L’intervento di Javier Prades sul titolo del Meeting di Rimini 2021
INTRODUZIONE
Il titolo del Meeting, “Il coraggio di dire io”, ripropone una frase dei Diari di Søren Kierkegaard scritta nel 1849, che vogliamo comprendere nel suo contesto originale.
Kierkegaard
Kierkegaard s’interrogava circa la comunicazione della verità. Capiva che la prima condizione per una comunicazione del vero è la persona che la pronuncia. La verità non si trasmette attraverso il ventriloquio. Esige una persona che si gioca nel comunicare l’avvenuta comprensione di quella verità. Ecco subito un primo significato del valore dell’«io».
Kierkegaard lancia questa esigenza di fronte alla diffusione di un pensiero di stampo razionalista-idealista, che lui ha molto criticato, ritenendolo, nel senso più negativo del termine, una astrattezza, una speculazione slegata dalla vita reale e dall’esistenza concreta delle persone.
Perciò Kierkegaard insiste sul bisogno di far emergere le riflessioni su ciò che è vero dalla vita di un uomo vivo, da un «io». Serve dunque un confronto con la verità della propria vita e non solo una affermazione di verità “teoriche” che non vengono messe al vaglio dell’esistenza. Il compito della vita è questo continuo appropriarsi, o riappropriarsi, del vero, che mette in gioco la persona, che fa emergere l’io. Senza mettersi in gioco, non ci sarebbe piena comunicazione della verità ad un altro.
Il panorama attuale
Se dalla metà dell’800 passiamo alla fine del‘900, la situazione contemporanea suscita subito delle domande riguardo alla frase di Kierkegaard. Un noto sociologo, Gilles Lipovetsky afferma già negli anni ‘80 che dopo il cataclisma prodotto dalla post- modernità mediante la critica dei grandi sistemi teorici e politici dell’800 e del ‘900, dopo questo maremoto che ha spazzato via istituzioni e ideali, l’unico valore che rimane in piedi è proprio l’individuo e il suo conclamato diritto ad autorealizzarsi, cioè abilitato alla ricerca di sé stesso senza ulteriori riferimenti, poiché valori, ideali e istituzioni crollano tutt’intorno.
Possiamo accostare al giudizio del professore francese quello del sociologo canadese Charles Taylor, quando parla della nostra come di un’«epoca dell’autenticità». La parola d’ordine nelle nostre società diventa «sii te stesso», «sii autentico», «fai tutto a modo tuo»; questa sarebbe la strada per arrivare alla pienezza che ognuno cerca per non perdere sé stesso: per essere autentico e autoreferenziale. Tant’è vero che, durante la pandemia, lo psicanalista Massimo Recalcati ha insistito nella critica a questa posizione antropologica chiusa su di sé: «Mi auguro che qualcosa possa cambiare nel modo di concepire l’io», sottolineando il fatto che «dovremmo abbandonare l’io-dolatria del nostro tempo, l’io-crazia del nostro tempo, che non può portare a nulla di buono, perché orienta verso una follia narcisistica».
La ripresa per l’educazione alla fede
Giussani ha citato il diario di Kierkegaard in varie occasioni. Evoca Kierkegaard per chiamare in gioco la persona e per capire la differenza che esiste nel fare certe affermazioni, a seconda che – nel farle – entri in gioco l’io o no. Si può dire la stessa verità, che, di per sé, ha un contenuto giusto, in tanti modi; alcuni tuttavia non raggiungono nessuno, perché la verità non viene proposta in un modo personale.
Quello che è necessario per la riflessione e la comunicazione ad altri, lo è anche per la creazione delle opere sociali. Ricordiamo bene l’affermazione di Giussani: «Le opere nascono quando uno ha il coraggio di dire “io”». Non si trasmette la verità, non nasce un’opera se non ci sono alcuni che hanno il coraggio di dire «io». Anche Julián Carrón, riproponendo i testi di Giussani, ha sottolineato spesso il giudizio di Kierkegaard sulla centralità del soggetto, che si deve giocare per comunicare il vero e per agire secondo il vero.
Riprendere l’affermazione di Kierkegaard ci obbliga a paragonarci con il nostro tempo, per tentare di capirlo e approfondirlo senza equivoci. Conosciamo un’altra diagnosi di Giussani, molto efficace, che ha parlato di un «effetto Chernobyl» non più sulla salute fisica, ma sulla struttura portante della personalità umana, colpita da uno svuotamento, da un indebolimento conoscitivo-affettivo, che la rende incapace di uscire dal limite dell’io.
La complessità del problema di fronte al quale ci troviamo esige un approfondimento, per non scivolare sul titolo del Meeting come ovvio. In che senso l’esigenza formulata da Kierkegaard si dimostra adeguata all’oggi? Occorre un lavoro per identificare i termini adeguati a poter dire «io» e per trovare il coraggio di farlo, in modo tale da essere sorgente di fecondità, invece che di chiusura in una follia narcisistica, come avverte Recalcati. Propongo un percorso in tre quadri e un epilogo, volto a suscitare un paragone esistenziale. Il mio intervento non ha uno scopo erudito o letterario, ma vuole favorire una posizione che permetta all’io di accogliere affettuosamente e amorosamente la realtà, e, in essa e aldilà di essa, Cristo presente.
PRIMO QUADRO: UNO, NESSUNO E CENTOMILA
Incominciamo evocando il celeberrimo romanzo di Luigi Pirandello, dal quale traggo sinteticamente alcune osservazioni per il nostro percorso.
