Edward Morgan Forster
Il ritratto fantascientifico del futuro dipinto da Edward Morgan Forster, pubblicato per la prima volta nel 1909, può essere sovrapposto al nostro presente con inquietante precisione. Una profezia che si sta compiendo?
L’aeronave
Immaginate, se potete, una piccola stanza, di forma esagonale, come la cella di un’ape. Non è illuminata né da finestre né da lampade, eppure è pervasa da una delicata luminescenza. Non ci sono aperture per la ventilazione, eppure l’aria è fresca. Non ci sono strumenti musicali, eppure nel momento in cui inizia questa mia meditazione, la stanza vibra di suoni melodiosi. Al centro c’è una poltrona con affianco un leggio, e questi sono tutti i mobili. E nella poltrona siede un ammasso di carne fasciata, una donna alta circa un metro e mezzo, con il volto bianco come un fungo. È a lei che appartiene la stanza.
Un campanello elettrico suonò. La donna toccò un interruttore e la musica cessò.
“Suppongo che devo vedere chi è,” pensò, e mise in movimento la sedia. La sedia, come la musica, era azionata da un macchinario e rullò sull’altro lato della stanza dove il campanello continuava a suonare inopportunamente.
“Chi è?” chiese. La sua voce erra irritata, perché era stata interrotta spesso da quando la musica era iniziata. Conosceva diverse migliaia di persone, sotto certi aspetti i rapporti umani erano migliorati enormemente. Ma quando portò il ricevitore all’orecchio, il suo volto bianco si increspò in un sorriso e disse: “Benissimo. Parliamo, ora mi isolo. Non mi aspetto che accada niente di importante per i prossimi cinque minuti. Perché posso darti al massimo cinque minuti, Kuno. Poi devo tenere la mia conferenza su “La musica durante il periodo australiano.” Toccò la manopola per l’isolamento, così che nessun altro potesse parlare con lei. Poi toccò il dispositivo per l’illuminazione e la piccola stanza fu sommersa dalle tenebre.
“Svelto!” Esclamò, mentre la sua irritazione ritornava. “Svelto, Kuno; sono qui nelle tenebre a sprecare il mio tempo.”
Ma questo succedeva solo quindici secondi prima che la piastra rotonda che reggeva tra le mani iniziasse ad illuminarsi. Una debole luce blu la attraversò, digradando verso il viola, e subito poté vedere l’immagine di suo figlio, che viveva dall’altra parte della terra, e lui poté vedere lei.
“Kuno, come sei lento.”
Egli sorrise mestamente.
“Mi sa proprio che ti piace gingillarti.”
“Ti ho chiamato prima, madre, ma eri sempre occupata o isolata. Ho qualcosa di molto speciale da dirti.”
“Di che si tratta, ragazzo mio? Veloce. Non potevi usare la posta pneumatica?”
“Perché una cosa del genere preferisco comunicartela a voce. Voglio…”
“Allora?”
“Voglio che tu venga a vedermi.”
Vashti guardò il volto del figlio nel disco blu.
“Ma io ti sto vedendo!” esclamò. “Che vuoi di più?”
“Non voglio vederti attraverso la Macchina,” disse Kuno. “Non voglio parlarti attraverso questa noiosa Macchina.”
“Oh, zitto!” disse la madre, vagamente spaventata. “Non devi dire niente contro la Macchina.”
“Perché no?”
“Non si deve.”
“Parli come se un dio avesse creato la Macchina,” gridò l’altro. “Credo che tu la preghi quando sei infelice. L’hanno creata gli uomini, non dimenticarlo. Grandi uomini, ma uomini. La Macchina è molto, ma non è tutto. In questo disco vedo qualcosa che ti rassomiglia, ma non vedo te. Per questo voglio che tu venga. Vieni a trovarmi, così che possiamo incontrarci faccia a faccia, e parlare delle speranze che nutro.”
La madre rispose che difficilmente poteva trovare il tempo per una visita.
“L’aeronave impiega appena due giorni per volare fino a me.”
“Non mi piacciono le aeronavi.”
“Perché?”
“Non mi piace vedere l’orribile terra marrone, e il mare, e le stelle quando è buio. Non mi vengono idee in una aeronave.”
“A me non vengono in nessun altro posto.”
“Che genere di idee ti può suggerire l’aria?”
Kuno fece una breve pausa.
“Conosci quattro grandi stelle che formano un rettangolo e tre stelle una vicina all’altra nel mezzo del rettangolo, e appese a queste altre tre stelle?”
“No. Non mi piacciono le stelle. Ma ti hanno suggerito qualche idea? Interessante, raccontami.”
“Mi venne l’idea che rassomigliassero ad un uomo.”
“Non capisco.”
“Le quattro stelle grandi sono le spalle e le ginocchia dell’uomo. Le tre stelle nel mezzo rassomigliano alle cinture che gli uomini indossavano un tempo, e le tre stelle che pendono giù rassomigliano ad una spada.”
“Una spada?”
“Gli uomini andavano in giro armati di spada, per uccidere animali e altri uomini.”
“L’idea non mi sembra così buona, ma è certamente originale. Quando ti è venuta la prima volta?”
“Nell’aeronave…” Si interruppe e la madre pensò che aveva un aspetto triste. Non poteva esserne sicura, perché la macchina non trasmetteva le sfumature di espressione. Dava solo un’idea generale della gente – un’idea che era abbastanza buona per tutti gli scopi pratici, Vashti pensò. L’imponderabile splendore, considerato da una filosofia screditata la vera essenza dei rapporti umani, era ignorato dalla Macchina, proprio come l’imponderabile freschezza dell’uva era ignorato dai produttori di frutta artificiale. L’ “abbastanza buono” era stato da lungo tempo accettato dalla razza umana.
“La verità è,” continuò Kuno, “che voglio rivedere quelle stelle. Sono delle strane stelle. Voglio vederle non dall’aeronave, ma dalla superficie della terra, come facevano i nostri antenati, migliaia di anni fa. Voglio visitare la superficie della terra.”
Vashti si spaventò di nuovo.
“Madre, devi venire, anche solo per spiegarmi perché è pericoloso visitare la superficie della terra.”
“Nessun pericolo,” rispose la donna, controllandosi. “Ma nessun vantaggio. La superficie della terra è solo polvere e fango, nessun vantaggio. La superficie della terra è solo polvere e fango, non vi rimane alcuna traccia di vita, e avresti bisogno di un respiratore, altrimenti il freddo dell’aria esterna ti ucciderebbe. Si muore immediatamente nell’aria esterna.”
“Lo so, naturalmente prenderò ogni precauzione.”
“E poi…”
“Allora?”
Vashti rifletté e scelse le parole con cura. Suo figlio aveva uno strano carattere, e lei voleva dissuaderlo da quella spedizione.
“E’ contrario allo spirito del tempo,” affermò.
“Vuoi dire, contrario alla Macchina?”
“In un certo senso, ma…”
La sua immagine nel disco blu svanì.
“Kuno!”
Si era isolato. Per un momento Vashti si sentì sola. Poi ripristinò l’illuminazione e la vista della sua stanza, inondata di luce e punteggiata di pulsanti elettrici, la rianimò. C’erano pulsanti e interruttori dappertutto – pulsanti per il cibo, per la musica, per gli abiti. C’era il pulsante per il bagno caldo, premendo il quale una vasca di (finto) marmo rosa sorgeva dal pavimento, colma fino all’orlo di un liquido caldo deodorato. C’era il pulsante per il bagno freddo. C’era il pulsante che produceva letteratura, e c’erano naturalmente i pulsanti per comunicare con i suoi amici. La stanza, sebbene non contenesse niente, era in contatto con tutti quelli che erano importanti per lei nel mondo.
La mossa successiva di Vashti fu di spegnere il pulsante dell’isolamento e tutte le chiamate accumulatesi negli ultimi tre minuti le piovvero addosso. La stanza si riempì del rumore dei campanelli e dei tubi parlanti. Com’era il nuovo cibo? Lo raccomandava? Le erano venute delle idee di recente? Era possibile raccontarle le proprie idee? Poteva fissare un appuntamento per visitare gli asili pubblici al più presto? – diciamo tra un mese esatto.
Alla maggior parte di quelle domande rispose con irritazione – una qualità sempre più comune in quell’età accelerata. Disse che il nuovo cibo era orribile. Che non poteva visitare gli asili pubblici a causa di pressanti impegni. Che non aveva idee sue ma che gliene era stata appena raccontata una – che quattro stelle più tre nel mezzo rassomigliavano ad un uomo: dubitava che valesse molto. Quindi interruppe la comunicazione con i suoi corrispondenti, perché era tempo di tenere la sua conferenza sulla musica australiana.
Il maldestro sistema delle riunioni pubbliche era stato abbandonato da molto tempo; né Vashti né il suo pubblico si muovevano dalle loro stanze. Seduta nella sua poltrona parlava, mentre gli altri nelle loro poltrone la ascoltavano, abbastanza bene, e la vedevano abbastanza bene. Iniziò con una spiritosa dissertazione sulla musica del periodo pre-mongolico, e proseguì descrivendo la grande fioritura di canzoni che seguì alla conquista cinese. Sebbene i metodi di I-San-So e della scuola di Brisbane fossero antichi e primitivi, lei riteneva (disse) che il loro studio poteva essere appagante per i musicisti contemporanei: avevano freschezza, soprattutto, avevano idee. La sua conferenza, che durò dieci minuti, fu ben accolta, e dopo, insieme a molti del suo pubblico, ascoltò una conferenza sul mare; si potevano ricavare idee dal mare; lo speaker aveva indossato un respiratore e lo aveva visitato di recente. Quindi si nutrì, conversò con molti amici, fece un bagno, ebbe altre conversazioni, e chiamò il letto.
