P. Mauro-Giuseppe Lepori – Conferenza al Centro Culturale Abaré, São Paulo, Collegio S. Bento, 28 aprile 2019
Il crollo delle certezze
Viviamo in un clima sociale dominato dall’insicurezza, dall’instabilità e dalla provvisorietà. E questo a tutti i livelli dell’umano: a livello personale e sociale, a livello politico e ecclesiale, a livello economico e culturale. Le certezze su cui l’uomo si fondava fino a pochi decenni fa, sembrano tutte crollate o sul punto di crollare. Ma forse ciò che è crollato veramente non sono tanto questi ambiti dell’umano, che sono crollati e sono stati ricostruiti anche in altre epoche, magari in modo più rovinoso di oggi. Quello che sembra crollato oggi è la tendenza stessa ad aggrapparsi a delle certezze. È come se l’uomo d’oggi credesse così poco a una possibilità di certezza, che neppure fa il tentativo, il gesto di attaccarsi alla certezza stessa. È come se l’umanità d’oggi fosse come un uomo caduto in un torrente, che a lungo ha tentato di resistere alla forza delle acque, aggrappandosi a tutto quello a cui si poteva afferrare, un masso di pietra, un ramo d’albero, l’erba che cresce sulla riva del fiume. Ma siamo come giunti al punto in cui l’uomo non ha più la forza fisica e psichica di aggrapparsi, di fare questo sforzo, e soprattutto si è convinto che questo sforzo è vano, che non lo salverà dalla corrente del fiume. Anche perché per contrastare la corrente che lo trascina quest’uomo si è aggrappato a sostegni sempre più fragili – prima il masso, poi il ramo, poi l’erba –, per cui ha sentito che la certezza che lo sosteneva diventava oggettivamente sempre più fragile. La forza della corrente che lo trascina con sé, coniugata con la fragilità dell’appiglio nel quale ha cercato salvezza, hanno sempre più indebolito la convinzione con cui l’uomo si aggrappava a qualcosa per salvarsi. Il risultato è che l’uomo non ha più altra scelta, o crede di non aver più altra scelta, che quella di abbandonarsi alla corrente, di lasciarsi trascinare non si sa dove. L’unica realtà è la potenza trascinante della corrente stessa.
L’uomo fluttuante
Amo applicare a questa condizione dell’uomo attuale la definizione che san Benedetto, nella sua Regola, attribuisce al fratello che per la sua cattiva condotta è “scomunicato” dalla vita comunitaria e che nella sua ribellione non si lascia aiutare e correggere dalla comunità e dall’abate. Le chiama “frater fluctuans”, fratello fluttuante (cfr. RB 27,3). Questa parola, secondo me, definisce bene l’uomo d’oggi, abbandonato alla corrente che lo strascina, oppure che galleggia sulla superficie del mare, salendo o scendendo a seconda delle onde. La corrente, le onde, sono di tutti i tipi: sono le mode, le ideologie, il potere politico o economico, le notizie dei media, le varie forme, spesso ibride, di religiosità, oppure i sentimenti e le impressioni del momento, o il grande oceano che oggi sta sommergendo tutto: la cultura internet.
In mezzo a tutto questo, l’uomo è un oggetto fluttuante, un galleggiante che segue e subisce la corrente e l’onda, che sposa il movimento dell’onda. La fluttuazione è un modo istintivo di salvarsi. L’uomo crede di salvarsi “galleggiando”, cioè rimanendo in superficie. Non si accorge che una palla che rimane sulla superficie della corrente è anch’essa trascinata, segue la corrente, segue l’onda, ne è dominata. Ma la superficialità dà l’illusione di essere liberi dalla corrente, di sfuggire alla sua presa, di non sprofondare in essa, e quindi dà l’illusione di essere liberi.
Il vero problema dell’uomo contemporaneo è forse proprio la superficialità, la superficialità come cultura, la superficialità come politica, la superficialità come religione, la superficialità come morale della vita. Basta guardarsi in giro. Con che superficialità si vive, si fanno le scelte che dovrebbero essere vitali! Con che superficialità ci si sposa o si divorzia, si decide di avere figli o di abortire! Con che superficialità si vota alle elezioni politiche, scegliendo sempre di galleggiare sulla corrente più forte! Non si pensa più tanto di dare un voto per creare una corrente, per affermare la forza e il bene di un ideale politico. No, si vota la corrente che trascina di più in questo momento.