Nulla più era vero: solitudine
Le problematiche che risuonavano in Kierkegaard emergono costantemente nella cultura europea. L’opera di Pirandello, del 1926, ne è prova. Il protagonista del romanzo, a partire da un’esperienza apparentemente irrilevante, entra in crisi circa la propria identità, circa il rapporto con sé stesso, con la moglie e con gli altri. Vitangelo Moscarda diventa paradigma della vita di tanti uomini e donne del Novecento. Come mai sua moglie vede in lui quel piccolo difetto che lui non può vedere? Il personaggio comincia a pensare che allora non vale nulla essere qualche cosa per sé. Smarrita la possibilità di conoscere veramente sé stessi, subentra anche il sospetto su ciò che di noi vedono gli altri. Allora, se la conoscenza che ho di me stesso non vale più nulla e s’insinua il sospetto che quello che gli altri vedono di me sia una pura convenzione, chi sono io? Sono forse uno davanti a me, ma in realtà non sono più nessuno e potrei essere, per me e per gli altri, centomila diversi. Il protagonista si inoltra in questa follia che, in fondo, non si sa bene se è una lucidità estrema, per cui il folle potrebbe essere l’unico che capisce veramente come stanno le cose, aldilà delle convenzioni della società borghese. Anticipando di parecchi decenni la cultura postmoderna, Moscarda sembrerebbe il vincitore, in quanto non si sente più costretto ad essere “qualcuno”: può essere nessuno o centomila, può rinnegare identità e nome, può lasciarsi andare allo scorrere della vita verso una dissoluzione del proprio io, e vivere il momento, attimo per attimo, senza cristallizzare in ciò che, in fin dei conti, sarebbe una maschera convenzionale.
Aldilà dei dibattiti sul nichilismo di Pirandello, la sua opera diventa in un certo senso il romanzo della solitudine, perché, mancando un rapporto affidabile, non rimane altro che adeguarsi al gioco delle apparenze, rinchiudendosi in un solipsismo definitivo: «A toccarmi, a strizzarmi le mani, sì, dicevo “io”: ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me stesso, solo. E nell’attimo del brivido, che ora mi faceva fremere alle radici i capelli, sentivo l’eternità e il gelo di questa infinita solitudine».
È questa una condizione che caratterizza la vita di tanti uomini, anche anonimi del XX e XXI secolo. C’è una incompiutezza, una impossibilità ultima ad essere qualcuno, a poter dire «io» in un modo rilevante e significativo, e dunque si rimane soli. Intorno al problema dell’io c’è stata, e continua ad esserci, una fatica immane, e i tentativi di rispondervi esprimono problemi reali, di gente normale, che vive, soffre, lavora, si dà da fare tutto il giorno e non sa perché.
L’io, che alla fine dell’800 appariva in Europa come l’erede orgoglioso di una nuova genealogia di scienza, tecnica e cultura, esaltato in senso assoluto come un soggetto che non accetta limiti, cade a fine 900 in una depressione. Il soggetto, come si vede nella filosofia accademica e anche nella cultura generale, è discusso, è problematizzato, fino ad essere quasi rifiutato. In tanti momenti, sembra che l’unica energia, l’unica forza dell’io, sia quella di negare sé stesso. L’io sarebbe come una forza deponente, quasi come un io che non esiste se non per dire “non io”, se non per affermare con assoluta energia – e lì si dimostra la permanenza paradossale della realtà dell’io – che non si è (e non si vuole essere) uno, magari non si è neanche nessuno, che si è e non si è, centomila diversi.
Un io onnipotente e un io nostalgico
Venendo ad oggi, possiamo accennare ad alcuni aspetti della cultura popolare. Il film Bohemian Rapsody del 2019 ha ridato attualità alle canzoni dei Queen della fine degli anni 80 (senza nessuna pretesa di offrire una valutazione complessiva di questa band). Alcune di esse esaltano un io che ancora si vuole assoluto, che non sopporta limiti di tempo e spazio, né regge il confronto con qualsiasi dato che possa fare d’argine alla propria autodeterminazione. Alcuni titoli famosi allora risuonano con il film: I want to break free, Who wants to live forever?, I want it all (and I want it now), Don’t stop me now. Basta risentire queste canzoni, per riconoscere un io che si afferma con una pretesa sconfinata: «I consider it a challenge before the human race and I ain’t gonna lose (…) No time for losers ‘cause we are the champions of the World».
Insieme a questo io che si vanta, sicuro della propria forza, appare oggi anche un io che non sa bene chi è, né se vale la pena di esserci. Si tratta del rovescio della medaglia che rivela la fatica, la complessità di qualcosa di così misterioso come è l’autocoscienza libera, quando uno qualsiasi di noi dice «io». Alcuni capitoli della serie televisiva Euphoria plasmano questo smarrimento soprattutto nell’esperienza giovanile. Si tratta di un vuoto nei ragazzi che vivono già senza avere nessun limite, che provano tutto, ma che, nel contempo, sono anche privi della supponenza che abbiamo visto prima. La giovane protagonista riconosce la sua sconfitta sin dal momento della nascita, e anche la sua incapacità ad essere ciò che avrebbe voluto essere.
Forse rimane in loro la pretesa di essere padroni di sé stessi nella disperazione, ma ciò che appare sullo schermo è una solitudine immensa intrisa d’amarezza. Nel muro della pretesa dell’io si è aperta una crepa, un’insoddisfazione, una malinconia forse diversa da prima, e magari qualche forma di domanda o di supplica (gli stessi Queen ripetono in modo quasi ossessivo Find me somebody to love). La generazione di Euphoria in che rapporto si colloca rispetto a quella identificata con certi temi dei Queen? Si tratta di un fenomeno alternativo o di un fenomeno conseguente? La questione è complessa, perché la vita umana non è mai bianco o nero, ha infinite sfumature che possono convivere nella stessa società.
