiatri, ha ribadito che «la medicina, per definizione, è servizio alla vita umana». Proprio di questo si tratta: non si può chiedere agli operatori sanitari di contravvenire a ciò che è nel Dna della professione medica e cioè donare salute anziché dispensare la morte; tutto ciò può essere riassunto nella scritta sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi: «Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò».


Nessuno può aiutare la morte, ma solo il desiderio di vivere

Felice Achilli – Il Sussidiario

La recente decisione della Consulta ha avvallato un’esasperata ed irrealistica concezione dell’autonomia del paziente

La World Medical Association (Wma), che riunisce 109 associazioni mediche nazionali in rappresentanza di circa 10 milioni di medici, costituisce un punto di riferimento assoluto per la professione. Nasce nel 1947, con lo scopo di “garantire l’indipendenza della medicina da qualsiasi forma di potere, dopo l’esperienza drammatica di asservimento della scienza e della professione medica ai totalitarismi del 900”, con uno scopo preciso: la difesa della vita di ogni essere umano (non sacrificabile per nessuno altro “scopo eticamente superiore”) e la garanzia circa l’orientamento assoluto alla salvaguardia dell’uomo sofferente da parte del medico. Lo statuto della Wma , approvato a Madrid nel 1987 e ribadito ad Oslo nel 2015, afferma che “l’eutanasia, definita come ‘l’atto che deliberatamente pone fine alla vita di un paziente’, è non etica, anche se c’è la richiesta del paziente stesso o di familiari stretti”. Questo, aggiunge la Wma, “non dispensa il medico dal rispettare il desiderio del paziente di consentire che il naturale processo della morte faccia il suo corso nella fase terminale della malattia”. Non accanirsi, ma continuare ad assistere, cercando di alleviare la sofferenza, questo il compito del medico, cosa assai diversa dal procurare la morte.

Anche la Federazione nazionale dell’ordine dei medici, ribadisce in modo netto la stessa posizione all’interno del proprio Codice deontologico (aggiornato nel 12/2018), che all’articolo 17 afferma: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Gli interventi, in questi giorni, dopo la decisione della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo, dei responsabili delle associazioni mediche, hanno ribadito con nettezza questa posizione, sino ad indicare un conflitto reale tra Codice deontologico professionale e l’eventuale legge. Perché?

Da Ippocrate in poi (“non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale… in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario e da ogni azione corruttrice sul corpo degli uomini o delle donne, liberi o schiavi”), la relazione che lega il medico al suo paziente è stata fondata sulla sua “natura solidale”, orientata alla tutela della vita della persona ed al tentativo di alleviarne la sofferenza legata alla malattia, indipendentemente da fattori o circostanze esterne (potere, censo, etnia o cultura, gravità della patologia o possibilità di guarigione).

Questo “imperativo categorico”, totalmente laico, che guida la professione medica, ne determina ancora oggi il fascino (si inizia a pensare di “fare medicina” per questo!) ed il suo valore sociale. Il dr. De Coppi, chirurgo italiano del Great Osmond Street Hospital di Londra, coinvolto nella cura di due gemelle siamesi senegalesi (Marieme e Ndeye) ha detto: “Noi esistiamo per salvare la vita non per uccidere (…) L’intervento ci avrebbe obbligato a sacrificare una delle due gemelle. Non ce la siamo sentita, abbiamo rispettato il desiderio della famiglia. Non abbiamo richiesto al giudice di togliere la patria potestà ai genitori, sono loro che dovranno vivere con le gemelle. Ripeto non è un problema tecnico, siamo tutti padri di figli che amiamo”.

È questo compito “aggiuntivo” che rende ragione di un antico (ma sempre più vero) detto popolare: che per fare il medico occorra una “vocazione”, cioè una disponibilità ulteriore (oltre la “tecnica”) ad entrare in rapporto con la persona malata, a condividere con lui le difficoltà del momento, in qualche modo a soffrire lui, in una prospettiva di un bene maggiore.