Con che superficialità si arriva persino a vivere l’esperienza che per sua natura dovrebbe essere la più profonda: la religiosità. Il proliferare delle sette, delle comunità evangeliche libere, della pratica religiosa “à la carte”, è un vivere la dimensione religiosa del cuore, ciò che abbiamo di più profondo e sublime in noi, alla superficie dei sentimenti, delle emozioni, abbandonando di fatto sia la profondità di Dio che la profondità dell’uomo. L’esperienza religiosa non è più un abisso che chiama un abisso, come dice il salmo 41 (cfr. Sal 41,8). Non è più l’abisso del cuore misero dell’uomo che anela e grida all’abisso della misericordia di Dio.
Non voglio dilungarmi oltre su questa interpretazione della situazione dell’uomo contemporaneo, che è comunque una generalizzazione, forse superficiale anch’essa. Ma mi sembra importante descrivere un po’ quella che mi sembra la condizione più diffusa nella società contemporanea globale per capire su che sfondo umano, culturale, religioso, vogliamo parlare di speranza, di responsabilità, di certezza.
Desiderio di consolazione
Questa descrizione dell’uomo contemporaneo non la faccio con disprezzo, neppure come un giudizio. Anche perché nell’uomo contemporaneo ci sono anch’io, ci siete voi. E forse l’uomo contemporaneo è quello che nel corso della storia è il più innocente della sua situazione, perché la corrente su cui galleggia e che lo trascina l’ha raggiunto in modo così subdolo e violento ad un tempo che era quasi impossibile non reagire così, non salvarsi così: galleggiando, fluttuando.
Anche san Benedetto, quando parla del “fratello fluttuante”, non lo fa per insultarlo, per prendersi gioco di lui, per condannarlo con disprezzo. Lo fa invece in un contesto in cui esprime la sua sollecitudine misericordiosa e il desiderio di venire in aiuto a questo fratello. Ne parla in uno dei capitoli più belli della Regola, in cui descrive come l’abate deve fare di tutto per cercare e salvare la pecora smarrita, per curare la pecora malata.
Vi leggo un breve passo di questo capitolo 27 della Regola di san Benedetto perché è da lì che vorrei continuare ad approfondire con voi il tema della nostra speranza responsabile nei confronti della crisi globalizzata dell’uomo contemporaneo: «L’abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima sollecitudine, perché “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Mt 9,12). Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando dei senpectas, cioè dei fratelli anziani e saggi (seniores sapientes fratres) che quasi segretamente consolino il fratello vacillante (fratrem fluctuantem) e lo spingano a un’umile riparazione, consolandolo perché “non sia sommerso da eccessiva tristezza”, in altre parole, come dice ancora l’Apostolo, “si intensifichi la carità nei suoi riguardi” (cfr. 2 Cor 2,7-8) e tutti preghino per lui.» (RB 27,1-4)
San Benedetto parla dell’instabilità e della superficialità del monaco colpevole, malato, perduto, come oggetto di una sollecitudine straordinaria verso di lui. Straordinaria perché per i fratelli che vanno bene, che sono fedeli, san Benedetto non chiede tante cure come per lui, non mette in atto tanta ricchezza di tentativi, tanta fantasia di misericordia come per lui.
Tutta questa sollecitudine si riassume nella parola “consolazione”, che qui è utilizzata due volte, come per circondare il fratello fluttuante, come per sostenerlo da tutte le parti. “…inviando dei senpectas, cioè dei fratelli anziani e saggi che quasi inavvertitamente consolino il fratello vacillante e lo spingano a un’umile riparazione, consolandolo perché non sia sommerso da eccessiva tristezza…”.
