Mario Rigoni Stern – Il sergente nella neve
Pubblicato per la prima volta nel 1953, Il sergente nella neve (che inizialmente portava anche il sottotitolo Ricordi della ritirata di Russia) è il racconto autobiografico del lungo cammino affrontato dai soldati italiani nell’inverno 1942-1943 per rientrare dalla disastrosa campagna di Russia[1]. Scritto in un lager tedesco, dove Mario Rigoni Stern fu rinchiuso dopo l’8 settembre 1943, dopo il rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò. Il sergente nella neve rappresenta la più lucida testimonianza di uno degli episodi che maggiormente hanno segnato la memoria italiana nella Seconda guerra mondiale.
E’ la cronaca di quanto accaduto al sergente maggiore Mario Rigoni Stern incaricato di guidare la 55° compagnia (plotone mitraglieri) del battaglione Vestone, 6° reggimento Alpini, nella ritirata che dalla Russia doveva riportare in patria i soldati italiani, tra il dicembre 1942 e il febbraio 1943.
Il racconto si divide in due parti: nella prima, intitolata Il caposaldo, Rigoni Stern ricostruisce la vita di trincea tra le postazioni italiane lungo il corso del fiume Don, dove passa la linea del fronte; la seconda parte, La sacca, mette in scena la vera e propria ritirata, ovvero il lungo e difficilissimo esodo dei soldati tra le praterie innevate della Russia occidentale, costellata da pochi e poveri villaggi fatti di isbe[2] abbandonate e spesso chiuse per impedire all’esercito invasore di trovare rifugio lungo la ritirata.
A scandire la narrazione, che ha la forma di un racconto lungo più che di un vero romanzo, è una domanda, riproposta a cadenza quasi fissa. La pronuncia Giuanin, una delle tante figure di commilitoni – come Bosio, Tourn, Antonelli, Bodei o Pintossi – che animano il racconto del “sergente Rigoni”; è una domanda che, nella sua semplicità, contiene tutto il senso di questo racconto:
“Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”[3]
Risuona qui, infatti, tutto il peso del compito che grava sul sergente Rigoni Stern (che confessa: “Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità”) e contemporaneamente si afferma l’unico motivo che tiene i soldati italiani ancora legati ai loro doveri. Le dinamiche geopolitiche che hanno portato alla guerra non trovano riscontro nelle pagine del racconto; a dominare è la dimensione umana e privata dell’esperienza di tanti uomini trovatisi a combattere nel freddo e nella neve a chilometri di distanza dai loro cari. La speranza di tornare a casa (“a baita” appunto) diventa così il Leitmotiv di tutto il racconto […]
Il racconto di Rigoni Stern si costruisce così attraverso i piccoli o grandi avvenimenti che si frappongono tra i protagonisti e il loro arrivo a destinazione. La natura monotona del paesaggio invernale russo, amplificata dal ricorso del narratore a un presente indicativo che incastra il racconto in un tempo senza orizzonte, sembra condizionare anche la narrazione vera e propria, che è basata soprattutto sulla ripetizione di gesti, parole e pensieri sempre uguali. Che si tratti di organizzare una difesa quando dall’altra parte del fronte si prepara un nuovo attacco o di far fronte alle urgenze della marcia (come trovare un riparo per la notte e del cibo caldo per ristorarsi o individuare la posizione migliore per la mitragliatrice pesante per rispondere al fuoco russo), il tempo sembra abbia smesso di scorrere, atrofizzando i sensi e la coscienza degli uomini:
Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.
In questa distesa di albe e tramonti vissuti invariabilmente “in marcia”, spiccano pochissimi ricordi ben distinti. Nelle prime pagine, è il giorno di Natale 1942 a riaffiorare, con il ricordo dei miseri lussi (un fiasco di vino e due pacchi di pasta) concessi ai soldati per festeggiare. Verso la fine, invece, c’è il 26 gennaio 1943, “questo giorno di cui si è già tanto parlato”, passato alla storia come la battaglia di Nikolaevka[4], che s’incide nella memoria di Rigoni Stern come l’ultimo sussulto dell’ARMIR (“Armata Italiana in Russia”) capace di reggere agli attacchi dell’Armata rossa e di aprirsi, nonostante le numerose perdite, una strada per proseguire la propria ritirata.
Più di questo, però, è un altro fatto a rendere quella giornata memorabile e segnare profondamente l’esperienza di quei mesi. Cercando un rifugio per salvarsi dai combattimenti, il sergente Rigoni trova infatti riparo in un’isba, che tuttavia è già occupata da alcuni soldati russi che si stanno rifocillando e scaldando. Nonostante fuori italiani e russi non si stiano risparmiando colpi, gli uomini dentro l’isba smettono silenziosamente ogni ostilità e si trovano fratelli in un momento di pace provvisoria.
Qui riportiamo il frammento in cui l’autore narra l’incredibile incontro con i soldati russi durante la terribile battaglia di Nikolaevka.
Il tenente Danda con qualche soldato della cinquantaquattro (credo) vuole attraversare la strada e venire dove siamo noi, ma da una casa vicina partono dei colpi e rimane ferito a un braccio.
La nostra artiglieria non spara più da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo più niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi.
Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno le munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba (tipica abitazione rurale russa, ndr). Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria.
“Mnié khocetsia iestj” (“datemi da mangiare”) – dico.
Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata.
“Spaziba” (“grazie”) – dico quando ho finito.
E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto.
“Pasausta” (“prego”) – mi risponde con semplicità.
I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini, un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.
[1] Dopo il fallimento dell’Operazione Barbarossa lanciata da Hitler contro l’Unione Sovietica, gli italiani si trovarono a comporre gli schieramenti di retroguardia nella ritirata, esponendosi agli attacchi dell’Armata rossa e agli agguati dei partigiani russi. La campagna italiana di Russia, pur nella difficoltà di avere delle stime precise, è uno dei più gravi disastri militari del secondo conflitto mondiale, con circa 170mila unità tra morti e dispersi.
[2] L’isba è il nome italianizzato di un caratteristico tipo di abitazione rustica russa composta da un solo ambiente riscaldato da una grande stufa in muratura.
[3] Ovvero: “Sergente maggiore, arriveremo alla baita?”. La “baita”, nella prospettiva degli alpini, è ovviamente la “casa” natìa in Italia, vista come luogo protetto e sicuro in una situazione drammatica come quella della ritirata.
[4] Le perdite italiane, in quel solo giorno, furono ingenti: si calcolano circa 3000 soldati morti, catturati o feriti.