Chi fa il medico così, cattolico o no, non potrà mai uccidere un altro uomo.

Il grande medico (oltre che santo) Giuseppe Moscati, pose nella sala anatomica dell’Ospedale “Gli Incurabili” di Napoli questo motto: “Morte sarò la tua morte” (“Mors ero tua mors”) per ricordare a se stesso ed ai suoi allievi la grandezza della professione, ed insieme la necessità di dover sempre, per combattere il limite umano, infondere al malato una indispensabile speranza: che la malattia e la morte non sono l’ultima parola sulla vita dell’uomo.

La recente decisione della Consulta, che ha avvallato un’esasperata ed irrealistica concezione dell’autonomia del paziente, sino ad invocare una legge sul suicidio assistito e sull’eutanasia (affidandone la “applicazione” ai medici), dimostra di non comprendere la natura profonda e solidale della professione. Il tentativo di eliminare la drammaticità della vita e le domande che essa suscita, soprattutto in determinati frangenti, è illusorio: non è diventando “padroni dell’ultima ora” per legge che si attutisce il dramma per il malato, anzi spesso diventarne “padroni” consente solo un’estraneità ed una solitudine disumane.

Ogni medico ed ogni malato sanno bene, al contrario, che anche nelle “battaglie” che si perdono, c’è qualcosa che “vince” il limite: l’accoglienza, la condivisione, l’amore, la fraternità. Il nostro lavoro quotidiano suggerisce che l’aspetto più sistematico che definisce la condizione umana non è tanto quello di essere “segnata” da un limite invalicabile, la morte, di cui la malattia ed il limite fisico sono come un segno. Esiste un altro dato, assai più evidente: la domanda, il desiderio di “guarire”, o in qualche modo, superare, e vincere tale limite. La domanda, cioè, che tale limite non definisca completamente ciò che siamo.

È questo grido, spesso inespresso e sempre implicito, che lega il medico al malato, ed il malato all’altro malato, che rende ragionevole ed affascinante tutto quello che oggi facciamo: assistenza, ricerca, utilizzo della tecnologia. Chi ha deciso di morire (mistero e paradosso della libertà che definisce l’umana condizione) non ha bisogno del medico. Al contrario, ogni medico deve avere la certezza che il malato veda in lui un uomo che ha scelto, per vocazione, di combattere la sofferenza e la morte.

Solo una professione “forte” perché consapevole del proprio compito, potrà continuare a rispondere in modo integrale, cioè professionale ed umano insieme, ai bisogni dei malati.

Per questo i medici non sentono il bisogno né la necessità di una nuova legge (né del Governo né della Consulta), essendo la relazione tra loro ed i pazienti, già adeguatamente normata dal codice deontologico, punto di riferimento autorevole e forte della professione, e qualunque decisione verrà presa in sede legislativa sarà obbligatorio prevedere l’esercizio dell’obiezione di coscienza.


C’è una compagnia che batte ogni sofferenza e desiderio di morte

Alessandro Pirola – Il sussidiario

Direttore generale della Fondazione Maddalena Grassi e presidente della Fondazione As.Fra.

Cosa muove delle persone a far di tutto per poter porre fine alla vita, fino a ottenere una legislazione che lo consenta per sé e per tutti?

Cosa muove di questi tempi un gruppo così folto di persone, tra le quali molte autorevoli, a sperare ed agire per poter un giorno porre fine alla propria vita ed a farlo così fortemente da ottenere una giurisprudenza e una legislazione che lo consenta per sé e per tutti? Che insopportabile condizione di dolore e di solitudine è immaginata, e forse già sperimentata, davanti alla sola idea di una malattia, di una fatica o di una sofferenza inevitabile; come una vertigine sul cornicione del tetto di un grattacielo.

Io non voglio soffrire! Grida quella pretesa legislativa; ancor più: io voglio che nessuno debba soffrire. È talmente radicato quel desiderio che da qualche parte qualcuno deve averlo visto realizzato per essere così credibile e diffuso.