Cosa vuol dire consolare? E come può la consolazione raggiungere l’uomo fluttuante globale di oggi? Di quale consolazione ha bisogno l’uomo contemporaneo? E da dove deve venire questa consolazione? Non corriamo il rischio, volendo consolare, di coltivare invece la superficialità religiosa e psicologica dell’uomo d’oggi? Non rischiamo di offrire una consolazione superficiale, sentimentale, quella che l’uomo cerca già, e crede di trovare già in ciò che gli impedisce di scendere in profondità? Non rischiamo anche noi, anche la Chiesa, di semplicemente partecipare al mercato, al super-mercato delle consolazioni sentimentali che offrono tutti?
La consolazione è una compagnia che ti chiama
C’è un aspetto fondamentale della consolazione cristiana che nel passo della Regola che ho appena citato è particolarmente messo in luce. Il fatto che la consolazione è anzitutto una compagnia, ha la forma di una compagnia personale. I fratelli anziani e saggi vanno verso il fratello perduto e solo, e gli offrono amicizia.
Questa è già un’enorme differenza fra la consolazione cristiana e quella del mondo. Il mondo pretende consolare con mezzi, cose, tecniche, terapie, distrazioni, e mille forme di doping. Non offre una consolazione personale, una compagnia che guarda e ascolta l’uomo fluttuante, e che gli parla veramente, e cammina con lui. Siamo arrivati al punto, soprattutto in Europa, di offrire come consolazione la morte! Tutte le associazioni per l’eutanasia, presentano l’offerta del suicidio assistito come ultima, totale e dignitosa consolazione del dramma della vita. La corrente dominante che trascina l’uomo fluttuante finisce in realtà in un abisso di morte.
Ma dobbiamo renderci conto che la consolazione cristiana nella compagnia, come quella che offre san Benedetto, non è, per così dire, zuccherata, non è un’amicizia che rischia di alimentare il sentimentalismo e la superficialità in cui l’uomo fluttuante vive. In questo passo della Regola, l’abate manda a consolare il fratello disorientato dei “fratelli anziani e sapienti”. Questo significa che si tratta di monaci che hanno fatto esperienza della via della vita, che a partire da queste esperienza, e ascoltando Dio e gli anziani sapienti che li hanno preceduti, sono in grado di sussurrare al cuore e alla libertà del fratello smarrito una parola che lo richiami a convertirsi, a scegliere di nuovo la via buona, accompagnata, guidata, che offre la comunità cristiana, la comunità monastica.
Precisamente, san Benedetto dice che questi fratelli anziani e pazienti, con le loro discrete esortazioni, devono “provocarlo a riparare con l’umiltà – provocent ad humilitatis satisfactionem” (RB 27,3). Consolare non vuol dire scusare tutto, dire alla persona che segue una via sbagliata che va bene così, che non deve cambiare. Consolare à una “provocazione”, una parola che provoca nel senso etimologico del termine pro-vocare, che si potrebbe rendere con: chiamare la libertà di una persona ad uscire o ad andare avanti, quindi a scegliere, almeno con il desiderio, ciò che è migliore, ciò che è più giusto, ciò che è più vero. La vera consolazione, la vera compagnia alla solitudine autonoma e nociva in cui l’altro si può trovare, per scelta propria o trascinato dalla corrente di un ambiente che non provoca al bene, al vero, al bello, la vera consolazione è un appello alla libertà del cuore, una chiamata, una parola, che fa pregustare questo bene, fa desiderare questa esperienza buona che l’altro sta rifiutando.
Per questo san Benedetto parla di “provocare alla riparazione dell’umiltà”. Cosa significa che l’umiltà basta per riparare i nostri errori, le nostre scelte sbagliate? Anche qui non si tratta solo di un sentimento, ma della coscienza della portata della nostra libertà, del valore della posizione del nostro cuore. Dire che è l’umiltà che ripara, che soddisfa la mancanza di giustizia di cui siamo colpevoli, vuol dire che la libertà del cuore umano ha un immenso valore, ha un grande “potere”, o meglio: una grande responsabilità. Quando il cuore diventa cosciente del proprio male e del proprio bene, basta che prenda la posizione umile di riconoscere di aver sbagliato, la posizione umile di voler cambiare chiedendo e accettando aiuto e guida, per trovarsi già sulla buona strada, per non essere più perduto, fluttuante, ma capace di camminare su un cammino sicuro e libero, obbedendo.