Il letto non era di suo gusto. Era troppo largo, e a lei sarebbe piaciuto un letto piccolo. Lamentarsi era inutile, perché i letti erano della stessa dimensione in tutto il mondo, e ottenere una misura alternativa avrebbe implicato vaste alterazioni nella Macchina. Vashti si isolò. Era necessario, perché sotto terra non esisteva né il giorno né la notte – e ricapitolò tutto quello che era successo da quando era andata a letto l’ultima volta. Idee? Quasi nessuna. Avvenimenti – l’invito di Kuno era un avvenimento? Accanto a lei, sul piccolo leggio, c’era quello che era sopravvissuto all’età dei rifiuti – un libro. Era Il Libro della Macchina. Conteneva le istruzioni contro ogni possibile contingenza. Se aveva caldo o freddo o aveva mal di stomaco o le mancavano le parole, consultava il Libro e quello le diceva quale pulsante premere. Era stato il Comitato Centrale a pubblicarlo. Secondo un’usanza sempre più diffusa, era riccamente rilegato. Seduta nel letto, lo prese in mano con reverenza. Guardò intorno alla stanza luminosa come se qualcuno potesse osservarla. Poi, a metà piena di vergogna, a metà colma di gioia, mormorò “O Macchina!” e si portò il volume alle labbra. Tre volte lo baciò, tre volte chinò la testa, tre volte sentì il delirio della sottomissione. Completato il suo rituale, ritornò a pagina 1367, che dava gli orari di partenza delle aeronavi dall’isola nell’emisfero meridionale, nel cui sottosuolo viveva, all’isola nell’emisfero settentrionale, nel cui sottosuolo viveva suo figlio.
“Non ho tempo,” pensò.
Oscurò la stanza e dormì; si svegliò e illuminò la stanza; mangiò e scambiò idee con i suoi amici, e ascoltò musica e seguì conferenze; oscurò la stanza e dormì. Su di lei, sotto di lei, e intorno a lei, la macchina ronzava eternamente, lei non faceva caso al rumore, perché era nata con quel rumore nelle orecchie. La terra, mentre la trasportava, ronzava ruotando vorticosamente nel silenzio, e ora la girava verso il sole invisibile, ora verso le stelle invisibili. Si svegliò e illuminò la stanza.
“Kuno!”
“Non parlerò con te,” le rispose, “finché non vieni.”
“Sei stato sulla superficie della terra a quando ci siamo parlarti l’ultima volta?”
La sua immagine sparì.
Vashti consultò di nuovo il Libro. Divenne molto nervosa e si adagiò tutta palpitante nella poltrona. Immaginatela senza denti e senza capelli. Subito dopo diresse la sedia verso la parete e premette un pulsante insolito. La parete si aprì lentamente. Attraverso l’apertura vide un tunnel che curvava leggermente, così che non era possibile vederne la fine. Se doveva andare da suo figlio, era lì che iniziava il suo viaggio. Naturalmente sapeva tutto sul sistema di comunicazione. Non c’era niente di misterioso al riguardo. Avrebbe chiamato un’automobile che l’avrebbe portata in volo lungo il tunnel fino a raggiungere l’ascensore che comunicava con la stazione aeronavale: il sistema era stato in uso per tanti, tanti anni, molto prima dell’insediamento universale della Macchina. E lei naturalmente aveva studiato la civiltà che aveva immediatamente preceduto la sua – la civiltà che aveva confuso le funzioni del sistema e lo aveva usato per portare le persone alle cose, invece di portare le cose alle persone. Quei ridicoli tempi andati, quando gli uomini uscivano per cambiare aria, invece di cambiare l’aria delle loro stanze! Eppure, aveva paura del tunnel: non lo aveva visto da quando era nato il suo ultimo figlio. Si incurvava, ma meno di quanto si ricordasse; era luminoso, ma meno luminoso di quello che aveva detto un conferenziere. Vashti fu presa dal terrore dell’esperienza diretta. Si ritrasse nella stanza e la parete si richiuse.
“Kuno,” disse, “Non posso venire da te. Non mi sento bene.”
Immediatamente dal soffitto le calò addosso un enorme apparato, le fu automaticamente applicato un termometro sul cuore. La donna era senza forze. Dei tamponi freddi le rinfrescarono la fronte. Kuno aveva telegrafato al suo dottore.
Così le passioni umane continuavano a vagare su e giù per la Macchina. Vashti bevve la medicina che il dottore le portò alla bocca, e il macchinario si ritirò nel soffitto. Si sentì la Voce di Kuno chiederle come stava.
“Meglio.” Poi con fare irritato; “Ma perché non vieni tu da me, invece?”
“Perché non posso lasciare questo posto.”
“Perché?”
“Perché, in qualunque momento, può accadere qualcosa di tremendo.”
“Sei già stato sulla superficie della terra?”
“Non ancora.”
“Allora cosa c’è?”
“Non voglio dirlo attraverso la Macchina.”
Lei riprese la sua vita.
Ma pensava a Kuno quando era bambino, alla sua nascita, al suo trasferimento negli asili pubblici, a lei che andava a fargli visita, a lui che veniva farle visita – visite che terminarono quando la Macchina gli assegnò una stanza dall’altra parte della terra. “Genitori, doveri dei,” diceva il libro della Macchina, “cessano al momento della nascita. P. 422327483.” Era vero, ma Kuno aveva qualcosa di speciale. In effetti tutti i suoi figli avevano avuto qualcosa di speciale – e, dopo tutto, doveva affrontare il viaggio se lui lo desiderava.
E “Qualcosa di tremendo può succedere”. Cosa voleva dire? Le fantasticherie di un giovane uomo, senza dubbio, ma doveva andare. Premette di nuovo quell’insolito pulsante, di nuovo la parete si aprì, e vide il tunnel che curvava a perdita d’occhio. Stringendo il libro, si alzò, barcollò fino alla piattaforma e chiamò l’automobile. La stanza si chiuse dietro di lei: il suo viaggio verso l’emisfero settentrionale era iniziato.
Naturalmente tutto fu estremamente semplice. L’automobile si avvicinò e dentro c’erano delle poltrone esattamente uguali alle sue. Al suo segnale, si fermò e Vashti barcollò fino all’ascensore. Nell’ascensore c’era un altro passeggero, il primo essere umano che avesse visto faccia a faccia da mesi. A quei tempi viaggiavano in pochi, perché, grazie al progresso della scienza, la terra era esattamente uguale dappertutto. Le comunicazioni rapide, su cui tanto aveva contato la civiltà precedente, avevano finito con lo sconfiggere se stesse. Perché andare a Pechino quando questa era proprio uguale a Shrewsbury? Perché ritornare a Shrewsbury quando tutto era uguale a Pechino? Gli uomini raramente muovevano i loro corpi, tutta l’azione era concentrata nell’anima.
Il servizio aeronavale era un cimelio dell’età precedente. Era stato mantenuto perché era più semplice mantenerlo che fermarlo o ridurlo, ma ora eccedeva enormemente i bisogni della popolazione. Vascello dopo vascello si levavano dai vomitori di Rye o Christchurch (uso gli antichi nomi), navigavano nei cieli affollati, e arrivavano alle banchine del sud – vuoti. Il sistema era organizzato in modo così accurato, così indipendente dalla meteorologia, che il cielo, sereno o nuvoloso, rassomigliava ad un enorme caleidoscopio dove periodicamente si ripetevano gli stessi schemi. La nave su cui viaggiava Vashti partiva al tramonto o all’alba. Ma comunque, mentre sorvolava Rheas, passava sempre vicino alla nave che faceva servizio tra Helsingfors e il Brasile, e una volta su tre, quando oltrepassava le Alpi, la flotta di Palermo attraversava la sua scia. La notte o il giorno, la pioggia o il vento, alluvioni o terremoti, non erano più un impedimento. L’uomo aveva imbrigliato il Leviatano. Tutta l’antica letteratura, con il suo culto della Natura, e la sua paura della Natura, suonava falsa come il sonaglio di un bambino.
Tuttavia quando Vashti vide il fianco della nave, segnato dall’esposizione all’atmosfera esterna, il suo orrore per l’esperienza diretta ritornò. Non era come vedere l’aeronave nel videofono. Prima di tutto aveva un odore – non era né forte né spiacevole, ma si sentiva, e anche ad occhi chiusi avrebbe potuto capire di essere vicina ad una cosa nuova. Poi dovette uscire dall’ascensore e avviarsi verso la nave e sopportare gli sguardi degli altri passeggeri. L’uomo davanti a lei fece cadere il suo Libro – niente di grave, ma li mise tutti in ansia. Nelle stanze, se il Libro cadeva, il pavimento lo sollevava meccanicamente, ma la passerella verso l’aeronave non era predisposta e il sacro volume giaceva immobile. Si fermarono – la cosa non era stata prevista – e l’uomo invece di raccogliere l’oggetto di sua proprietà, si toccò i muscoli del braccio per capire come mai lo avessero tradito. Poi incredibilmente qualcuno parlò rivolgendosi a loro direttamente: “Faremo tardi” – e tutti marciarono a bordo, e Vashti calpestò le pagine del Libro mentre avanzava.
