La stanza di Vincent

Alessandro D’Avenia – Corriere della Sera

«Mi è venuta una nuova idea ed ecco l’abbozzo. Si tratta semplicemente della mia camera da letto, il colore deve fare tutto e lo stile degli oggetti dovrà suggerire il riposo. Guardare il quadro dovrebbe riposare la mente, o meglio l’immaginazione. Le pareti sono di viola pallido. Il pavimento di mattonelle rosse. Il legno del letto e delle sedie ha il tono giallo del burro fresco, le lenzuola e i guanciali sono di un verde limone molto chiaro. La coperta è scarlatta. La finestra verde. La toeletta arancione, la bacinella azzurra, la porta lilla. Ecco tutto. Le ampie linee dei mobili devono anch’esse esprimere un riposo inviolabile».

A metà ottobre del 1888, Vincent Van Gogh scriveva al fratello Theo da Arles, in Provenza. Aveva lasciato Parigi per il sud, in cerca di più calore e più colore, e sua era un’ala della famosa Casa Gialla dove sperava di radunare una confraternita di artisti rivoluzionari. Lui, che cercava nella pittura di ridisegnare la sua malinconia e disinnescare un destino di infelicità, dipinse per ben tre volte quella stanza-porto: il primo quadro, contemporaneo alla lettera, si trova ad Amsterdam, gli altri due, ora a Parigi e Chicago, li realizzò un anno dopo, e sono il nostalgico ricordo dei mesi ad Arles. Ma seguiamo gli indizi, in forme e colori, che Van Gogh ha disseminato nel dipinto, per scovare il tesoro che vuole farci trovare. Guardate bene.

Tutto è risucchiato dalla parete di fondo: la finestra più che punto di fuga prospettico è una vertigine che attrae la stanza. Sulla parete c’è una trinità di aperture: uno specchio, una finestra, un quadro. Sono tre finestre sull’altro e sull’oltre. Lo spettatore è chiamato, come chi entra in uno spazio sacro, a un percorso di purificazione o chiarificazione: il pittore cerca la pace del corpo e dell’anima, di cui il massiccio letto rifatto è la commovente traduzione. Lo specchio a sinistra della finestra è il luogo dello sguardo sul sé, vi si scopre la distanza, a volte dolorosa, tra ciò che appare e ciò che siamo, tra ciò che gli altri vedono e la verità del nostro io profondo. La finestra con le ante socchiuse è la sempre possibile apertura sul mondo: lascia entrare l’aria e permette di accogliere il fuori, con tutte le sue sorprese e i suoi rischi. Il quadro a destra della finestra (forse uno dei 200 che Van Gogh febbrilmente e gioiosamente dipinse nei mesi di soggiorno ad Arles) è luogo privilegiato di apertura all’altro attraverso la mediazione dell’arte: la luce di un mondo a cui aspiriamo ma ci sfugge, e di cui colori e forme sono segni e simboli, i singhiozzi lanciati alle rive dell’eterno o messaggi in bottiglia che da quelle rive provengono. Sono queste le tre aperture della camera interiore di cui abbiamo bisogno per riposare nella vita: senza una relazione profonda con noi stessi, col mondo e con l’oltre, non sappiamo dove ri-porre (porre una e una volta ancora, da cui ri-poso) la vita, perché sia custodita e rifatta, come il letto scarlatto del pittore. Oggi che cosa ce lo impedisce?

Lo specchio è diventato un «selfie», l’immagine con cui post-produciamo noi stessi per essere notati e dove riflettiamo noi stessi senza riflettere su noi stessi. Con il selfie, diminutivo-vezzeggiativo di self, costruiamo «piccoli-sé-carini» invece di «autentici-io-liberi». La finestra socchiusa è diventata uno schermo, dà l’apparenza del mondo proiettandone immagini ed emozioni, ma ne cela il peso e gli spigoli: siamo prigionieri di un bellissimo «sogno da svegli». È ormai acclarata la relazione tra l’abuso del cellulare e la diminuzione di interazioni sociali e affettive, del desiderio sessuale e della motivazione. Infine, il quadro? È sparito: lo schermo elimina l’atteggiamento contemplativo, il silenzio, la profondità e la trascendenza, richiedendo solo frenesia interattiva. Un’opera d’arte, per poterci donare la vita che contiene, invita invece a una sosta del fare: per ricevere un dono bisogna essere «re-cettivi», lo schermo, al contrario, ci rende «re-attivi». Con il quadro è sparito anche il letto, e con il letto il riposo: da quando l’uso dei cellulari si è diffuso in modo pervasivo, gli adolescenti (e non solo) dormono in media un’ora in meno, con tutte le conseguenze che comporta sulla crescita e sull’attenzione.

Spinti all’ultimo banco nel rapporto con l’altro e con l’oltre, con il mistero di cose e persone, ci mancano gli interruttori delle energie vitali e così scivoliamo nella tristezza della noia o nella stanchezza della frenesia. Dobbiamo ritrovare lo specchio della riflessione sul senso della vita; la finestra della meraviglia e della conoscenza delle cose e degli altri; il quadro del silenzio, della lettura, della preghiera. Sediamoci sulla sedia vuota che Van Gogh ha dipinto per noi: avere la propria Camera di Vincent significa possedere uno spaziotempo di «inviolabile riposo» dove la vita, finalmente, può tornare a crescere. In colore e calore.

Corriere della Sera, 7 ottobre 2019