Solo fondandosi su questa concezione profonda e vera del cuore, e della sua libertà, e dell’esigenza che questo comporta, la consolazione propone una vera speranza. La speranza cristiana non è tanto un attendere tempi migliori cercando di astrarsi dalla realtà presente. È il contrario: un essere tesi ad un destino di bene che permette di aderire, di sopportare la realtà del presente senza volerla fuggire. La speranza cristiana non è una fuga, ma una fede, una certezza, un amore, che permettono di vivere con pienezza e letizia quello che umanamente si vorrebbe fuggire, quello che normalmente tutti vogliono fuggire.
Consolare il mondo
Mi sono soffermato su questo breve passaggio della Regola di san Benedetto perché quello che san Benedetto esprime per la cura di una sola persona, di un solo fratello fluttuante, instabile, che non sa dove va, che si perde, ci può aiutare a riflettere sulla cura che come cristiani siamo chiamati ad avere per il mondo, per la società, per l’umanità in crisi di oggi. Se la speranza è una perseveranza che non rinuncia a camminare verso il destino, che non fugge la realtà, anche pesante, della strada sulla quale ci troviamo, come possiamo vivere con questa speranza e trasmetterla al mondo come consolazione? Come possiamo offrire al mondo d’oggi, alla società di oggi, alle immense città di oggi, come São Paulo, una speranza che consola davvero? Come possiamo offrire una speranza che non trasmette illusioni o sogni, o vie di fuga più efficaci di quelle degli altri, ma la capacità di vivere il reale con letizia, con senso, come possibilità di pienezza della nostra e universale umanità?
Abbiamo visto che la consolazione è anzitutto una compagnia. Ma come possiamo offrire compagnia ad una società tanto anonima, in cui il fatto stesso di vivere tutti insieme isola sempre di più le persone? È quello che mi colpisce e mi provoca molto quando mi trovo in megalopoli come la vostra, o come La Paz, o Addis Abeba, o Saigon. Io sono cresciuto in un paese di 1600 abitanti, e tutta la mia nazione, la Svizzera, conta oggi circa 8,5 milioni di abitanti, circa la metà degli abitanti di São Paulo. Per me l’impatto con le grandi città è stato e rimane uno shock. Però questo impatto mi ha fatto e mi fa bene, mi obbliga ad uscire dal mio guscio, a pormi domande di senso che devono valere per queste realtà, perché questa è la realtà della maggior parte dell’umanità di oggi. Non si può entrare, anche per poco, nella realtà urbana delle grandi metropoli odierne senza rimanere segnati dall’estrema domanda di senso che queste realtà rappresentano. E non parlo solo delle sezioni povere di queste grandi città; parlo della città nel suo insieme, perché anche le sezioni ricche e protette, le sezioni esclusive di queste grandi città, gridano un bisogno di senso, gridano un bisogno di consolazione tanto più grave quanto più è incosciente. I poveri possono difficilmente sfuggire alla loro realtà. Mentre i ricchi, spesso, vivono in una realtà che è essa stessa illusione, essa stessa fuga dal vero senso della vita. Vivono in una realtà che fugge la realtà: niente di più disumano! Come si può evitare la fuga se si è già prigionieri di essa? E come vivere la speranza se ci si illude di non dover attendere nulla?
Ma Cristo vuole raggiungere e consolare anche quest’uomo che la ricchezza e il potere, magari il potere politico, o economico, o anche ecclesiastico, richiudono su di sé. Il giovane ricco che parte triste, senza aver abbracciato il senso della sua vita, senza aver accolto la gioia e pienezza della sua vita, forse che Gesù non lo vuole consolare? Il giovane ricco è proprio come il fratello scomunicato che san Benedetto fa di tutto per raggiungere, per ritrovare, per aiutare a tornare all’incontro con Cristo e al cammino di vita nuova, di vita piena che Gesù gli propone domandando di seguirlo, di lasciare tutto per seguirlo.