Dentro, la sua ansia aumentò. L’organizzazione era vecchia e rozza. C’era perfino un’assistente, a cui avrebbe dovuto comunicare i suoi bisogni durante il viaggio. Naturalmente, lungo tutta la nave scorreva una piattaforma mobile, ma dovette camminare dalla piattaforma alla cabina. Alcune cabine erano migliori delle altre, e lei non ottenne la migliore. Pensò che l’assistente non era stata corretta, e fu scossa da fitte di rabbia. I portelli di vetro si erano chiusi, non poteva più tornare indietro. Alla fine del vestibolo vide l’ascensore con cui era venuta salire e scendere silenziosamente senza nessuno dentro. Sotto quei corridoi rivestiti di mattonelle lucenti c’erano stanze, che livello dopo livello sprofondavano nelle viscere della terra, e in ogni stanza sedeva un essere umano, che mangiava o dormiva o produceva idee. E seppellita in fondo a quell’alveare c’era la sua stanza. Vashti era spaventata.
“O Macchina!” mormorò e accarezzò il suo Libro e ne fu confortata.
Poi i lati del vestibolo sembrarono fondersi insieme – come succede ai corridoi che vediamo in sogno – l’ascensore svanì, il Libro che era caduto scivolò verso sinistra e svanì, le mattonelle lucenti presero a scorrere come un corso d’acqua, ci fu un leggero sussulto e l’aeronave, uscendo dal suo tunnel, si alzò in volo sulle acque di un oceano tropicale.
Era notte. Per un momento vide la costa di Sumatra lambita da onde fosforescenti e coronata di fari che ancora lanciavano i loro inutili segnali luminosi. Anche questi svanirono e rimasero solo le stelle a distrarla. Non erano immobili, ma ondeggiavano avanti e indietro sulla sua testa, passando da un lucernario all’altro, come se l’intero universo e non l’aeronave stesse viaggiando a tutta velocità. E, come spesso succede nelle notti serene, a volte apparivano in prospettiva, a volte su un piano, ora una fila si sovrapponeva all’altra nei cieli infiniti, ora, celando l’infinito, formavano un tetto che limitava per sempre le visioni degli uomini. In ogni caso, sembravano intollerabili. “Dobbiamo stare al buio?” gridarono i passeggeri rabbiosamente, e l’assistente, che era stata negligente, fece luce e tirò giù le tendine di metallo pieghevole. Quando le aeronavi erano state costruite, il desiderio di guardare le cose direttamente era ancora presente nel mondo. Da lì lo straordinario numero di lucernari e finestre, e il relativo disagio per coloro che erano civilizzati e raffinati. Anche nella cabina di Vashti una stella faceva capolino attraverso una fessura nella tenda, e dopo qualche ora di sonno agitato, fu disturbata da un’insolita luminosità, che non era altro che l’alba.
Mentre la nave era andata velocemente verso ovest, la terra aveva ruotato verso est ancora più velocemente, e si era tirata dietro Vashti e i suoi compagni verso il sole. La scienza poteva prolungare la notte, ma solo di poco, e le grandi speranze di neutralizzare la rivoluzione diurna della terra erano svanite, insieme a speranze possibilmente ancora più alte. “Stare al passo con il sole,” o perfino superarlo, era stato l’obbiettivo della precedente civiltà. A questo scopo erano stati costruiti aeroplani da corsa, capaci di enormi velocità, e sotto il controllo delle più grandi menti dell’epoca.
Girarono intorno alla terra, ancora e ancora, sempre più ad ovest, ancora e ancora, tra gli applausi dell’umanità. In vano. Il globo andava verso est ancora più in fretta, ci furono terribili incidenti, e il Comitato della Macchina, che in quel tempo stava salendo alla ribalta, dichiarò quell’attività illegale, non-meccanica e punibile con l’Esilio*. Dell’Esilio parleremo in seguito.
Senza dubbio il Comitato aveva ragione. Tuttavia il tentativo di “sconfiggere il sole” suscitò l’ultimo interesse comune che la nostra razza provò per i corpi celesti, o meglio per qualcosa. Era l’ultima volta che gli uomini fossero stati unti dal pensiero di una forza esterna alla Terra. Il sole aveva vinto, ma fu la fine del suo dominio spirituale. L’alba, il mezzogiorno, il tramonto, il movimento dello zodiaco, non toccavano né le vite degli uomini, né i loro cuori, e la scienza si ritirò nel sottosuolo, per concentrarsi su problemi che era certa di risolvere.
Così quando Vashti trovò la sua cabina invasa dalle dita rosate della luce, ne fu seccata, e provò a sistemare la tendina. Ma la tendina si aprì completamente, e attraverso il lucernario vide delle nuvolette rosa, che dondolavano contro uno sfondo blu, e mentre il sole scivolava sempre più in alto, il suo fulgore entrava prepotente, scendendo lungo la parete, come un mare dorato. Saliva o scendeva assecondando il movimento della nave, proprio come salgono e scendono le onde, ma avanzava senza sosta, come la marea. Se non fosse stata attenta l’avrebbe colpita al volto. Uno spasmo d’orrore la fece tremare e suonò per chiamare l’assistente. La stessa assistente era terrorizzata, ma non poté fare niente: non era compito suo riparare la tendina. Poteva solo suggerire alla signora di cambiare cabina, cosa che lei si apprestò subito a fare.
La gente era più o meno la stessa in tutto il mondo, ma l’assistente dell’aeronave, forse a causa dei suoi eccezionali compiti, era un po’ fuori dal comune. Doveva spesso rivolgersi ai passeggeri direttamente, e questo aveva reso le sue maniere alquanto rozze e originali. Quando Vashti barcollò via dai raggi del sole con un urlo, questa si comportò in modo barbaro – allungò la mano per sorreggerla.
“Come osate!” esclamò la passeggera. “Vi state comportando in modo indecoroso!”
La donna era confusa, e si scusò per non averla lasciata cadere. Le persone non toccavano mai gli altri. Quell’abitudine era diventata obsoleta, grazie alla Macchina.
“Dove siamo adesso?” chiese Vashti con voce sprezzante.
“Siamo sull’Asia,” disse l’assistente, ansiosa di mostrarsi educata.
“Asia?”
“Dovete scusare il mio linguaggio grossolano. Ho preso l’abitudine di chiamare i posti su cui passiamo con i loro nomi non-meccanici.”
“Oh, ricordo l’Asia. I mongoli venivano da lì.”
“Sotto di noi, all’aperto, c’era una città una volta chiamata Simla.”
“Avete mai sentito parlare dei mongoli e della scuola di Brisbane?”
“No.”
“Anche Brisbane era all’aperto.”
“Quelle montagne sulla destra – permettete che ve le mostri.” Sollevò una tendina metallica. La principale catena dell’Himalaya fu svelata.” Quelle montagne una volta erano chiamate il tetto del mondo.
“Dovete ricordare che, prima dell’alba della civiltà, sembravano un impenetrabile muro che arrivava alle stelle. Si credeva che nessuno, se non gli dei, potesse esistere su quelle vette. Quanto progresso abbiamo fatto, grazie alla Macchina!”
“Quanto progresso abbiamo fatto, grazie alla Macchina!” disse Vashti.
“Quanto progresso abbiamo fatto, grazie alla Macchina!” le fece eco il passeggero che aveva fatto cadere il suo Libro la notte precedente, e che era in piedi nel corridoio.
“E quella cosa bianca nei crepacci? – che cos’è?”
“Ho dimenticato come si chiama.”
“Coprite la finestra, per favore. Le montagne non mi danno idee.”
Il lato nord dell’Himalaya era coperto da una fitta ombra: sul versante indiano il sole aveva appena prevalso. Le foreste erano state distrutte durante l’epoca della letteratura per ricavarne carta da giornali, ma le nevi si stavano risvegliando nella gloria del mattino, e le nuvole indugiavano ancora sulle creste del Kinchinjunga. Nella pianura si potevano vedere le rovine delle città, con magri fiumi che crepitavano intorno alle loro mura, e accanto a quelle rovine a volte si potevano vedere i segni di vomitori, ad indicare le città moderne. Su tutta l’area sfrecciavano le aeronavi, attraversando i punti di intersezione con incredibile disinvoltura, e guadagnando quota con nonchalance quando desideravano sfuggire alle perturbazioni della bassa atmosfera e attraversare il tetto del mondo.
“Abbiamo fatto tanto progresso, grazie alla Macchina,” ripeté l’assistente, e nascose l’Himalaya dietro la tendina di metallo.
Il giorno avanzò stancamente. I passeggeri sedevano ognuno nella propria cabina, evitandosi l’un l’altro con una repulsione quasi fisica e desiderando ardentemente di essere ancora una volta sotto la superficie della terra. Fra di loro ce n’erano otto o dieci, soprattutto giovani maschi, mandati via dai pubblici asili per andare ad abitare nelle stanze di quelli che erano morti nelle varie parti della terra. L’uomo che aveva fatto cadere il suo Libro era in viaggio verso la sua dimora. Era stato mandato a Sumatra con lo scopo di perpetuare la razza. Vashti solo stava viaggiando per motivi personali.
A mezzogiorno diede una seconda occhiata alla terra. L’aeronave stava attraversando un’altra catena montuosa, ma poté vedere poco, a causa delle nuvole. Masse di roccia nera volteggiavano sotto di lei, sfumando impercettibilmente nel grigio. Le loro forme erano fantastiche, una rassomigliava ad un uomo prostrato.
“Nessuna idea qui,” mormorò Vashti, e nascose il Caucaso dietro la tendina di metallo.
A sera guardò di nuovo. Stavano attraversando un mare dorato, dove si potevano vedere tante isolette e una penisola. La donna ripeté, “Nessuna idea qui,” e nascose la Grecia dietro la tendina di metallo.