È il grido che ho esplicitamente ascoltato e ancor più frequentemente visto sul volto di molte persone in più di trent’anni di lavoro nella costruzione e gestione di luoghi di cura tra terapie intensive, hospices, reparti di malati cronici ed in stato vegetativo, comunità per malati psichiatrici severi, cure domiciliari. In quei reparti e nelle proprie case ho visto vivere e curare Fabo e molti altri nelle stesse condizioni.

La domanda di non soffrire l’ho vista preceduta, nell’esperienza e non nell’immaginazione, da un solo altro desiderio connesso: quello di vivere. Un malato, un familiare, come un professionista sanitario, vuole recuperare una condizione migliore: un ben-essere. A ciò la ricerca clinica e scientifica ed il progresso tecnologico e giuridico si sono consacrati da sempre con un impeto incontenibile, fino a curare malattie un tempo assassine, a gestire il dolore nella gran parte delle condizioni, a creare luoghi di cura adatti e perfino belli ed a fissare leggi che tutelassero quella civiltà.

L’ammalato, come chiunque, come me, ha bisogno di essere accompagnato e sostenuto nel suo desiderio così da riprendere lucidità e vigore nei momenti più oscuri e duri. E quando non lo domanda, sovente per non infastidire, è perché ne ha ancor più bisogno. A volte, poi, la malattia riguarda proprio la psiche, cioè il luogo della libertà; in tal caso l’accompagnamento autorevole si fa decisivo. Cure palliative domiciliari, strutture di ricovero adatte, centri diurni, assistenza integrata domiciliare sostengono efficacemente malati e famigliari che vivono una situazione estrema e sono a loro volta frutto efficace di un’umanità solidale che non si arrende. Riconoscere e sostenere questo è una necessità per molti ed un bene per tutti.

Ma l’accompagnamento è uno strumento efficace se c’è la meta, diversamente è un girovagare estenuante. Non è insopportabile il dolore, in gran parte sensibile ai farmaci, ma l’assenza di senso. La meta è la certezza che la vita di tutti, malati e migranti, poveri e ricchi, è un bene grande, è una ricchezza anche quando malmessa ed è indisponibile a chiunque, specie se sano, ricco e con i tratti dell’avvoltoio.

Nell’impossibilità di guarigione ed ancor più nel terminare della vita terrena, dove è inefficace la terapia, resta efficace l’accompagnamento ed il sostegno. Grazie al cielo c’è più carità e solidarietà di quanta se ne lamenti mancare. Nella sola Milano i volontari negli ospedali e nelle case sono centinaia e spesso gli stessi operatori travalicano ogni limite orario di dedizione. Perfino taluni commiati non sono segnati da disperazione, ma leniti da una gratitudine stupita.

Sacerdoti e cappellani sono a lungo attesi ed accolti con aperture sorprendenti anche perché semplicemente rappresentano, in quel particolare frangente, una certezza indiscutibile, così come il Santo Padre e tutti i santi frequentemente invocati restano una certezza inscalfibile da un’opinione o da una condizione.

Ho visto vivere la fatica, la malattia e la morte, ed anche il nascere, come le più inevitabili delle circostanze che gridano la più oggettiva delle realtà: non mi faccio da me. Quest’ultima e più semplice constatazione è l’origine del più grande e sperimentato ristoro: mi affido a Chi mi ha fatto con una così grande e credibile domanda di vita e di felicità, in qualsiasi condizione mi trovo; mi consegno nel più semplice dei modi, evitando complicazioni e scorciatoie, accanimento ed eutanasia. Quanta gente ho visto morire serena. Se non più io o chi mi sta intorno, Lui sa sempre cosa fare della mia vita e che gran valore ha.


Non basterà più solo l’obiezione di coscienza

Roberto Colombo – Avvenire

Il giorno dopo la sentenza della Corte costituzione sulla depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito, in caso di «patologia irreversibile» e segnata da sofferenze ritenute «intollerabili», richiesto tramite il Servizio Sanitario Nazionale da una persona «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», la domanda è: ‘E adesso che cosa facciamo?’.