Gesù ha guardato il giovane ricco con amore quando gli ha chiesto cosa doveva fare per avere la vita eterna (cfr. Mc 10,21). Pensate che questo amore si sia spento nel cuore di Gesù quando il giovane ha rifiutato e lo ha visto allontanarsi con il volto e il cuore triste? Figuriamoci se l’amore di Cristo si può spegnere, o anche solo diminuire! Dio è amore, e se in Dio, in Gesù, diminuisse l’amore, sarebbe come se Dio diminuisse nel suo Essere, fosse meno Se stesso. Impossibile!
Ma l’amore di Gesù per il giovane ricco, mentre questi si allontanava è certamente diventato compassione, e quindi desiderio di consolazione. La compassione è la consolazione di chi soffre, di chi patisce, è compagnia a chi è nella prova e nel dolore, fosse anche un dolore colpevole, come la tristezza del giovane ricco che rifiuta di abbandonare le sue ricchezze, o il pianto di Pietro quando ha rinnegato Gesù.
Offrire una compagnia nel mondo e al mondo
Ma anche la compassione, come la consolazione, è vera solo se è compagnia, se è offerta di relazione, di comunione. Altrimenti sono solo sentimenti, emozioni, che passano come tutte le emozioni che suscitano in noi, per esempio, le notizie tragiche dei media. La vera questione è allora se si offre o no compagnia al mondo che soffre, al mondo smarrito.
Come si offre una compagnia al mondo? Il metodo di Cristo per offrire compagnia al mondo non è altro che la Chiesa come esperienza di compagnia. Per offrire compagniaal mondo, Cristo offre una compagnia nel mondo. Gesù mette nel mondo una compagnia, una comunità, una comunione vissuta, sperimentata, assolutamente originale, che Lui fa coincidere con Se stesso, con il suo Corpo, con il suo rimanere con noi. Dio non invia immediatamente i suoi discepoli a fare compagnia al mondo pagano, al mondo disorientato e fluttuante. Chiede ai suoi discepoli di vivere fra di loro, e di creare con chi incontrano, una vita nuova di comunione, di fraternità, a cui Gesù garantisce la sostanza, cioè la Sua presenza, l’Eucaristia.
È così che Cristo offre compagnia al mondo, offre accompagnamento, offre consolazione, offre compassione, offre correzione, al mondo di 2000 anni fa come al mondo di san Benedetto, o di san Francesco, o di sant’Ignazio di Loyola, del santo Curato d’Ars, come al mondo d’oggi. La compagnia di Cristo al mondo è la compagnia di Cristo nel mondo. Per consolare l’umanità fluttuante e smarrita – anche l’umanità ostile a Dio e al disegno di Dio sull’uomo – Cristo suscita nel mondo la sua compagnia, la Chiesa, le comunità cristiane, fossero anche di due o tre persone, non importa, perché Lui ci ha assicurato: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
Penso che questo sia un punto molto importante, che rischiamo di dimenticare, o di capire male. Su questo punto, che è una coscienza della natura dell’evento cristiano, si gioca tutta la verità e fecondità della nostra vita di fede. E non capire questo punto porta molti cristiani ad avere un rapporto sbagliato sia con la Chiesa che con il mondo, e quindi ad avere un rapporto sbagliato con tutte le espressioni missionarie, culturali, sociali, politiche, ecc., che siamo chiamati a vivere.
Soprattutto, non capire questo punto, non capire la modalità che Gesù ha scelto per rendere vera e feconda la presenza dei suoi discepoli nel mondo, rende appunto sterile e a volte addirittura fuorviante la presenza dei cristiani nel mondo.
Rischiamo tutti, anche a partire da una reale generosità, di voler intervenire in soccorso del mondo in crisi globale senza passare attraverso di Cristo. Rischiamo tutti di ispirarci a Gesù, al suo Vangelo, ma di non passare veramente attraverso di Lui, di non passare attraverso di Lui per soccorrere il mondo, per salvare l’uomo contemporaneo fluttuante, naufrago. Pensiamo di soccorrere meglio e più in fretta gettandoci noi in mare andando a nuoto verso il naufrago che si agita in mezzo ai flutti, invece che di perdere tempo a salire sulla barca di Pietro, a remare insieme con gli altri discepoli, e raggiungere con questa compagnia il naufrago per offrirgli di salire sulla barca e trovare in essa una compagnia di salvezza voluta, creata e mandata da Cristo Salvatore.