IL SISTEMA DI MANUTENZIONE
Attraverso un vestibolo, un ascensore, una ferrovia tubolare, una piattaforma, una porta scorrevole, percorrendo a ritroso i passi della partenza, Vashti arrivò alla stanza del figlio, che era perfettamente uguale alla sua. Poteva ben dire che quella visita era superflua. I pulsanti, le manopole, il leggio con il Libro, la temperatura, l’atmosfera, l’illuminazione – ogni cosa era esattamente la stessa. E se lo stesso Kuno, carne della sua carne, alla fine era accanto a lei, qual era il vantaggio? Era troppo ben educata per stringergli la mano.
Distogliendo gli occhi, disse queste esatte parole: “Eccomi. Ho fatto il più terribile dei viaggi e ho ritardato terribilmente lo sviluppo della mia anima. Non ne vale la pena, Kuno, non ne vale la pena. Il mio tempo è troppo prezioso. La luce del sole mi ha quasi toccata e ho incontrato la gente più rozza. Posso fermarmi solo qualche minuto. Dimmi quello che devi dirmi, e poi devo andare.”
“Sono stato minacciato di Esilio,” disse Kuno.
Questa volta lei lo guardò.
“Sono stato minacciato di Esilio, e non potevo dirti una cosa del genere attraverso la Macchina.”
Esilio significava morte. La vittima viene esposta all’aria, che la uccide.
“Sono andato all’esterno da quando ti ho parlato l’ultima volta. Questa cosa tremenda è successa e mi hanno scoperto.”
“Ma perché non avresti dovuto andare all’esterno?” Esclamò la madre, “è perfettamente legale, perfettamente meccanico, visitare la superficie della terra. Ultimamente sono stata ad una conferenza sul mare, non c’è stata nessuna obbiezione, basta solo chiedere un respiratore e ottenere un permesso d’uscita. Non è il genere di cose che le persone con una mente spirituale fanno, e io ti ho pregato di non farlo, ma non c’è nessuna obbiezione legale.”
“Io non ho ottenuto un permesso d’uscita.”
“E come hai fatto ad andare all’esterno?”
“Per conto mio.”
La frase non aveva alcun senso per lei, e Kuno dovette ripeterla.
“Per conto tuo?” mormorò Vashti. “Ma questo dovrebbe essere sbagliato.”
“Perché?”
La domanda la scosse oltre ogni misura.
“Stai iniziando a venerare la Macchina,” le disse freddamente.
“Tu pensi che non sia religioso da parte mia aver trovato la strada da solo. E’ proprio quello che pensavano i membri del Comitato, quando mi hanno minacciato di Esilio.”
Al che lei si arrabbiò.
“Io non venero niente!” gridò. “Sono una persona estremamente evoluta. Io non penso che tu non sia religioso, perché una cosa come la religione non esiste più. Tutte le paure e le superstizioni che esistevano una volta sono state distrutte dalla Macchina. Volevo solo dire che trovare una strada per conto tuo è stato…. Inoltre non ci sono nuove vie d’uscita.”
“Questo è quello che abbiamo sempre creduto.”
“Se non attraverso i vomitori, e per questo c’è bisogno di un permesso d’uscita, è impossibile andare in superficie altrimenti. Questo dice il Libro.”
“Allora il Libro ha torto, perché io sono andato fuori con i miei piedi.”
Kuno, infatti, possedeva una certa forza fisica.
A quei tempi era un demerito essere atletici. Ogni bambino veniva esaminato alla nascita, e tutti quelli che promettevano una forza fisica inappropriata venivano distrutti. Gli umanitari potevano protestare, ma non sarebbe stato veramente umano lasciar vivere un atleta, non sarebbe mai stato felice nel genere di vita a cui lo aveva destinato la Macchina; avrebbe desiderato invano alberi su cui arrampicarsi, fiumi in cui nuotare, prati e colline su cui mettere alla prova il proprio corpo. L’uomo deve essere adatto al proprio ambiente, non è così? All’alba del mondo gli individui più deboli dovevano essere esposti sul monte Taigeto, al suo tramonto la nostra forza d’animo tollererà l’eutanasia, che la Macchina possa progredire, che la Macchina possa progredire, che la Macchina possa progredire eternamente.
“Come sai abbiamo perso il senso dello spazio. Diciamo “lo spazio è annullato”, ma noi non abbiamo annullato lo spazio, ma il senso dello spazio. Abbiamo perso una parte di noi stessi. Decisi di riappropriarmene e iniziai a camminare su e giù lungo la piattaforma della ferrovia fuori dalla mia stanza. Su e giù, fino a stancarmi, e così recuperai il significato di “vicino” e “lontano”. “Vicino” è un posto dove posso arrivare velocemente a piedi, non un posto dove il treno o l’aeronave mi portano velocemente. “Lontano” è un posto dove non posso arrivare velocemente a piedi, il vomitorio è “lontano”, anche se posso arrivarci in trentotto secondi con il treno. L’uomo è la misura. Questa è stata la mia prima lezione. I piedi dell’uomo sono la misura per la distanza, le sue mani sono la misura per la quantità, il suo corpo è la misura per tutto ciò che è amabile e desiderabile e forte. Poi sono andato oltre: è stato allora che ti ho chiamato per la prima volta, e tu no sei voluta venire.
“Questa città, come sai, è costruita nelle profondità della terra, e solo i vomitori fuoriescono. Dopo aver percorso la piattaforma fuori dalla mia camera, presi l’ascensore alla piattaforma successiva e percorsi anche quella, e via via tutte le altre, finché arrivai a quella superiore, sopra cui inizia la terra. Le piattaforme sono tutte perfettamente uguali, e tutto ciò che ho guadagnato visitandole è stato il mio senso dello spazio e i miei muscoli. Penso che avrei dovuto accontentarmi di questo – non è poca cosa. Ma mentre camminavo e riflettevo, mi venne in mente che le nostre città erano state costruite nei giorni in cui gli uomini ancora respiravano l’atmosfera esterna, e che ci dovevano essere stati condotti di ventilazione per gli operai.
Non riuscivo a pensare a niente altro che ai condotti di ventilazione. Erano forse stati distrutti dai tubi per il cibo e i tubi per le medicine e i tubi per la musica – tubi che la Macchina ha sviluppato negli ultimi tempi? O ne rimanevano tracce? Una cosa era certa. L’unico posto in cui avrei potuto trovarli erano i tunnel del livello superiore. In qualunque altro posto, tutto lo spazio era stato occupato.
“Ti sto raccontando la mia storia velocemente, ma non pensare che non abbia avuto paura o che le tue risposte non mi abbiano mai depresso. Questa non è la cosa giusta, non è meccanico, non è decente camminare lungo il tunnel ferroviario. Non avevo paura di calpestare un binario elettrificato e di essere ucciso. Temevo qualcosa di molto più intangibile – fare ciò che non è contemplato dalla Macchina. Poi mi sono detto: “L’uomo è la misura”, e sono andato, e dopo molte visite ho trovato un’apertura.
“I tunnel, naturalmente, erano illuminati. C’è luce dappertutto, luce artificiale; il buio è l’eccezione. Così quando vidi uno spazio nero tra le piastrelle, sapevo che era un’eccezione, e ne gioii. Vi infilai dentro il braccio – all’inizio non potevo fare di più – e lo girai tutto intorno estasiato. Tolsi un’altra mattonella, e infilai la testa e gridai alle tenebre: “Verrò da voi, ci riuscirò malgrado tutto,” e la mia voce riecheggiò giù per gli infiniti passaggi. Mi sembrava di sentire gli spiriti di quegli operai morti che ogni sera erano ritornati alla luce delle stelle e alle loro mogli, e tutte le generazioni che erano vissute all’aperto mi rispondevano, “Ci riuscirai malgrado tutto, verrai da noi.”
Si fermò, e, per quanto le sembrasse assurdo, le sue ultime parole la commossero.
Perché Kuno di recente aveva chiesto di essere padre e la sua richiesta era stata rifiutata dal Comitato. Non era il tipo di individuo che la Macchina desiderasse tramandare.
“Poi passò un treno. Mi sfiorò, ma infilai la testa e le braccia nel buco. Avevo fatto abbastanza per un solo giorno, così mi trascinai di nuovo verso la piattaforma, e andai giù con l’ascensore e chiesi il mio letto. Ah, che sogni! E ti chiamai di nuovo, e tu di nuovo mi dicesti di no.”
Vashti scosse la testa e disse:
“Non devi. Non devi parlare di queste cose terribili. Mi rendi triste. Tu stai buttando via la civiltà.”
“Ma io ho recuperato il senso dello spazio e dopo di che un uomo non può stare fermo. Decisi di entrare attraverso il buco e risalire il condotto. E così esercitai le braccia. Giorno dopo giorno facevo dei ridicoli movimenti, finché la carne era dolorante, e riuscii a stare appeso per le mani e a reggere il cuscino del mio letto con le braccia tese per molti minuti. Quindi chiesi un respiratore e partii.
“All’inizio fu facile. La malta era come marcita, e in poco tempo spinsi dentro altre mattonelle e strisciai dietro di loro nelle tenebre, e gli spiriti dei morti mi confortarono. Non so cosa questo significhi esattamente. Dico solo quello che sentivo. Per la prima volta sentivo che una protesta contro la corruzione era stata lanciata, e che proprio come i morti stavano confortando me, io stavo confortando quelli che ancora dovevano nascere. Sentivo che l’umanità esisteva, e che esisteva senza indumenti. Come potrei spiegartelo?
Era nuda, l’umanità sembrava nuda, e tutti quei tubi e pulsanti e macchinari non sono venuti al mondo con noi, né verranno via con noi, e nemmeno sono di suprema importanza mentre siamo qui. Se fossi stato forte, avrei stracciato i miei indumenti e sarei uscito all’aperto senza fasciatura. Ma questo non è per me, e forse neanche per la mia generazione. Andai su con il mio respiratore e i miei abiti igienici e le mie compresse dietetiche! Meglio in quel modo che niente affatto.
