Padre Mauro Lepori
Il passaggio più importante, o si potrebbe anche dire: il salto più importate da fare e rifare per percorrere questa via della vita è quello dalle semplici aspettative alla speranza.
Noi, ad ogni problema, difficoltà, mancanza, reagiamo con l’istinto dell’attesa dell’immediato, dell’attesa di una soluzione, di una soddisfazione, cioè di qualcosa che venga a soddisfare al più presto il nostro bisogno. La cultura informatica e consumistica del “tutto e subito” ha accentuato questa tendenza, o almeno l’ha resa condizione permanente in cui viviamo tutto: i rapporti umani, il lavoro, lo studio, la concezione del tempo, la salute e la malattia, ecc. Ma anche la religione, e quindi anche il modo di vivere una vocazione, fosse pure monastica e contemplativa.
Anche su questo la Bolla per il Giubileo di Papa Francesco ha un passaggio molto esplicito quando parla della pazienza: “Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura. Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal ‘qui ed ora’, la pazienza non è di casa.” (Spes non confundit, § 4)
Dobbiamo prendere coscienza che questa tendenza culturale del tutto-subito ci è come penetrata nel cuore, nella coscienza, nel modo di vivere il nostro io, e quindi la nostra libertà. Non ci accorgiamo che, permeata da questa tendenza, determinata da questa tendenza, la libertà subisce un regresso, una sorta di alienazione, perché non è libera, non è libera di scegliere. Il desiderio del possesso immediato diventa più grande della nostra libertà, per cui è come se essa non avesse più spazio di azione, spazio di esercizio, e quindi soffoca. Si è persa la coscienza che lo spazio in cui la libertà respira è un desiderio che non afferra ciò che desidera, ma lo lascia essere, lo ama senza assimilarlo a sé.
Questa riduzione della libertà non è per niente nuova, perché è in fondo la caratteristica del peccato originale e quindi di ogni peccato. Internet non ha inventato nulla. Eva e Adamo afferrano il frutto proibito che Dio aveva segnalato alla loro attenzione affinché, guardandolo, potessero esercitare la libertà di un desiderio che non possiede e non consuma.
Anche il frutto proibito faceva parte del giardino che Dio aveva creato per loro, e quindi era loro donato, era per loro. Se Dio lo ha creato, se lo ha posto nel giardino che ha creato per l’uomo e la donna, se non lo ha nascosto, vuol dire che anche questo albero e questo frutto erano fatti e donati per l’uomo. Solo che non era donato per prenderlo e consumarlo, ma per lasciarselo donare come mistero che Dio avrebbe loro svelato nel tempo.
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”.» (Gen 3,6-9)
Il frutto era “desiderabile per acquistare saggezza”. Il desiderio della saggezza è certamente un buon desiderio che Dio ha messo nel cuore umano. L’errore non è questo desiderio, ma nel pensare che la saggezza consista nel possesso di un potere e non nell’umile e fiduciosa apertura al dono che Dio ci fa.
Caduti in questo errore, l’uomo e la donna si chiudono non solo al dono di tutto, ma anche al Donatore che viene loro incontro e sembra stupirsi di non trovare la creatura umana andargli incontro come un bambino che corre con gioia verso il papà che torna a casa. Il peccato chiude il cuore all’attesa di Dio. E l’uomo che perde l’apertura al Signore sprofonda nel sentimento di essere abbandonato.
È come se san Benedetto riprendesse allora la storia umana a partire da questo punto, a partire da quel momento in cui Dio torna a cercare in mezzo alla folla il cuore umano assetato di vita e di felicità, e quindi assetato di Lui, assetato di Dio.
Come è tornato e torna Dio a cercare il cuore umano, assetato di Lui ma che si nasconde?
Nell’imminenza del suo arrivo a Gerusalemme, dove subirà la passione e morte per risorgere il terzo giorno, Gesù riproduce la scena del paradiso terrestre scorgendo il pubblicano Zaccheo nascosto, come un tempo Adamo e Eva, fra le fronde di un albero, di un sicomoro. Gesù lo vede, lo chiama, va a casa sua e ne accoglie la conversione (cf. Lc 19,1-10).
Il commento finale di Gesù a questa scena è una frase che riassume tutta la sua missione: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.” (Lc 19,10)