L’io, il lavoro, la casa, gli amici, il paese
Complichiamo ulteriormente il panorama. Oltre alla parabola giovanile che va dai Queen a Euphoria, è interessante aggiungere altri aspetti di questa fatica contemporanea nel dire se io sono uno, o se non sono nessuno, o se sono centomila. Consideriamo un film pluripremiato nel 2021: Nomadland. In questo caso, i protagonisti non sono più dei teenagers, sono sessantenni e settantenni nel contesto della crisi economica e sociale del 2008 che ha travolto i risparmi e il lavoro di tanta gente, indebolendo anche le istituzioni. Si tratta di persone tutt’altro che ribelli, gente normale, lavoratori colpiti dalla chiusura delle fabbriche che, dopo una vita di lavoro, famiglia e rapporti, di città e luoghi vissuti, si trovano ad essere strappati dal proprio contesto.
La protagonista del film, Fern, si ritrova completamente sola: perché le è morto il marito, perché la fabbrica dove ha lavorato tutta la vita ha chiuso, perché non c’è più il suo paese, e non ha più una casa. Non le resta più nulla. Allora compra un furgoncino dove abitare, inserendosi così nei road movies americani, tipici della saga letteraria dei vari Kerouak, Steinbeck o McCarthy. Si tratta di una fascia della cultura americana fatta di persone in un certo senso costrette a cercare on the road, perché il sistema e le convenzioni sociali li hanno esclusi. La protagonista ha una vita solitaria con tanti spunti di bene, di amicizia, di accoglienza, di solidarietà nelle piccole cose. Accadono incontri umani, che però non durano: cambiano come cambia il paesaggio intorno e cambiano i posti di lavoro.
Non si presenta un vuoto disperato e neanche una pretesa sconfinata, ma un individualismo in solitudine per nulla entusiasta, in cui la persona è come indebolita, senza risorse. Si vive soli con il proprio passato. Si è soli, anche e soprattutto, nell’orizzonte del senso, per cui si può parlare di eutanasia piuttosto che di suicidio. L’interlocutore è spesso la natura, la terra fotografata in un modo sublime, ma, a mio giudizio, ultimamente muta, come una presenza che attrae ma tace. In quel che si vede del mistero di Dio non c’è traccia. Non si trovano né bestemmie, né preghiere. È un mondo il cui file rouge è una donna che non si lega più a nessuno, che è alla ricerca di non si sa bene chi, e che incontra questi uomini e donne soli che per il sistema non sono più nessuno e che forse sono anche loro centomila.
Ciò che Taylor ha caratterizzato come «epoca dell’autenticità» sarebbe alla fine questa vita non solo fuori dal sistema convenzionale, ma avulsa da ciò che rende l’io fecondo e duraturo? Sembra che l’io autentico s’identifichi con questa donna sola. Forse era questo l’io sopravvissuto di Lipovetsky, l’io che caratterizzerà il XXI secolo: sessantenni e settantenni senza radici? In Europa, non abbiamo la tradizione dei road movies, magari non c’è neanche questa cultura, ma nelle nostre città, nei nostri quartieri – nel mio quartiere – ce n’è di anziani soli, di poveri per strada, di gente “normale” che non sa più con chi stare, con chi parlare, a chi dire «io ti voglio bene» o da cui sentirsi dire «tu», «tu sei voluto bene».
Riassumendo, possiamo riconoscere un individualismo esasperato, che si pretende a volte trionfante (certi temi di Queen) o sull’orlo del vuoto (Euphoria), o semplicemente stordito (Nomadland): un individualismo in solitudine, incapace di legami stabili, di appartenere a qualcuno e di generare un bene duraturo per sé e per gli altri.
La crepa nel muro: nostalgia di qualcosa d’altro
Le varianti dell’individualismo odierno sono attraversate dalla nostalgia – anche confusa – di qualcosa d’altro. Pirandello fa emergere questa strana attesa quando fa dire al suo protagonista che siamo condannati ad «avvertire il sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lì presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano». E quindi si vive in «un’angoscia indefinita» perché, se potessimo entrare in questa lontana e misteriosa presenza di cui avvertiamo l’esistenza, «forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo». La stessa intuizione si riflette anche nel grido di tanti gruppi musicali, delle serie televisive o nel cinema. Questo apre una breccia, un punto di passaggio, perché, a differenza delle sicurezze vissute in altre epoche, si riconosce in modi molto diversi un punto di fuga, questa incompiutezza che si può identificare mediante l’osservazione attenta e appassionata di quell’io che è ognuno di noi, e che è ognuno di coloro che incontriamo.
Il mio volto
Per favorire il passaggio dal primo al secondo quadro, propongo una canzone, scritta da una giovanissima ragazza di GS: Il mio volto.
SECONDO QUADRO: ABRAMO LA NASCITA DELL’IO
Scoprirsi senza volto, il buio nel fondo di sé, la solitudine, l’accorgersi del Tu, l’eco di una voce, il rinascere dal ricordo, l’essere amati, l’essere fatti, le stelle e i cieli, quanti elementi – che appaiono negli esempi citati della cultura contemporanea – sono presenti in questo canto eccezionale.