“C’era una scala, fatta di un materiale primitivo. La luce proveniente dalla ferrovia cadeva sui pioli più bassi e vidi che sbucava dalle macerie in fondo al condotto e che conduceva verso l’alto. Forse i nostri antenati andavano su e giù una dozzina di volte al giorno, durante la costruzione. Mentre salivo, i bordi scabrosi mi tagliarono attraverso i guanti, facendomi sanguinare le mani. La luce per un po’ mi aiutò, e poi arrivò il buio e, peggio ancora, il silenzio che mi penetrava le orecchie come una spada. La Macchina ronza! Lo sapevi? Il suo ronzio ci entra nel sangue, e potrebbe perfino guidare i nostri pensieri. Chi lo sa! Io stavo andando oltre il suo potere. Poi pensai: “Questo silenzio significa che sto sbagliando.” Ma nel silenzio sentivo delle voci, e di nuovo mi diedero forza.” Rise: “Ne avevo bisogno. Un attimo dopo battei la testa contro qualcosa.”
Vashti sospirò.
“Avevo raggiunto uno di quei tombini pneumatici che ci difendono dall’atmosfera esterna. Forse li hai notati dall’aeronave. Buio pesto, i miei piedi sui pioli di una scala invisibile, le mie mani ferite; non so spiegarti come sono sopravvissuto a questa parte del viaggio, ma le voci continuavano a confortarmi, e con le mani cercai le chiusure. Credo che il tombino avesse un diametro di circa due metri e mezzo. Con la mano lo toccai tutto intorno fin dove potevo arrivare. Era perfettamente liscio. Arrivai quasi al centro. Non proprio al centro, perché il mio braccio era troppo corto. Poi la voce disse: “Salta. Ne vale la pena. Può esserci una maniglia al centro e tu puoi afferrarla e così venire da noi a modo tuo. E se non ci fosse nessuna maniglia, e tu cadessi e ti sfracellassi – ne varrebbe ancora la pena: anche così verrai da noi a modo tuo.” Così saltai. La maniglia c’era, e…”
Si fermò. Gli occhi della madre erano umidi di lacrime. Sapeva che il destino del figlio era segnato. Se non fosse morto oggi, sarebbe morto domani. Al mondo non c’era spazio per una persona come lui. E alla pietà si mescolò il disgusto. Si vergognava di aver messo al mondo un tale figlio, lei che era sempre stata così rispettabile e piena di idee. Era proprio lui il ragazzino a cui aveva insegnato come usare interruttori e pulsanti, e a cui aveva insegnato i primi rudimenti del Libro? La stessa peluria che sfigurava il suo labbro era la prova che stava regredendo verso un carattere selvaggio. La Macchina non poteva avere alcuna pietà dell’atavismo.
“C’era una maniglia, e io l’afferrai. Penzolai come in trance nelle tenebre e sentii il ronzio di questi meccanismi come l’ultimo brusio di un sogno che muore. Tutte le cose che mi erano state care e tutte le persone a cui avevo parlato attraverso i tubi mi sembrarono infinitamente piccole. Nel frattempo la maniglia ruotò. Il mio peso aveva messo in moto qualcosa e io girai lentamente, e poi…
“Non riesco a descriverlo. Mi trovai disteso con la faccia al sole. Mi usciva sangue dal naso e dalle orecchie e sentii un fragore tremendo. Il tombino, ed io con esso, era stato semplicemente catapultato fuori dalla terra, e l’aria che viene prodotta qua giù stava fuoriuscendo dal foro nell’atmosfera esterna. Zampillava come una fontana. Strisciai verso il bordo – perché l’aria esterna è dolorosa – e, per così dire – ne presi delle grandi sorsate. Il mio respiratore era volato chi sa dove, i miei abiti erano laceri. Ero semplicemente disteso con la bocca vicino alla colonna d’aria, e ne bevvi finché l’emorragia cessò. Non si può immaginare niente di più strano. L’avvallamento nell’erba – te ne parlerò tra un attimo – illuminato dal sole, non intensamente ma attraverso nubi marezzate – la pace, la nonchalance, il senso dello spazio e la fragorosa fontana della nostra aria artificiale che mi sfiorava le guance! Subito dopo vidi il mio respiratore che saltellava su giù nella corrente d’aria sopra la mia testa, e ancora più in alto c’erano molte aeronavi. Ma nessuno guarda mai fuori dalle aeronavi, e in ogni caso non avrebbero potuto individuarmi. Giacevo là, arenato. Il sole illuminava un breve tratto del condotto e faceva vedere il piolo superiore della scala, ma era inutile tentare di raggiungerlo. Avrei potuto essere ributtato fuori dalla fuga d’aria, oppure cadere dentro e morire. Potevo solo rimanere disteso sull’erba, continuare a sorseggiare e a guardarmi intorno di tanto in tanto.
“Sapevo di trovarmi nel Wessex, perché avevo preso la precauzione di andare ad una conferenza sull’argomento prima di partire. Il Wessex si trova sopra la stanza in cui ora stiamo parlando. Una volta era uno stato importante. I suoi re dominavano su tutta la costa meridionale dall’Andredswald alla Cornovaglia, mentre il terrapieno di Wansdyke li proteggeva a nord, correndo sopra l’altopiano. Il conferenziere era interessato solo alla nascita del Wessex, così non so per quanto tempo rimase una potenza internazionale, né il saperlo mi sarebbe stato di aiuto. A dire la verità, in quella situazione non riuscivo a fare altro che ridere. C’ero io, con un tombino pneumatico accanto a me e un respiratore che saltellava sopra la mia testa, tutti e tre imprigionati in un avvallamento ricoperto d’erba e circondato da felci.”
Poi diventò di nuovo serio.
“Era una fortuna per me che quello fosse un avvallamento. Perché l’aria stava iniziando a ricaderci dentro e a riempirlo come l’acqua riempie una scodella. Riuscivo a trascinarmi in giro. Dopo un po’ mi alzai. Respiravo un miscuglio in cui l’aria che faceva male predominava ogni volta che tentavo di arrampicarmi lungo i suoi fianchi. Non era poi così male. Avevo con me le mie compresse e continuavo ad essere ridicolmente allegro, e in quanto alla Macchina, l’avevo del tutto dimenticata. Il mio unico scopo era di arrivare in cima, dove si trovavano le felci, e osservare cosa ci fosse oltre.
“Corsi lungo la salita. La nuova aria era troppo dolorosa per me e rotolai di nuovo giù, dopo la momentanea visione di qualcosa di grigio. Il sole diventava sempre più debole, e mi ricordai che si trovava nello Scorpione – avevo seguito una conferenza anche su questo argomento. Se il sole è nello Scorpione, e siamo nel Wessex, significa che bisogna agire il più velocemente possibile, altrimenti diventerà troppo buio. (Questa è la prima informazione utile che abbia ricevuto ad una conferenza, e credo che sarà anche l’ultima.) Questo pensiero mi spinse a tentare freneticamente di respirare la nuova aria e avanzare fuori dal mio stagno fin dove osavo. L’avvallamento si riempiva così lentamente. A volte pensavo che la fontana zampillasse con minor forza. Il respiratore sembrava ballare più vicino alla terra, il fragore stava diminuendo.”
Si interruppe. La sua voce si alzò per l’emozione.
“Non riesci a capire, non riescono a capire i tuoi conferenzieri, che siamo noi che stiamo morendo, e che quaggiù l’unica cosa veramente viva è la Macchina? Abbiamo creato la Macchina affinché eseguisse il nostro volere, ma ora noi non riusciamo a farci obbedire. Ci ha privato del nostro senso dello spazio e del senso del tatto, ha offuscato ogni relazione umana e ridotto l’amore ad un atto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e le nostre volontà, e ora ci obbliga a venerarla. La Macchina si evolve, ma non secondo le nostre linee. La macchina procede, ma non verso la nostra meta. Noi esistiamo semplicemente come globuli sanguigni che scorrono nelle sue arterie, e se potesse funzionare senza di noi, ci lascerebbe morire. Oh, non ho alcun rimedio – o, almeno, uno soltanto – continuare a raccontare agli uomini che ho visto le colline del Wessex come le vide Alfredo quando sconfisse i danesi.
“Così il sole tramontò. Ho dimenticato di dire che c’era una cintura di nebbia tra la mia collina e le altre colline, e che era di un colore perlaceo.”
Si fermò una seconda volta.
“Continua,” gli disse la madre stancamente.
Egli scosse la testa.
“Continua. Niente di quello che dici può ferirmi ora. Mi ci sono abituata.”
“Avevo intenzione di dirti il resto, ma non posso: lo so che non posso, addio.”
Vashti era esitante. I suoi nervi erano scossi dalla sua blasfemia. Ma era anche curiosa.
“Non è giusto,” si lamentò. “Mi hai fatto venire dall’altra parte del mondo per ascoltare la tua storia, e ora la voglio sentire. Racconta – nella maniera più concisa possibile, perché questo è un disastroso spreco di tempo – raccontami come sei ritornato alla civiltà.”
“Oh – quello!” disse, trasalendo. “Vorresti sentirmi parlare di civiltà. Naturalmente. Ero arrivato al punto in cui il mio respiratore cadeva giù?”
“No – ma ora capisco tutto. Hai indossato il tuo respiratore, e sei riuscito a camminare sulla superficie della terra fino ad un vomitorio, e lì la tua condotta è stata riportata al Comitato Centrale.”