Una domanda che circola tra medici, infermieri, parenti che da anni curano con amore i loro cari malati e disabili, e tra tanti, tantissimi semplici cittadini (credenti e non credenti). Una domanda provocatoria per la ragione e la fede, oltre che per l’amore alla vita propria e altrui e per la responsabilità civile di ognuno, che non può rimanere senza risposta. Al momento – salvo migliore giudizio – si prospettano tre strade percorribili e doverose, almeno fino a che esse non vengano interrotte da frane legislative, valanghe culturali o intemperie sociali e politiche. Potremmo chiamarle la via della garanzia di legge, la via dell’educazione culturale ed ecclesiale, e la via della testimonianza di cura incondizionata.

Sul fronte ecclesiale italiano il cardinale Bassetti, presidente della Cei, e su quello professionale medico il dottor Anelli, a nome della Fnomceo, hanno chiesto con decisione – insieme a numerosi altri soggetti e associazioni – che il Parlamento, chiamato nuovamente a intervenire sul ‘fine vita’ dopo la decisione della Consulta, riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario nei confronti di richieste di eutanasia e assistenza al suicidio.

È, questo, il minimo che si possa chiedere al legislatore per tutelare la libertà di coscienza dei ‘camici bianchi’ che si riconoscono nell’etica medica ippocratica e della millenaria storia cristiana e laica d’Europa. L’istituto giuridico dell’obiezione è l’ultima diga che si possa ergere in una società democratica per contenere una possibile imposizione legislativa contro il diritto inalienabile di un cittadino di obbedire alla propria coscienza (e, per il credente, a Dio) prima che allo Stato. L’obiezione di coscienza è necessaria, in quanto una lex iniusta non obligat.

Ma non è sufficiente per resistere alla deriva eutanasica. Occorre ricostruire una cultura della vita e dell’amore alla vita che sappia esibire e difendere con forza intellettuale – anche in un contradditorio serrato, pubblico, ma sempre leale – i dati della realtà umana, clinica, familiare e sociale e le evidenze della ragione antropologica, medica, giuridica e politica. E di robusto realismo critico, condivisibile ragionevolezza e autentica moralità, la cultura della vita e della cura ne ha da offrire a tutti. Occorre superare la falsa obiezione che affrontare questi temi nelle famiglie, nella scuola, in parrocchia, nelle accademie, nei centri culturali e nei meeting pubblici sia fonte di ‘divisione’, e il trattarli deve essere evitato. La ‘divisione’ già è stata posta dalla legislazione e dalle sentenze sul ‘fine vita’: esse, di fatto, non raccolgono il consenso di tutta la comunità civile ed ecclesiale.

Al contrario, il confronto ed il dialogo – anche quando è vivace, deciso, appassionato, ma sempre rispettoso – è indispensabile strumento per (ri)costruire un’unità di giudizio culturale condiviso nella comunità ecclesiale e nella società. Infine, ma non certo ultima per incisività personale e sociale nella costruzione di una civiltà della vita e dell’amore alla vita, si apre la via della testimonianza di una dedizione incondizionata di genitori, figli, fratelli e sorelle, personale sanitario, comunità e associazioni di volontari alla cura degli ‘ultimi’ tra i malati e i sofferenti, quelli di cui una medicina e una società fondata sull’efficienza della donna e dell’uomo e sul consumismo delle loro vite, scartate quando ritenute ‘inutili’, inclina in diversi modi a disfarsi.

Una testimonianza silenziosa che grida più forte delle voci della ‘cultura della morte’ o dello ‘scarto’, come ci ha insegnato a chiamarla papa Francesco, e dice: l’amore è più tenace della morte e riaccende la speranza nella vita. Sempre. Anche quando le speranze umane sembrano esaurite, fiorisce il miracolo dell’accoglienza della propria vita come un dono e di quella dell’altro come una risorsa per tutti.