Proviamo a sondare il mistero dell’io evocato da Adriana, guidati dalla riflessione di alcuni grandi autori del 900. Faremo un po’ di fatica, ma può valerne la pena…
L’io: essere e non essere
Cominciamo da una donna straordinaria, grandissima pensatrice, religiosa carmelitana e martire, Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) che ha saputo esplorare con grande finezza il mistero dell’io. Scrive: «Il mio essere, come io lo vedo e come in esso mi vedo, è un essere nulla; io da sola non sono e non sono niente da me stessa, in ogni momento sono davanti al nulla e devo ricevere l’essere di nuovo, momento per momento (…). Eppure è proprio questo mio non essere “l’essere” e io tocco perciò ogni momento la pienezza dell’essere (…)».
Stein comprende un dato innegabile: «il mio essere è un essere fugace, prorogato di attimo in attimo, esposto all’eventualità del non essere». Ma si accorge anche che «questo fatto corrisponde a un altro, altrettanto innegabile: cioè che, malgrado la mia fugacità, io sono e sono mantenuta in vita di attimo in attimo, e, nel mio essere fugace, contengo un essere duraturo. So di essere sostenuta e qui sta la mia tranquillità e sicurezza – non la sicurezza consapevole dell’uomo che sta su un terreno sicuro con le proprie forze, ma la dolce e beata sicurezza del bambino sorretto da un braccio forte – che in pratica è una sicurezza non meno ragionevole».
Edith Stein non censura nessuna dimensione dell’io. Da una parte, parla di fugacità, di un essere come sospeso, di non essere nulla. Non censura la vertigine del vivere senza essere il padrone di me stesso, spinto sempre da un’esigenza insaziabile di pienezza. Allo stesso tempo, sostiene che è altrettanto innegabile che l’io è duraturo, perché riceve l’essere, è mantenuto in vita di attimo in attimo. Da dove viene questa autocoscienza, che si apre già alla pienezza dell’evidenza di sé?
Un altro grande pensatore del 900, Von Balthasar, ci indica la direzione giusta: «Non sul guanciale della meditazione, estraniandosi da tutto, uno coglierà sé stesso, tutt’al più incontrerà il nulla e guai se volesse riconoscersi in esso, ma solo donandosi ad una realtà o ad una persona. Quello del potersi abbandonare è il principio di ogni realizzazione e di ogni possesso amoroso». La comprensione compiuta dell’io non viene da una sorta di meditazione solipsistica, chiusa su di sé, ma da un donarsi, un affidarsi, un consegnarsi ad un altro, che sono tutti termini imprescindibili per dire chi siamo.
Come si è raggiunto nella storia della civiltà, certamente nella cultura dell’occidente, questo livello di autocoscienza?
Abramo: la nascita dell’io
Per rispondere, occorre tener conto del contributo della radice ebraica alla cultura occidentale. Attraverso le Scritture di Israele, incorporate alla Bibbia cristiana, la prospettiva giudeo-cristiana illumina la comprensione del mistero umano in un modo decisivo. In essa c’è un punto fermo: per poter dire «io», serve un rapporto. Serve un tu, e non solo un qualsiasi tu con la minuscola, ma anche il Tu con la maiuscola, il Tu di Dio. L’io è generato da un rapporto e ha bisogno di un rapporto al quale abbandonarsi completamente. Se non c’è questa esperienza non si raggiungono le dimensioni di un io umano compiuto.
La storia della salvezza ci ha consegnato un nome, un luogo e un tempo precisi nella storia del Medio Oriente, nella storia del mondo: il nome di Abramo. Questo patriarca appare come la prima mossa del gesto con cui Dio stesso è venuto incontro all’uomo, consentendo che accadesse quello che Giussani ha chiamato la nascita dell’io. Si tratta una generazione legata alla storia. Solo andando dentro la storia, si può raggiungere la consistenza dell’io nei termini compiuti con cui Dio stesso l’ha disegnata dall’origine, e conseguentemente anche riflettere su di essa.
L’uomo che grida «io» con una energia sconvolgente e allo stesso tempo si deprime perché non sa più chi è, questo uomo che vive spesso nella confusione, si trova ad essere chiamato per nome, provocato a dare una risposta. Dice Giussani: il grido dell’uomo ha avuto una risposta, ha avuto una accoglienza, è entrato in un dialogo. Con un’espressione molto bella, dice: è come se il grido dell’uomo fosse risuonato nel cuore di Dio, dentro la casa di Dio, come se il grido umano fosse stato gridato lì dentro.
Ecco l’inizio della storia dell’io così come noi lo possiamo desiderare, come noi lo possiamo cercare, come noi l’abbiamo certamente già sperimentato. [34] Nella vocazione di Abramo si trova un albore nuovo, che inizia una storia dentro la storia, dove il senso della storia del mondo e dell’esistenza di ogni uomo trova la sua comunicazione. Inizia la comunicazione tra il grido della ricerca umana e la risposta che lo renderà luminoso, vero, fecondo, capace di consegnarsi, capace di amare e di generare, capace di suscitare la vita e di diventare protagonista nella storia.
Dio si è “immischiato” con noi, come attesta la Sacra Scrittura. Dio parla ad ognuno di noi in termini comprensibili, adatti alla nostra sensibilità, e allo stesso tempo, in virtù di questa concretezza, si apre un varco in noi verso la coscienza di una Alterità, di una presenza altrimenti inimmaginabile. Si stabilisce il rapporto con quella presenza misteriosa, presentita da Pirandello, che adesso si mostra e abbraccia tutte le dimensioni luminose, oscure, faticose, gioiose della vita umana e le introduce dentro una prospettiva infinita, la prospettiva del Destino come altro da sé, senza la quale non si è mai sé stessi. Ecco come sorge storicamente la possibilità di raggiungere una autocoscienza vera di sé, come descriveva Edith Stein e come aveva cantato con limpidità una ragazza di GS. Cosa accade in questo “immischiarsi” di Dio con Abramo? Che lui diventa sé stesso, non sarà più Abram, ma Abramo. Con la chiamata riceve un nome che implica un compito, un essere messo in cammino verso una vita piena per sé e per gli altri.