“Niente affatto.”
Si passò la mano sulla fronte, come a fugare una forte emozione. Poi, ripigliando il racconto, il suo entusiasmo si riaccese.
“Il mio respiratore cadde giù che era quasi il tramonto. Come dicevo, avevo interamente dimenticato la Macchina, e non prestavo molta attenzione al tempo, essendo occupato in altre cose. Avevo il mio laghetto di aria, in cui mi immergevo quando l’asprezza dell’aria esterna diventava insopportabile, e che avrebbe potuto durare per giorni, purché non si fosse alzato il vento a disperderla. Solo quando era ormai troppo tardi capii cosa implicava il blocco della fuga d’aria. Capisci – il varco nel tunnel era stato riparato, il sistema di manutenzione, il sistema di manutenzione mi seguiva.
“Avevo ricevuto un altro avvertimento, ma lo ignorai. Al calar della notte il cielo divenne più chiaro di quanto lo fosse stato durante il giorno, e la luna, che era arrivata quasi alla metà del cielo inseguendo il sole, a volte illuminava la valletta con una luce intensa. Io ero al mio solito posto – al confine tra le due atmosfere – quando mi sembrò di vedere muoversi qualcosa di scuro in fondo alla valletta per poi svanire dentro al condotto. Nella mia follia, corsi giù. Mi sporsi e ascoltai e mi sembrò di sentire il debole rumore di qualcosa che strisciava in profondità.
“A quel punto – ma era troppo tardi – mi allarmai. Decisi di indossare il mio respiratore e di uscire subito dalla valletta. Ma il mio respiratore era sparito. Sapevo esattamente dove era caduto – fra il tombino e l’apertura – e potevo perfino sentire il segno che aveva lascito nel terreno. Era sparito, e compresi che qualcosa di malvagio era all’opera e che avrei fatto meglio a scappare verso l’altra aria, e che se dovevo morire, era meglio morire correndo verso la nuvola color perla. Non mi sono mai mosso. Fuori dal condotto… è troppo orribile. Un verme, un lungo verme bianco, era sbucato fuori dal condotto e strisciava sull’erba illuminata dalla luna.
“Gridai. Feci tutto quello che non avrei dovuto fare, calpestai quella cosa invece di fuggire lontano, e quella improvvisamente si arrotolò intorno alla caviglia. Allora lottammo. Il verme mi lasciò correre per tutta la valletta, ma risalì lungo la mia gamba mentre correvo. “Aiuto!” gridai. (Questa parte è troppo spaventosa. È una parte della storia che non avresti mai dovuto conoscere.) “Aiuto!” gridai. (Perché non possiamo soffrire in silenzio?) “Aiuto!” gridai. Quando i miei piedi furono legati insieme, caddi e fui trascinato lontano dalle care felci e dalle viventi colline, oltre il grande tombino di metallo (questa parte posso dirtela), e pensai di potermi salvare di nuovo se avessi afferrato la maniglia. Anche quella era avviluppata, anche quella.
Oh, tutta la valletta era piena di quelle cose. Si muovevano in ogni direzione, devastandola, e ancora altri musi bianchi spiavano sporgendosi dal buco, pronti ad intervenire, se necessario. Portarono con sé tutto quello che poteva essere rimosso – arbusti, fasci di felci, ogni cosa, e andammo giù tutti intrecciati fino all’inferno. L’ultima cosa che vidi, prima che il tombino si richiudesse, furono alcune stelle, e sentivo che un uomo della mia specie viveva nel cielo. Perché io combattei, combattei fino alla fine, e mi fermai solo quando la mia testa batté contro la scala. Mi risvegliai in questa stanza. I vermi erano spariti. Ero circondato da aria artificiale, luce artificiale, pace artificiale. E i miei amici mi chiamavano attraverso i tubi parlanti per sapere se mi fossi imbattuto in nuove idee di recente.” A questo punto la sua storia finì. Ogni discussione al riguardo era impossibile, e Vashti si girò per andarsene.
“Tutto questo finirà con l’esilio,” disse con calma.
“Vorrei che fosse così,” replicò Kuno.
“La Macchina è stata misericordiosa.”
“Preferisco la misericordia di Dio.”
“Con questa frase superstiziosa, vuoi dire che preferisci vivere nell’atmosfera esterna?”
“Sì.”
“Hai mai visto intorno ai vomitori le ossa di quelli che furono cacciati dopo la Grande Ribellione?”
“Sì.”
“Furono lasciate dove erano periti a nostro monito. Alcuni fuggirono, ma anche questi morirono – chi può dubitarne? E la stessa cosa con gli esiliati di oggi. La superficie della terra non supporta più la vita.”
“Così pare.”
“Felci e erba possono sopravvivere, ma tutte le forme di vita superiori sono perite. Per caso qualche aeronave li ha avvistati?”
“No.”
“Qualche conferenziere ne ha parlato?”
“No.”
“Allora perché tanta ostinazione?”
“Perché io li ho visti,” sbottò lui.
“Visto cosa?”
“Perché io l’ho vista al crepuscolo – perché lei venne in mio aiuto quando gridai, perché anche lei fu avviluppata dai vermi, e, più fortunata di me, fu uccisa da uno che la trafisse al collo.”
Era impazzito. Vashti ripartì, e nonostante i problemi che ci furono in seguito, non rivide più la sua faccia.
Gli esuli
Durante gli anni che seguirono alla breve fuga di Kuno, nella Macchina ci furono due importanti sviluppi. In superficie sembrarono rivoluzionari, ma in entrambi i casi le menti degli uomini erano state preparate in anticipo, e non furono altro che l’espressione di tendenze ormai latenti. Il primo cambiamento fu l’abolizione del respiratore.
I pensatori progressisti, come Vashti, avevano sempre sostenuto che era assurdo visitare la superficie della terra. Le aeronavi potevano esser necessarie, ma che vantaggio c’era ad andare fuori per pura curiosità e gironzolare per due o tre chilometri in una vettura terrestre? Era un’abitudine volgare e alquanto grossolana: non produceva alcuna idea e non aveva alcun collegamento con le consuetudini realmente importanti. Così i respiratori furono aboliti e con loro, naturalmente, le vetture terrestri, e ad eccezione di pochi conferenzieri, che si lamentarono del fatto che gli veniva impedito l’accesso al materiale da loro studiato, questo sviluppo fu accettato tranquillamente. Quelli che ancora volevano sapere come era fatta la terra, dopo tutto non dovevano fare altro che ascoltare un grammofono, o guardare un visiofono. E perfino i conferenzieri furono d’accordo quando si resero conto che una conferenza sul mare non era meno stimolante se veniva compilata sulla base di altre conferenze già tenute sullo stesso argomento. “Guardatevi dalle idee di prima mano!” esclamò uno dei più progressisti. “Non esistono idee veramente originali. Non sono altro che impressioni fisiche prodotte dal contatto diretto e dalla paura, e su queste grossolane fondamenta chi potrebbe erigere una filosofia?”
Che le vostre idee siano di seconda mano, e se possibile di decima mano, perché allora saranno libere da quell’elemento di disturbo che è l’osservazione diretta. Non imparate niente sul mio argomento di studio – la rivoluzione francese. Imparate piuttosto quello che io penso che Enicharmon pensasse che Urizen pensasse che Gutch pensasse che Ho-Yung pensasse che Chi-Bo-Sing pensasse che Lafcadio Hearn pensasse che Carlyle pensasse che Mirabeau avesse detto sulla rivoluzione francese. Attraverso la mediazione di queste dieci grandi menti, il sangue che fu versato a Parigi e le finestre che furono rotte a Versailles decanteranno in un’idea che potrete usare in modo estremamente vantaggioso nella vostra vita quotidiana. Ma assicuratevi che gli intermediari siano molti e vari, perché nella storia un’autorità esiste per controbatterne un’altra. Urizen deve controbattere lo scetticismo di Ho-Yung e Enicharmon, io stesso devo controbattere l’impetuosità di Gutch. Voi che mi ascoltate siete in una posizione migliore della mia per giudicare la rivoluzione francese. I vostri discendenti saranno in una posizione ancora migliore della vostra. E col tempo” – la sua voce si alzò – “ci sarà una generazione che andrà oltre i fatti, oltre le impressioni, una generazione assolutamente incolore, una generazione seraficamente libera dalla contaminazione della personalità, che vedrà la rivoluzione francese non come accadde, né come avrebbero voluto che fosse accaduta, ma come avrebbe dovuto accadere, se avesse avuto luogo nei giorni della Macchina.”
Un caloroso applauso salutò questa conferenza, che non faceva altro che dare voce ad un sentimento ormai latente nella mente degli uomini – il sentimento che i fatti della superficie dovevano essere ignorati e che l’abolizione dei respiratori era un cambiamento positivo. Fu perfino suggerito di abolire anche le aeronavi. Questo non accadde, perché le aeronavi si erano in qualche modo integrate nel sistema della Macchina. Ma anno dopo anno, furono usate sempre meno e menzionate sempre meno dagli uomini di pensiero.
Il secondo grande sviluppo fu la restaurazione della religione. Anche a questo si era dato voce nella famosa conferenza. Nessuno avrebbe potuto fraintendere il tono reverente con cui si era conclusa la perorazione e che risvegliò un eco di approvazione nel cuore di ognuno. Quelli che avevano creduto in silenzio per tanto tempo, ora iniziarono a parlare. Descrivevano lo strano sentimento di pace che li pervadeva quando prendevano in mano il Libro della Macchina, quale piacere fosse ripetere certe cifre estrapolate dallo stesso, per quanto quelle cifre potessero essere poco significative all’ascolto, l’estasi di toccare un pulsante, anche se non importante, o di suonare un campanello elettrico, anche senza necessità.
