Stefano Buccolini
In quei tempi quando ancora la terra veniva lavorata con le mani o al più i pochi fortunati avevano un bue da attaccare ad un vecchio aratro, mio nonno rimetteva i suoi servigi di contadino ad un mezzadro come tanti all’epoca.
Viveva in una grande piana costeggiata per il lato più ampio dal fiume Tevere a Roma, nella zona compresa tra il quartiere Magliana ed il quartiere Eur all’epoca fiore all’occhiello del Duce. In un casolare posto quasi al centro della grande piana; una piccola parte ospitava la famiglia composta da mio Nonno, Nonna, e sei figli.
Le giornate di duro lavoro erano scandite dal sole che con il suo sorgere accompagnava le ore di lavoro sino al tramonto e spesso anche oltre come conviene ad ogni contadino, rischiando più volte l’assenza in casa al passaggio della ronda fascista che a casa contava se tutti fossero rientrati.
In genere si piantava grano e frumento che davano al cospetto di tanta fatica un guadagno sufficiente per vivere ma non per altro; per giunta da dividere con chi metteva la sua terra in concessione.
Quell’anno mio nonno prese una decisione difficile e di grande sacrificio, volle mettere a dimora non grano o frumento, ma carciofi e ciò voleva dire dar fondo a tutti i risparmi messi da parte con fatica e rinunce per acquistare le semenze, più fatica nel piantare le singole piante, più riprese per rinterrare e pulire dalle erbacce il campo, rimodulare tutta l’irrigazione, e tanti atri accorgimenti che avrebbero comportato tanta fatica, ma lasciavano sperare in un raccolto più fruttuoso per dare un più agio ad una famiglia che faceva i conti ogni giorno con il risparmio.
Quando tutto sembrava volgere al meglio con le piantine in via di sviluppo iniziò a piovere il che di per se era un bene, ma poi i giorni furono due, poi tre, e così per molto tempo… fintanto che venne annunciata una piena a cui non vi si poteva porre rimedio se non che per salvare la propria vita così fu…
L’ indomani lo scenario gettò nella disperazione la famiglia, trenta centimetri di fango avevano pressoché coperto l’intero campo, così quell’anno come è facile immaginare non ci fu nessun raccolto nessun beneficio ma solo miseria… si diede fondo a tutte le provviste messe da parte con parsimonia per sfamare i bimbi per primi e i genitori poi.
Ma un giorno camminando lungo l’argine mio Nonno vide spuntare dalla coltre fangosa dei germogli, ma con una cadenza che non poteva essere quella delle erbacce… e non poteva credere ai suoi occhi, la resilienza delle piantine aveva vinto l’oscurità del limo che sarebbe stato per loro la forza nell’ essere delle piante magnifiche e fruttuose come non mai.
Facile comprendere come quello diede nuova linfa non solo alle piante ma all’entusiasmo del lavoro da fare di li al raccolto, che quando avvenne fu incredibile e cosi proficuo da meravigliare anche un uomo che lavorava la terra da anni senza aver mai più visto nulla del genere.
Ricordo ancor oggi nel suo racconto la meraviglia e il messaggio di speranza che lo accompagnava.
Bella storia, che fa bene al cuore in questo tempo oscuro, dove si intravede appena un filo di luce. Inoltre mi riporta indietro nel tempo nel ricordo di mio nonno Giuseppe, anche lui contadino marchigiano trapiantato a Roma, quando mi raccontava le fatiche del suo lavoro nei campi e la paura vissuta al fronte in trincea nella prima guerra mondiale, e poi nei rifugi nella seconda guerra mondiale e la fame che quest’ultima aveva portato. La sua espressione più consueta rivolto a noi nipoti era “la fame è nera”. Noi nel nostro benessere degli anni 60 non lo capivamo. Oggi lo capisco, stando vicino a tanti amici che il coronavirus ha messo nella miseria “più nera”.
la speranza, che il nonno ha trasmesso con questo racconto, invita sempre a non perdersi d’animo. Grazie per averlo condiviso qui sul sio della nostra parrocchia.
Mi richiama allaa mente l’ “Adda passà a nuttata” di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, ma anche quello che sempre ripeteva mia nonna nelle difficoltà:
“Non può mai essere più buio della mezzanotte” .