Quando si è chiamati per nome si rende possibile l’itinerario dell’autocoscienza definitiva di sé. La modalità storica di intervento di Dio a favore dell’uomo inizia con la chiamata di Abramo al quale Egli dona un nome, e con esso la sua identità ed un compito. Incomincia la storia della salvezza che, attraverso i patriarchi, Mosè, i giudici, i profeti, i re, fa maturare nel popolo d’Israele l’attesa di una piena manifestazione del divino e dell’umano.
Prima che Abramo fosse, sono Io
Tale possibilità tanto desiderata e annunciata come imprevedibile nella sua forma di realizzazione, che sembra quasi fallire, accade in modo improvviso e stupefacente nella figura di Colui che è, allo stesso tempo, l’umano più umano e la manifestazione del divino come noi non l’avremmo mai potuto immaginare.
Per mantenere il nostro filo rosso che è la concezione dell’io, vorrei focalizzare, per cenni, quella figura nella storia dove risplende la piena affermazione dell’io, che è Gesù di Nazareth. La sua figura colpisce talmente i suoi contemporanei che si domandano in continuazione: «Ma chi è costui?». Gli esegeti spiegano come «nella predicazione, nel modo di insegnare e di agire di Gesù ci troviamo con una eccezionale coscienza di sé stesso che si riflette nella sua autorità, eksousia, come emerge nel tono deciso del suo insegnamento dove spicca l’espressione del proprio io, la consapevolezza di chi parla perché ha in sé stesso la corrispondenza piena di sé con ciò che dice».
Siamo proprio sulla pista che aveva indicato Kierkegaard, cioè una verità che coincide, come in nessun altro caso nella storia, con la vita della persona che parla; una autorevolezza che deriva dalla coincidenza fra verità predicata ed esistenza personale. Questo si vede nel modo diretto, enfatico, con cui Gesù pronuncia il pronome di prima persona io: «Vi è stato detto, ma io vi dico…», «In verità, in verità, io vi dico…».
In tanti passaggi evangelici, alla dignità e alla santità della Legge e delle istituzioni di Israele, Gesù oppone il suo io: un io possente, che con i suoi gesti poderosi (miracoli) gli permette di ordinare la natura e, allo stesso tempo, di mostrarsi colmo di pietà e di misericordia, di immedesimarsi con ogni uomo, di sentire compassione per i piccoli, i poveri, i peccatori, di elargire un potere che è grazia, che è perdono.
Nella vita di Gesù risplende l’affermazione «io sono»: «Io sono la luce del mondo», «Io sono il buon pastore», «Io sono la risurrezione e la vita», «Io sono il cammino, la verità e la vita», «Io sono la vera vite e mio Padre è il vignaiolo». Nel vangelo di Giovanni troviamo delle affermazioni solenni che confermano questa pretesa con una profondità del tutto singolare. Per esempio, quando dice: «In verità, in verità, io vi dico: prima che Abramo fosse, io sono»; oppure: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io sono».
Penso anche a quella bellissima pagina di san Luca in cui, di fronte al mormorio e alla diffidenza dei farisei perché lui mangia con i peccatori e li accoglie, Gesù non risponde con un discorso astratto, ma con tre parabole: la pecora smarrita, la moneta perduta e, soprattutto, quella splendida parabola che è il figliol prodigo. E tutte le volte conclude affermando: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». Questa lettura che in Luca è in qualche modo implicita, anche se molto diretta, si può riconoscere nelle formule nette del vangelo di Giovanni. Gesù, dopo avere richiamato la forza del suo io, aggiunge subito: «Io non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo», oppure: «Il Figlio da sé stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo», «le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato». Tant’è vero che per Giovanni Gesù è semplicemente il Figlio. Come sarà rimasta stupita e commossa la samaritana quando, discutendo del Messia che doveva venire, sente Gesù che le dice: «Sono io, che parlo con te». La figura di Gesù mette davanti agli occhi di tutti un io autocosciente, consapevole di sé come nessun altro al mondo, e quello stesso io si riconosce Figlio del Padre, portatore della potenza di un Altro, del Padre, recepita come Figlio.
La concezione dell’io proposta da Edith Stein e Balthasar prende avvio con Abramo e trova il suo chiarimento definitivo nella figura di Gesù, il Figlio, che può dire «Sono io» come solo Dio lo poteva dire nell’Antico Testamento, «egò eimí», cioè l’espressione del divino. «Io sono» è quello che dice Dio a Mosè nell’Esodo. Gesù può dire «Io sono» con quella medesima densità e insieme attestarsi come colui che nasce sempre da un Altro, che è continuamente generato da un Altro, e che dunque nella ricchezza di questa prospettiva umana rende visibile anche l’abisso del mistero di Dio, che è Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Figli nel Figlio
Senza poter entrare adesso nelle profondità della concezione cristiana del mistero di Dio, proviamo a seguire il filo della storia. Coloro che si sono avvicinati a Gesù sono diventati, mediante il dono dello Spirito, figli come lui, cioè figli nel Figlio, e hanno acquisito anche loro una personalità che li ha resi capaci di dire «io», di reggere il peso della vita, di agire con la autocoscienza, la libertà e la capacità di costruire che stiamo cercando insieme. Sono diventati dei veri protagonisti: cosa avrebbe potuto esclamare la madre degli Zebedei – tutta presa allora dalla voglia di piazzare i due figli, Giacomo e Giovanni – di fronte alla facciata della Cattedrale di Santiago di Compostela innalzata a memoria di suo figlio Giacomo, amico del Signore?