Riconoscere il bisogno di essere salvati
Certo, la compagnia che Cristo suscita nel mondo, la Chiesa, ha un difetto di fabbrica irreparabile: non è costituita anzitutto dalle nostre capacità, ma dalla debolezza radicale di uomini e donne che non possono salvare se stessi, che non possono salvarsi senza Cristo. Il bisogno di salvezza è una debolezza radicale, ma è forse l’unico bisogno umano assolutamente autentico, non contraffatto, totalmente vero. Io non sono mai certo di avere veramente fame o sete, e anche il mio bisogno di essere amato so per esperienza che è spesso inquinato dall’egoismo e dalla pretesa. Ma il bisogno di salvezza, di salvezza dal mio male, dal mio peccato, dal mio non saper dar senso alla mia vita, questo so che è sempre vero, anche se non sempre ascolto in me questa sete profonda di redenzione, anche se spesso dimentico di mendicare salvezza a Cristo. Là dove ho incontrato la Chiesa ho però scoperto una compagnia nella quale Cristo risponde a questo grido del cuore, e solo questo permette una fedeltà alla compagnia più forte delle sue fragilità e incoerenze, a cominciare dalle mie.
La compagnia suscitata da Cristo è così anzitutto una compagnia di coscienza ed esperienza di essere salvati da Lui, e da Lui solo. Solo questa esperienza abilita la compagnia cristiana a consolare il mondo, il mondo intero, perché la salvezza che sperimentiamo è una salvezza universale. Anche una piccola comunità di 2 o 3 persone che fanno esperienza della salvezza in Cristo è abilitata a consolare il mondo intero, perché il compito della Chiesa non è di operare la salvezza, ma di accoglierla etrasmetterla.
Una piccola comunità cosciente del mistero di Cristo, cosciente della sua presenza gratuita e ardente di amore per tutta l’umanità, cioè una comunità che vive la memoria del mistero pasquale, e la celebra, una piccola comunità cioè che vive veramente l’Eucaristia, consola il mondo infinitamente di più e meglio che un esercito di valorosi che pretendono salvare il mondo con le loro proprie idee e energie. Una piccola comunità di monache anziane, che umanamente parlando sta finendo, sta morendo, consola di più il mondo di una grande comunità fiorente che pensa di essere preziosa e feconda per quello che fa ed esprime, e per come fa ed esprime quello che fa.
Una missione nuova
Capiamo allora che di fronte alla crisi globale di tutto, anche della Chiesa, l’unica speranza per noi e per tutti è quella di accogliere il mandato di Cristo, il suo comandamento nuovo, quello che ha rivelato durante l’ultima Cena, prima di lasciare i suoi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri.” (Gv 13,34-35)
La parola “comandamento”, più che a un ordine da eseguire, ci richiamo all’idea di unamissione da compiere, da compiere assieme a Colui che manda. La missione che Cristo lascia ai suoi discepoli non è altro che il suo proprio amore, di vivere fra di loro l’amore che Lui ha vissuto con loro. La comunità cristiana è essenzialmente questo: un focolare dove continua ad ardere la fiamma dell’amore di Cristo. E ardendo nella comunità, il fuoco si propaga a tutti: “tutti sapranno che siete miei discepoli”. Non significa che tutti vedranno su di noi l’etichetta: “discepolo di Cristo”, come tutti gli spettatori vedono che tal calciatore brasiliano ha scritto sulla maglia: “I belong to Jesus”. Il mondo deve vedere che siamo discepoli vedendo l’amore fra di noi, vedendo la comunione fra di noi, l’esperienza di comunione che c’è fra di noi. Non è come vedere un’etichetta, ma come vedere un fuoco. Un’etichetta non condivide nulla, non trasmette nulla. Invece al fuoco ognuno può avvicinarsi per ricevere luce, calore, e addirittura per ricevere il fuoco stesso, per essere pure accesi da esso.