“La macchina,” esclamavano, “ci nutre e ci veste e ci dà una casa; grazie a lei possiamo parlarci, grazie a lei possiamo vederci, in lei è custodita la nostra essenza. La Macchina è amica delle idee e nemica della superstizione: la Macchina è onnipotente, eterna, benedetta sia la Macchina.”
E in breve questa allocuzione fu stampata sulla prima pagina del Libro, e nelle successive edizioni il rituale si accrebbe fino a diventare un complicato sistema di lodi e preghiere. La parola ‘religione’ fu costantemente evitata, e in teoria la Macchina era ancora la creazione e lo strumento dell’uomo, ma in pratica, tutti, salvo alcuni retrogradi, la veneravano come una divinità. Né era venerata come un tutt’uno.
Un credente poteva essere colpito principalmente dalle piastre ottiche blu, attraverso cui vedeva gli altri credenti, un altro dal sistema di manutenzione, che quel peccatore di Kuno aveva paragonato a vermi; un altro dagli ascensori, un altro dal Libro. E ognuno pregava questa parte o quella, chiedendole di intercedere per lui presso la Macchina nel suo insieme. La persecuzione, anche quella era presente. Non in maniera palese, per ragioni che saranno chiarite tra breve. Ma era latente, e tutti quelli che non accettavano quel minimo conosciuto come “meccanismo aconfessionale” vivevano nel pericolo di essere esiliati, che significava morte, come sappiamo.
Attribuire questi due grandi sviluppi al Comitato Centrale, significa avere una visione molto ristretta della civiltà. Il Comitato Centrale annunciava gli sviluppi, è vero, ma non ne era la causa più di quanto i re del periodo imperialistico fossero la causa delle guerre. Piuttosto, si piegavano ad una pressione invincibile, che nessuno sapeva da dove venisse, e che, una volta gratificata, era seguita da una qualche altra pressione egualmente invincibile. Ad un tale stato delle cose è conveniente dare il nome di progresso. Nessuno confessava che la Macchina era fuori controllo. Anno dopo anno era servita con sempre maggior efficienza e sempre minor intelligenza. Quanto meglio un uomo conosceva i propri doveri verso di essa, tanto meno conosceva i doveri del suo vicino, e in tutto il mondo non c’era nessuno che conoscesse il mostro nel suo insieme.
I grandi pensatori erano scomparsi. Avevano lasciato istruzioni dettagliate, è vero. E ognuno dei loro successori aveva padroneggiato una parte di quelle istruzioni. Ma l’umanità, nel suo desiderio di benessere, aveva superato sé stessa. Aveva sfruttato le ricchezze della natura troppo oltre. In silenzio e con compiacimento, stava affondando nella decadenza, e la parola progresso aveva finito col significare il progresso della Macchina.
In quanto a Vashti, la sua vita proseguì tranquillamente fino al disastro finale. Oscurava la stanza e dormiva, si svegliava e illuminava la stanza. Teneva conferenze e presenziava conferenze. Scambiava idee con i suoi innumerevoli amici ed era convinta di progredire spiritualmente. A volte ad un amico veniva concessa l’eutanasia, e questi lasciava la sua stanza per andare in esilio, cosa che va oltre ogni umana concezione. A Vashti non importava molto. Talvolta, dopo una conferenza sfortunata, anche lei chiedeva l’eutanasia. Ma il tasso di mortalità non poteva superare il tasso di natalità, e fino a quel momento la Macchina non l’aveva mai autorizzata.
I problemi iniziarono piano piano, molto prima che lei ne fosse cosciente.
Un giorno fu sorpresa di ricevere un messaggio da suo figlio. Non comunicavano mai, non avendo niente in comune, e aveva solamente saputo per via indiretta che era ancora vivo, ed era stato trasferito dall’emisfero settentrionale, dove si era comportato in maniera così vergognosa, a quello meridionale, proprio in una stanza non lontana dalla sua.
“Vuole che lo vada a trovare?” pensò. “Mai più, mai. Poi non ho tempo.”
No. Era una follia di altro tipo.
Kuno si rifiutò di visualizzare la faccia sulla piastra blu, e parlando dalle tenebre disse con solennità:
“La Macchina si ferma.”
“Cosa dici?”
Lei scoppiò a ridere. Lui la sentì e si arrabbiò, e non parlarono più.
“Puoi immaginare niente di più assurdo?” si lamentò Vashti con un amico. “Un uomo che era mio figlio crede che la Macchina si stia fermando. Sarebbe un’empietà se non fosse una follia.”
“La Macchina si sta fermando?” le rispose l’amico. “Che cosa significa? Questa frase non mi suggerisce niente.”
“Neanche a me.”
“Tuo figlio si riferisce, suppongo, ai problemi che ci sono stati ultimamente con la musica?”
“No, naturalmente no. Parliamo della musica.”
“Hai esposto le tue lamentele alle autorità?”
“Sì, e mi hanno detto che c’è bisogno di manutenzione, e mi hanno indirizzata al Comitato del Sistema di manutenzione. Mi sono lamentata di quegli strani singhiozzi soffocati che rovinano le sinfonie della scuola di Brisbane. Fanno pensare a qualcuno che soffre. Il Comitato del Sistema di manutenzione dice che sarà riparato tra breve.”
Vagamente preoccupata, riprese la propria vita. Da un lato, il disturbo nella musica la preoccupava. Da un altro lato, non riusciva a dimenticare le parole di Kuno. Se avesse saputo che la musica era in riparazione – ma non poteva saperlo, perché detestava la musica – si sarebbe reso conto di aver torto. “La Macchina si ferma” era esattamente il tipo di commento velenoso che ci si poteva aspettare da lui. Naturalmente l’aveva fatto a casaccio, ma la coincidenza la seccava, e fu alquanto petulante con il Comitato del Sistema di Manutenzione.
Come prima, le risposero che il guasto sarebbe stato sistemato in breve tempo.
“Subito! Immediatamente!” replicò lei. “Per quale motivo devo essere disturbata da musica imperfetta? Le cose vengono sempre riparate immediatamente. Se non la riparate subito, me ne lamenterò con il Comitato Centrale.”
“I reclami personali non possono essere accettati dal Comitato Centrale,” fu la risposta del Comitato del Sistema di Manutenzione.
“Attraverso chi devo presentare il mio reclamo, allora?”
“Noi.”
“Allora io reclamo.”
“Il vostro reclamo sarà inoltrato a suo tempo.”
“Avete altri reclami?”
La domanda era non-meccanica, il Comitato del Sistema di manutenzione rifiutò di rispondere.
“Questo è troppo!” esclamò con un altro dei suoi amici.
“Non c’è mai stata una donna sfortunata come me. Ora non potrò più essere sicura della mia musica. Peggiora sempre di più ogni volta che la chiamo.”
“Che cos’è?”
“Non so se è nella mia testa o nel muro.”
“Reclama, in ogni caso.”
“L’ho fatto, e il mio reclamo sarà inoltrato a suo tempo al Comitato Centrale.”
Il tempo passò, e nessuno si accorse più dei guasti. I guasti non erano stati riparati, ma i tessuti umani in quegli ultimi giorni erano diventati così accomodanti che si adattarono prontamente ad ogni capriccio della Macchina. I sospiri durante i crescendo della sinfonia di Brisbane non irritavano più Vashti, li accettava come parte della melodia.
Quei suoni irritanti, nella testa o nel muro, non erano più avvertiti dal suo amico. E così con l’ammuffita frutta artificiale, così con l’acqua del bagno che iniziò a puzzare, così con le rime imperfette che la macchina della poesia aveva preso ad emettere. All’inizio ci furono delle aspre lamentele, poi tutto venne accettato e dimenticato. Le cose andarono di male in peggio senza nessuna opposizione.
Ma quando si guastò l’apparato del sonno ci fu una diversa reazione. Fu il problema più serio. Arrivò il giorno in cui in tutto il mondo – a Sumatra, nel Wessex, nelle innumerevoli città del Courland e del Brasile – i letti – quando venivano chiamati dai loro stanchi proprietari – smisero di apparire. Può sembrare un argomento ridicolo, ma è da quel momento che possiamo datare il collasso dell’umanità. Il Comitato responsabile del guasto fu sommerso dalle lamentele della gente, che furono indirizzate, al solito, al Comitato del Sistema di Manutenzione, che a sua volta assicurò che sarebbero state inoltrate al Comitato Centrale. Ma lo scontento crebbe, perché l’umanità non si era ancora sufficientemente adattata a fare a meno del sonno.
“Qualcuno si sta intromettendo nella Macchina…” iniziarono a dire.
“Qualcuno sta tentando di farsi re, di reintrodurre l’elemento personale.”
“Punite quell’uomo con l’esilio.”
“Alla riscossa! Vendicate la Macchina! Vendicate la Macchina!”
“Guerra! Uccidete quell’uomo!”
Ma il Comitato del Sistema di Manutenzione intervenne, e dissipò il panico con parole accorte. Confessò che lo stesso Sistema di Manutenzione aveva bisogno di riparazioni. L’effetto di questa franca ammissione fu ammirevole. “Naturalmente,” disse un famoso conferenziere – quello della Rivoluzione francese, che indorava di splendore ogni nuova decadenza – “naturalmente non dobbiamo essere pressanti con i nostri reclami adesso. Il Sistema di manutenzione ci ha trattato così bene in passato che ora dobbiamo essere comprensivi e attendere pazientemente che si rimetta. A tempo debito riprenderà i suoi compiti. Nel frattempo faremo a meno dei nostri letti, delle nostre compresse, delle nostre piccole necessità. Questo, ne sono sicuro, sarebbe il desiderio della Macchina.”