Anche i discepoli, che prima erano impauriti, insicuri, parlano con autorità. È molto bello come, dopo la risurrezione di Gesù, Pietro va incontro agli uomini che lo cercano e dice: «Eccomi, sono io colui che cercate». Il percorso della «storia dentro la storia» cui ha dato inizio Abramo, genera degli uomini che possono dire «io» senza nulla escludere, senza nulla togliere a quella vertigine dell’essere, che non è proprietà nostra, essere che è recepito, accolto, momento per momento, istante per istante, come osservava Edith Stein. Giussani insiste su questa condizione dell’io come risposta amorosa ad un amore che lo chiama: «Siamo stati amati. Siamo amati. Per questo, siamo»; e prosegue: «Allora, se io sono amato, se io sono perché amato, il grande problema del mio esistere, del mio essere al mondo, ciò che rende possibile che il mio soggetto diventi protagonista di un mondo nuovo [ecco l’io che si dice] in cui l’eterno incomincia sperimentalmente nel tempo è la mia risposta, la mia risposta al Tu che mi ama, il mio corrispondere, la mia valorizzazione di ciò che egli ha creato in me perché potessi accorgermi di Lui. Allora, se io sono perché sono amato, devo rispondere, respondeo. Da qui nasce la responsabilità». Ecco la parola bellissima, forse non ricordata troppo spesso, per giungere ad una concezione vera dell’io…
Se un’eco di solitudine ci viene dai vari tentativi moderni e postmoderni di dire «io», ora ci colpisce un accento diverso dell’umano: quello dell’essere abbracciati, accolti, amati, e dunque dell’essere in rapporto, preceduti da un dono e chiamati a dare la nostra risposta. L’alternativa alla solitudine non è una sorta di sentimento narcisistico, sempre centrato su di sé, nell’esasperazione dei propri desideri, ma l’accoglienza di un Altro e la risposta a Lui, cioè la responsabilità come strada al compimento di sé. L’io autentico, per dirla con Taylor, l’io che è veramente sé stesso non può non essere responsabile, di sé e degli altri, non può non ricevere con il nome, espressione di predilezione, anche la responsabilità di assumersi il compito che accompagna questo abbraccio amoroso. Il nostro carissimo amico Mikel Azurmendi aveva scoperto la radicale importanza dell’abbraccio umano, e dell’incontro con Dio per poter dire “io”.
TERZO QUADRO: LA NASCITA DELL’IO E DEL POPOLO
Per entrare nel titolo del Meeting ci siamo soffermati sul significato dell’«io» e su come si può dire «io» in senso pieno. Resta ancora da affrontare una parola: «Il coraggio».
Il coraggio nasce dalla simpatia
È impossibile, almeno in Italia, parlare di coraggio senza pensare a don Abbondio, il personaggio de I promessi sposi che borbotta: «Il coraggio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare!». Ci ritroviamo un po’ tutti in questa battuta per cui il coraggio sarebbe una sorta di determinazione energica che, in realtà, non ha nessuno o che sarebbe privilegio solo di alcuni.
Di fronte a quest’obiezione conviene subito chiarire che la determinazione per poter dire «io» non è un atto energico della volontà, che portava Vittorio Alfieri a esclamare: «Volli, sempre volli, fortissimamente volli». Questo sarebbe il coraggio che don Abbondio non ha, come noi non abbiamo. Giussani dice invece che la determinazione, il coraggio, «nasce proprio a partire da una simpatia». Gli apostoli, che hanno seguito Gesù, hanno potuto dire «io» perché si sono legati a Gesù con un giudizio che li ha resi capaci di questa decisione di attaccamento che nasce da uno stupore. Il coraggio di dire «io» passa attraverso l’attaccamento affettivo che rende possibile la responsabilità, la risposta dei discepoli – prima impauriti – fino a portarli a consegnare la vita liberamente e a sperimentare una fecondità che mai avrebbero potuto immaginare.
L’attaccamento spiega in termini di esperienza umana il passaggio dalla figura unica e irripetibile del Figlio di Dio a tanti uomini che sono diventati «figli nel Figlio».
Nasce l’io e nasce il popolo
Il passaggio che dobbiamo approfondire ora è proprio che la nascita dell’io, a partire dall’attaccamento, coincide con la nascita di un popolo. L’episodio di Abramo lo dimostra, perché dalla sua elezione nasce il popolo ebreo che è un po’ il simbolo di tutti i popoli, in quanto nasce da un avvenimento nella storia, secondo la promessa per cui la sua discendenza sarebbe stata «più numerosa delle stelle del cielo e della sabbia sul lido del mare». L’alleanza di Yahvè con Abramo ha fatto emergere un «io» che, per sua natura, trova in questo rapporto l’origine dei rapporti, i quali, con il tempo, danno luogo alla nascita di un popolo.
Se già la figura di Abramo lega insieme io e popolo, la coincidenza piena di questa doppia nascita si dà in Pietro: il sì di Pietro a Gesù è il gesto più personale, perché riguardante la stessa percezione umana di sé nel profondo del cuore, e simultaneamente è il gesto da cui sorge un popolo. C’è un nesso inscindibile tra il sì di Pietro e la nascita di un popolo, tra la risposta personale e il disegno di Dio, che porta Pietro ad essere il responsabile del nuovo Israele di Dio che è la Chiesa, non solo per ministero, ma anche per vocazione ed esperienza di vita. Nasce così il popolo cristiano, affidato all’autorità di Pietro per assicurare in lui la permanenza della sua unità.