Per questo, quando ci troviamo davanti alla crisi globale del mondo, quando ci troviamo davanti alla crisi della Chiesa, che è spesso, come dice il Papa, una crisi di “mondanità”, cioè un entrare della crisi del mondo nella Chiesa, la domanda più giusta e prioritaria che dovremmo porci non è tanto “Cosa dobbiamo fare?”, ma “Che comunione in Cristo sono chiamato a vivere, ad intensificare, con chi mi sta vicino, per offrire al mondo, a questo mondo in crisi, a questa crisi del mondo, la compagnia attraverso la quale Cristo possa consolarlo, correggerlo, salvarlo?”
La speranza è credere che questa povera e fragile compagnia di persone povere e fragili è la risposta alla crisi globale del mondo e della storia. La crisi del mondo deve risvegliarci al valore della compagnia cristiana, che è un valore gratuito, donato tutto da Dio agli uomini. La crisi globale deve risvegliarci alla responsabilità di vivere fra di noi ciò che può consolare il mondo intero.
Mentre la cattedrale Notre-Dame di Parigi stava bruciando, due settimane fa, tutto il mondo è stato preso da una profonda tristezza, e da un senso di impotenza: si poteva solo guardare e soffrire a quello spettacolo. Era come per Maria e le altre donne il trovarsi di fronte alla Croce, di fronte all’agonia di Gesù in Croce, senza poter far null’altro che compatire in silenzio. Ma abbiamo visto che gruppi di persone, di fronte a quello spettacolo, si sono come spontaneamente riunite, in mezzo alla strada, per pregare insieme, per fare comunità di fronte a quella distruzione apparentemente senza speranza.
Questa immagine era molto simbolica di quello che è realmente avvenuto, e che nessuna immagine televisiva può mostrare: e cioè che la speranza, anche per il mondo che brucia, anche per la Chiesa che a volte sembra distrutta da un male occulto e inarrestabile come il fuoco, la speranza rimane viva nella comunione delle persone in Cristo, la speranza si salva nella comunità cristiana riunita in preghiera, riunita nella mendicanza della salvezza, ed è così che la speranza è sempre più forte di ogni distruzione, di ogni catastrofe, anche della morte.
Seminare comunione nel mondo
La storia della Chiesa è iniziata ed è sempre ripartita da semi di comunità, che hanno incarnato la presenza di Cristo mandato dal Padre nel dono dello Spirito Santo. Non c’è carisma nella Chiesa che non abbia messo radici nella comunione fraterna e che non abbia dato frutto se non nel diffondersi di una comunione aperta ad abbracciare tutti.
L’inizio è sempre un seme in cui tutto è già presente e donato. Un seme è come l’incarnazione della speranza, è la speranza che entra nel tempo e lo feconda. E nello stesso tempo, è la speranza che lancia il seme. Non c’è seminagione senza una speranza. La seminagione attua, realizza, incarna la speranza per il mondo intero. Solo la speranza permette di gettare il seme della parola di Dio, il seme della carità, il seme dell’accoglienza, insomma il seme della comunità, della Chiesa, con la coscienza che da questo piccolo gesto, dipende la salvezza del mondo.
Oggi, forse, Gesù cambierebbe un po’ la parola che ha detto un giorno provando compassione per le folle “perdute senza pastore” (Mt 9,36), cioè per la crisi di senso e di accompagnamento dell’umanità. Disse: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,37-38)
Forse oggi Gesù non direbbe che la messe è molta, ma che il deserto è immenso, e ci farebbe chiedere al Padre di mandare seminatori nel deserto del mondo a gettare il seme della compagnia cristiana che incarna la consolazione che libera il cuore dell’uomo e lo restituisce alla comunione umana e divina per cui è creato dalla Trinità.
Nell’immagine della mia Ordinazione presbiterale avevo messo una frase della Lumen Gentium che sempre mi rimane presente, perché esprime il compito e la speranza della Chiesa nel mondo e per il mondo, che è essenzialmente il compito e la speranza che il seme della comunione trinitaria che sperimenta e annuncia porti frutto coinvolgendo il mondo intero:
“Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro [come nei monasteri di san Benedetto: Ora et labora], affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell’universo.” (Lumen Gentium, 17)
L’opera della speranza cristiana è tutta in questa missione!