A migliaia di chilometri di distanza il suo pubblico applaudì. La Macchina li collegava ancora. Sotto i mari, sotto le montagne, correvano i fili attraverso cui le persone vedevano e sentivano, gli enormi occhi e orecchi e che erano il loro retaggio, e il ronzio di tutti quei meccanismi rivestiva i loro pensieri dell’abito dell’asservimento. Solo i vecchi e i malati si mostrarono ingrati, perché si mormorava che nemmeno l’eutanasia funzionava, e che il dolore era riapparso fra gli uomini.
Divenne difficile leggere. Un influsso malefico pervase l’atmosfera e ne oscurò la luminosità. A volte Vashti riusciva a mala pena a vedere attraverso la stanza. La stessa aria era malsana. Le lamentele erano aspre, i rimedi impotenti, eroico il tono del conferenziere mentre gridava: “Coraggio! Coraggio! Che importa se la Macchina funziona? Per lei le tenebre e la luce sono la stessa cosa.” E sebbene la situazione migliorasse dopo un certo tempo, il vecchio splendore non fu mai recuperato, e l’umanità non uscì più dal crepuscolo in cui era entrata.
Ci furono isteriche voci di “misure,” di “dittatura transitoria,” e agli abitanti di Sumatra fu chiesto di prendere confidenza con il funzionamento della centrale elettrica principale, la quale centrale elettrica si trovava in Francia. Ma per la maggior parte regnava il panico e gli uomini spendevano le loro forze pregando il Libro, prova tangibile dell’onnipotenza della Macchina. A volte il terrore si allentava – a volte si diffondevano voci di speranza – il Sistema di manutenzione era stato quasi riparto – i nemici della Macchina erano stati sopraffatti – si stavano sviluppando nuovi “centri nervosi” che avrebbero funzionato ancora più magnificamente di prima. Ma venne il giorno in cui, senza il benché minimo avviso, senza alcun segno premonitore di debolezza, l’intero sistema di comunicazione collassò, in tutto il mondo, e il mondo, così come lo conoscevano, finì.
Vashti stava tenendo una conferenza e le sue prime osservazioni erano state costellate di applausi. Mentre procedeva il pubblico divenne silenzioso e alla fine non ci fu alcun suono. Alquanto dispiaciuta, si rivolse ad un amico che era uno specialista del consenso. Nessun suono: senza dubbio l’amico stava dormendo. E così con un altro amico che cercò di chiamare, e così con un altro ancora, finché le tornò in mente la misteriosa frase di Kuno, “La Macchina si ferma.”
La frase non la suggeriva ancora niente. Se l’eternità si stava fermando, naturalmente si sarebbe rimessa in moto a breve.
Per esempio c’era ancora un po’ d’aria e di luce – l’atmosfera era migliorata da qualche ora. C’era ancora il Libro, e finché c’era il Libro si sentiva al sicuro. Poi crollò, perché con la fine di ogni attività giunse un terrore inaspettato. Il silenzio. Non aveva mai conosciuto il silenzio, e il suo arrivo quasi la uccise – di fatto uccise molte migliaia di persone all’istante. Fin dalla nascita era stata circondata da un costante ronzio. Per le sue orecchie era come l’aria artificiale per i suoi polmoni, e la testa le scoppiava per il dolore atroce. E quasi senza sapere quello che faceva, si alzò barcollando e premette quel pulsante così poco usato, quello che apriva la porta della cella.
Ora, la cella della porta girava autonomamente su un semplice cardine. Non era connessa alla centrale elettrica principale, che stava morendo nella lontana Francia. Si aprì, suscitando in Vashti speranze insensate, perché pensò che la Macchina fosse stata riparata. Si aprì, e vide il tunnel in penombra curvare in lontananza verso la libertà. Uno sguardo e si ritrasse. Il tunnel era pieno di gente – era stata quasi l’ultima in città ad allarmarsi.
Aveva sempre provato repulsione per la gente, e quelle persone erano un incubo uscito dai suoi sogni peggiori. La gente strisciava, la gente gridava, piagnucolava, respirava a fatica, si toccava, scompariva nelle tenebre e di tanto in tanto qualcuno veniva spinto fuori dalla piattaforma sul binario elettrificato. Alcuni si azzuffavano intorno ai campanelli elettrici, nel tentativo di chiamare treni che non potevano essere chiamati. Altri invocavano l’eutanasia o i respiratori, o maledicevano la Macchina. Altri ancora rimanevano sulla porta delle loro celle e, come lei, avevano paura sia di rimanere dentro che di uscire. E dietro a tutto quel tumulto c’era silenzio – il silenzio che è la voce della terra e delle generazioni passate.
No – era peggio della solitudine. Richiuse la porta e si sedette ad aspettare la fine. La disintegrazione continuò, accompagnata da orribili scricchiolii e boati. Le valve che trattenevano l’apparato medico dovevano essersi allentate, perché quello era fuoriuscito e penzolava orribilmente dal soffitto. Il pavimento si sollevò e ricadde facendola volare via dalla sedia. Un tubo schizzò verso di lei come un serpente. E finalmente l’orrore finale divenne imminente – la luce iniziò a calare e capì che il lungo giorno della civiltà stava giungendo al termine.
Incominciò a girare intorno, pregando di essere salvata da tutto quello, a qualunque costo, baciando il Libro, premendo un pulsante dopo l’altro. Il tumulto all’esterno stava crescendo, e penetrava perfino attraverso il muro. Lentamente la luminosità della sua cella si stava affievolendo, sugli interruttori metallici non ci furono più riflessi. Ora non riusciva a vedere più il leggio, ora il Libro, anche se lo teneva in mano. Dopo il suono scomparve la luce, dopo la luce l’aria, e il vuoto originale ritornò alla caverna da cui era stato escluso per tanto tempo. Vashti continuò a girare, come i devoti di un’antica religione, gridando, pregando, colpendo i pulsanti con mani sanguinanti.
Fu così che aprì la sua prigione e fuggì – fuggì con il suo spirito: almeno così mi sembra, prima che la mia meditazione finisca. Che sia fuggita con il corpo – questo non riesco a percepirlo. Per caso colpì l’interruttore che apriva la porta e la folata di aria fetida sulla sua pelle, i sonori singhiozzi nelle sue orecchie, le dissero che era di nuovo davanti al tunnel e alla terribile piattaforma su cui aveva visto combattere gli uomini. Ora non combattevano più. Rimanevano solo i sospiri e i piccoli gemiti piagnucolosi. Stavano morendo a centinaia là nelle tenebre.
Scoppiò in lacrime. Altre lacrime le risposero.
Piansero per l’umanità, quei due, non per sé stessi. Non riuscivano a capacitarsi che quella dovesse essere la fine. Prima che il silenzio fosse totale, i loro cuori si aprirono ed essi compresero ciò che era stato importante sulla terra. L’uomo, il fiore di ogni carne, il più nobile di tutte le creature visibili, l’uomo che una volta aveva fatto dio a sua immagine, e aveva riflesso il suo potere nelle costellazioni, il bellissimo uomo nudo stava morendo, soffocato dagli abiti che aveva tessuto.
Secolo dopo secolo aveva lavorato duramente, ed ecco la sua ricompensa. In verità, l’abito all’inizio era sembrato celestiale, tinto con i colori della cultura, cucito con il filo dell’auto-negazione. E celestiale era stato fino a quando l’uomo aveva potuto scrollarselo di dosso a suo piacimento e vivere dell’essenza che era la sua anima, e dell’essenza, egualmente divina, che era il suo corpo. Il peccato contro il corpo – era soprattutto per quello che piansero; i secoli di ingiustizia contro i muscoli e i nervi e quei cinque portali attraverso cui solo è possibile comprendere – mascherando tutto con il discorso dell’evoluzione, finché il corpo era diventato una pappa bianca, la casa di idee altrettanto incolori, ultimi singulti di uno spirito che aveva catturato le stelle.
“Dove sei?” singhiozzò Vashti.
La voce nelle tenebre le rispose, “Qui.”
“C’è qualche speranza, Kuno?”
“Nessuna per noi.”
“Dove sei?”
Strisciò sui corpi dei morti. Il sangue di lui le schizzò sulle mani.
“Più in fretta,” le gridò, “Sto morendo – ma ci tocchiamo, ci parliamo, non attraverso la Macchina.”
La baciò.
“Siamo ritornati quello che eravamo. Moriamo, ma abbiamo riconquistato la vita, come era nel Wessex, Quando Alfredo sconfisse i Danesi.”
“Ma Kuno, è vero? Ci sono ancora degli uomini sulla superficie della terra? Tutto questo – il tunnel, questa oscurità venefica – non è veramente la fine?”
Le rispose: “Li ho visti, ho parlato con loro, li ho amati. Si stanno nascondendo nella nebbia e tra le felci fino al momento in cui la nostra civiltà finirà. Oggi sono gli esuli – domani…?”
“Oh. Domani – qualche folle riavvierà la Macchina, domani.”
“Mai più,” disse Kuno, “mai più. L’umanità ha imparato la sua lezione.”
Mentre parlava, l’intera città fu distrutta come un alveare. Un’aeronave era rientrata attraverso il vomitorio fino ad un molo in rovina. Precipitò in basso, esplodendo mentre avanzava, distruggendo una galleria dopo l’altra con le sue ali di acciaio. Per un momento videro le nazioni dei morti, e, prima che potessero raggiungerli, brandelli di cielo immacolato.