«Pasci il mio gregge», cioè, prenditi cura non solo di te, ma di tutti i rapporti attraverso i quali si verifica il rapporto con Me. È questo mandato che consente «un’attività inesausta», che non si ferma mai, perché può sempre riprendere e risorgere come vera moralità.
Spazi di azione
Questa prospettiva originale, propria della rivelazione cristiana, mi fa pensare a un altro sociologo, Ulrich Beck, il quale, in una delle sue ultime opere, si mostra perplesso di fronte al mondo che vede al telegiornale, e dice che il mondo è diventato pazzo e non si capisce più niente.
Di fronte allo sfascio, Beck propone una tesi (che io interpreto liberamente) quando per affrontare la difficoltà di comprensione del mondo, richiama i cosiddetti Handlungsräume, spazi di azione, di attività: il pensiero alternativo, la possibilità di pensare oltre gli schemi, non viene da un’ennesima elaborazione intellettuale, ma serve una azione creativa che non accetti i limiti dei modi di pensare e di agire convenzionali. Cioè, nel mondo cosmopolita ci sarà un’opportunità per coloro che, attraverso la loro azione creativa – noi potremmo dire: attraverso la testimonianza dell’esperienza cristiana vissuta -, saranno in grado di andare più in là, oltre gli schemi di pensiero.
Libertà
Il coraggio di dire «io» sorge attraverso la simpatia per un Altro, che suscita una appartenenza. Per questo è così importante la vita in comune, poiché la pienezza dell’autorealizzazione umana non è il semplice pensiero, ma l’unità di pensiero e azione. Per raggiungere la novità vera, si deve giocare la libertà. La libertà è singolare e indeducibile, perciò ha un suo dinamismo: non è la conclusione di un ragionamento, o una deduzione a partire da una legge generale, ma l’impatto con una realtà (una persona) che l’attira, che la mette in movimento per generare un legame. Senza entrare in ulteriori chiarimenti, la strada che genera l’io e allo stesso tempo genera un popolo è fatta di ragione, fino all’affezione, e di libertà. Perciò serve tutto ciò che suscita il dinamismo della libera adesione. La natura testimoniale dell’esperienza cristiana ci mostra come la libertà compiuta di un altro è desiderata da sé e quindi fa tendere verso quello che nell’altro c’è già e che si riconosce come desiderabile per sé, come un bene per essere sé stessi, per dire «io».
Educazione
Ogni educazione non può consistere semplicemente in un chiarimento di idee, ma nell’offerta di una proposta, di cui si fa esperienza attraverso i legami che consentono alla libertà di prendere posizione in un modo diverso. Quello che si ascolta sarà in grado di mobilitare l’io nella sua interezza, in quanto vissuto in un luogo vivo. Altrimenti, al massimo si arriva a ritenere certe posizioni più interessanti di altre, ma non succede la nascita di un io nuovo, né la rigenerazione di un popolo negli affetti, nei legami, e nelle espressioni della vita sociale.
Il popolo nasce a partire da questi rapporti di simpatia umana fino all’attaccamento. Se questi non ci sono, il resto è solo indottrinamento su certe idee pur giuste, su certi valori che rischiano di rimanere astratti. Ritorna di nuovo la sfida di Kierkegaard.
Io-noi: Trinità ed Eucarestia
L’io generato nel rapporto con un tu è sempre, inscindibilmente, rapporto con un noi. Qui dovremmo tornare alla percezione cristiana di Dio Trinità, allo Spirito Santo che è stato caratterizzato da alcuni teologi proprio come il noi. [55] È una prospettiva tipicamente cristiana: l’io, il tu, il noi, appartengono al mistero di Dio; questo è il nostro monoteismo, il monoteismo dell’io, del tu e anche del noi, che non si possono separare senza danneggiare la piena realtà del mistero di Dio che si è fatto uomo e che dunque ci rivela, ci offre, la pienezza dell’umano, proprio nel sacramento dell’Eucarestia che ci introduce nella comunione delle persone trinitarie. Non ci può essere popolo cristiano senza Eucarestia.
Dimensioni della vita del popolo
Le dimensioni di questa vita del popolo sono state descritte più volte. In esse si può cogliere concretamente come il coraggio di dire «io» implica una disposizione a educare, cioè, a entrare nella totalità del reale. A partire dall’incontro che rende possibile «vivere intensamente il reale» si aprono tutte le sue dimensioni.
Ogni educazione vera è educazione alla libertà, che si gioca nella responsabilità dell’azione, e che consente all’io di dirsi. Sulla base di questa educazione alla libertà si regge l’educazione alla vita sociale: la dignità del lavoro (abbiamo visto in Nomadland le conseguenze che può avere la perdita del lavoro e delle condizioni sociali che inseriscono l’io in un contesto di rapporti), la generazione di opere, vale a dire di luoghi dove idealmente si possa riconoscere una modalità di comprensione del lavoro, dei rapporti umani, a modo di veri Handlungsräume.
Tra tutte le azioni in cui si esprime il coraggio di dire «io», è difficile non sottolineare la libertà di educazione, e cioè la preoccupazione mossa dalla grande responsabilità verso i più cari, i figli, gli amici, i vicini del quartiere o del paese, per i quali si sente lo struggimento per il loro destino. Lo stesso vale per la giustizia, così profondamente radicata come esigenza originaria del cuore e così imperfetta, inevitabilmente frammentaria nelle realizzazioni umane, assolutamente necessarie per una adeguata vita sociale e, al tempo stesso, bisognose di una permanente conversione per non finire fatalmente nello svuotamento di ogni garanzia della vita comune. Lo stesso si può dire per la vita politica, cioè per il contributo tipicamente cristiano alla comprensione del potere come dimensione del servizio all’intera comunità umana.
