Don Emmanuele Silanos – Fraternità e Missione
Inizio anni Settanta: in un’aula di università milanese, uno studente di medicina, terminato con successo e con il massimo dei voti l’esame di anatomia, chiede al suo esaminatore: “Professore, posso farle una domanda? A cosa serve la medicina?”. Quello lo guarda perplesso e, un po’ imbarazzato, risponde: “Per cercare di sconfiggere la morte, suppongo…”. “Allora” replica lo studente “abbiamo già perso… Io pensavo che la medicina servisse ad accompagnare l’uomo dentro il dolore e la malattia. Se non è così, siamo tutti dei falliti e la medicina non serve a niente, perché noi la morte non la sconfiggeremo mai”.
Vincere la morte è, da sempre, l’ossessione dell’uomo che ha cercato nella medicina, nella scienza, persino nella magia, la strada per vincere la paura più grande che da sempre ne condiziona l’esistenza. Forse è questa una delle ragioni del successo di Yuval Harari, il nuovo guru del pensiero post-moderno, profeta del post-liberalismo che, nei primi capitoli del suo best-seller Homo Deus, prevede che l’umanità potrà, in un futuro non troppo lontano e grazie al progresso delle biotecnologie, giungere finalmente allo stadio tanto aspirato dell’immortalità.
Ma non serve essere utopici visionari per interrogarsi sul bisogno dell’uomo, che ha deciso di fare a meno di Dio, di cercare una strada laica che aiuti a vincere il terrore di chi si sente irrimediabilmente lanciato verso una fine certa e irrimediabile. Basta essere onesti con se stessi, come il giornalista Antonio Polito, per riconoscere che anche un non credente, al fondo della sua anima, non «è disposto ad accettare senza combattere l’idea che tutto finisca in polvere, che l’esistenza speciale, unica, eccezionale che ha condotto, tutti i sentimenti, le emozioni che ha vissuto, possano dissolversi nel nulla, senza che ne resti più alcuna traccia nell’universo». Anche lui, nel suo ultimo libro, si trova a «dover credere alla possibilità di un evento salvifico che sia paragonabile a una rinascita, a un nuovo inizio».
Il problema dell’uomo è, allora, condensato nell’ossessione con cui Raskolnikov, in Delitto e castigo, domanda insistentemente a Sonja: «Ma tu, ci credi nella Risurrezione? Per esempio, nella Risurrezione di Lazzaro, ci credi?». E questa, in fondo, la domanda di ogni uomo: è possibile la risurrezione? Ovvero: c’è qualcosa o qualcuno più grande della morte?
Un paio di anni fa, un bambino entrava nella stanza d’ospedale in cui era ricoverato il giovane papà, gravemente malato. Vedendo sulla parete il crocifisso, si rivolgeva alla mamma dicendo: “Ma mamma, anche qui c’è Gesù! E allora, di che cosa abbiamo paura?”. L’uomo nuovo nasce il giorno in cui i discepoli si sono rinchiusi in casa, pietrificati dal terrore, perché sembra che la morte abbia, ancora una volta, vinto. Quando, all’improvviso, arriva l’annuncio portato dalle donne che erano andate al sepolcro: la tomba è vuota. Pietro e Giovanni non aspettano un istante e si mettono a correre, abbandonato ogni timore si buttano sulla strada, ingaggiando una sorta di corsa a chi arriva primo per vedere i segni della Risurrezione, per credere che la morte è stata vinta.
Quella corsa è anche la descrizione della nostra vita, di noi che abbiamo ricevuto l’annuncio della Risurrezione: è solo la certezza che Cristo è risorto che ci permette di abbracciare la morte come parte della vita, è solo il cuore pieno del desiderio di vedere ogni giorno i segni di quella risurrezione che rende l’uomo capace di offrire con letizia anche i sacrifici più dolorosi. È solo se in quell’uomo crocifisso riconosciamo anche colui che è risorto che possiamo dire, assieme a quel bambino: “Mamma, di che cosa abbiamo paura?”.
La nascita dell’uomo nuovo trova dunque qui la sua origine, come recita proprio il finale di Delitto e castigo: «Qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della rinascita di un uomo, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata».
Mentre la paura immobilizza, la speranza fa muovere e rende creativi, costruttivi. Cosa contraddistingue, allora, il cristiano, la creatura nuova? È quella energia, piena di speranza, che porta l’uomo, travolto dalla notizia della Risurrezione di Gesù, a investire la realtà tutta di questa certezza, la sola che rende capaci di creatività e di amore all’altro senza riserve. Come diceva don Giussani, «La gloria di Cristo risorto è la luce, il colorito, l’energia, la forma del nostro esistere». È qui che comincia la Chiesa. È qui che inizia la missione.