Permanente ripresa
Il popolo che nella storia nasce dall’avvenimento di Abramo e che si compie nell’avvenimento singolare di Gesù, è tentativamente pronto ad affrontare le circostanze, i rischi, i sacrifici che implica ogni costruzione sociale, e ad imitare quella abbondanza di essere che non si possiede in proprio, ma che si riceve sempre, non una volta, ma tutte le volte, nel rapporto col Mistero, e che è la garanzia di una permanente ripresa. Ricominciare sempre: questo è il fattore che rende l’uomo protagonista della storia. A questo riguardo, scrive Eliot: «Solo la fede poteva aver fatto ciò che fu fatto bene, l’integra fede di pochi, la fede parziale di molti». Ecco, questo è il popolo cristiano, generato sempre dalla fede integra di alcuni e anche dalla fede parziale di molti, edificato dagli uni e dagli altri. Solo questo permette di «edificare di continuo». Ecco il contributo del popolo dentro il popolo, della Chiesa come «etnia sui generis» dentro la grande storia del mondo. Noi abbiamo bisogno di incrociare questa inesausta energia che non è mai stata energia auto-generata, ma sempre ricevuta come un dono al quale si dà risposta.
Fratelli tutti
Per completare questo Terzo quadro è di particolare interesse l’enciclica Fratelli tutti che, nel suo capitolo 6, si occupa di un tema molto caro a papa Francesco, che lui intitola
«Dialogo e amicizia sociale», per provare ad indicare come «il dialogo sociale apra verso una nuova cultura». Raccomando vivamente la sua lettura.
EPILOGO: «SONO STATO IO»
Vorrei concludere ricuperando un aneddoto banalissimo che mi accompagna da una vita. Non avevo neanche vent’anni e, nell’ambito dei gruppi di giovani che frequentavo allora, per un’improvvisa urgenza del responsabile, mi è stata affidata all’ultimo momento la guida di un pellegrinaggio di centinaia di giovani: diversi pullman, con vari problemi organizzativi, eccetera. Il pellegrinaggio è partito dal posto prefissato. I gruppi si dovevano seguire l’un l’altro in accordo con l’itinerario previsto, ma a un certo punto si è interrotta la comunicazione tra loro e tanti gruppi si sono persi. Pensavo: è la prima volta che devo guidare un gesto e finisce tutto male. Preso dall’affanno di capire cosa fosse successo, sembrava che non era stato nessuno in concreto a sbagliare. In effetti non si capiva cosa era andato male. La mancanza di responsabilità da parte di tutti appariva quasi normale, eppure il disagio permaneva. Quando ci siamo ritrovati per giudicare il gesto, uno dei capigruppo ha detto con semplicità: «Sono stato io. Ho sbagliato io, ho perso il sentiero, così gli altri gruppi si sono persi per colpa mia». È stata la prima volta che ho capito come il coraggio di dire «io» nel riconoscere di aver sbagliato, sia un gesto liberante per sé e per tutti. Da allora penso che uno degli effetti più imponenti di un rapporto vero con il Mistero – questo capogruppo aveva una fede molto più salda di tutti noi insieme – è quello di diventare un soggetto capace di riconoscere anche il proprio errore, che sa chiedere perdono e accettare il perdono.
Hannah Arendt ha coniato l’espressione ormai famosa circa «la banalità del male», e potremmo aggiungere l’impersonalità del male: il male ci fa nascondere, cancella i volti. Appunto, non è stato nessuno. Nei rapporti, al lavoro, in famiglia, fra gli amici, alla fine il male ci fa nascondere. E questo sin da Adamo ed Eva: Adamo dice di non essere stato lui a cogliere il frutto, e così pure Eva, non è stato nessuno. Anche Caino dice “non lo so” e si dovrà “nascondere” per tutta la vita. Potremmo proseguire lungo la storia fino ad oggi, a fino a noi stessi, che siamo anche esposti ai limiti e agli errori di tutti nel modo di vivere la famiglia, il lavoro o i rapporti sociali, e ci nascondiamo.
Se veniamo alla pagina più straordinaria del rapporto di un uomo con il Mistero, troviamo che Pietro davanti a Gesù risponde: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene».
Per dire «sono stato io a sbagliare», per poter dire «io», l’unica modalità esistenziale che regge nel tempo è poter dire: «Tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene».
Concludo perciò con le parole di Giussani in piazza San Pietro nel maggio 98, quando ci invita a vivere la libertà come domanda davanti al Mistero che «appare, nel suo rapporto ultimo con la creatura, come misericordia». Dice: «Il mistero della misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione. Anche il sentimento di perdono è dentro il mistero di Cristo. L’abbraccio ultimo del Mistero, contro cui l’uomo, anche il più lontano, il più perverso o il più oscurato, il più tenebroso, non può opporre niente, non può opporre obiezioni, può disertarlo, ma disertando sé stesso e il proprio bene, il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia, per cui l’esistenza si esprime come ultimo ideale nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo».
Ecco l’io umano più potente che ci sia mai stato sulla terra, l’io di Cristo, e la modalità con cui ognuno di noi, potrà sempre, anche attraverso tutti i suoi limiti e le sue mancanze, continuare ad avere il coraggio di dire «io» e di generare così un popolo che renda testimonianza della presenza di Dio vivente nella storia.