La Strada di Fellini

L’imperdonabile affronto all’“ortodossia” neorealista

Presentato alla 15esima Mostra del Cinema di Venezia, con una giuria presieduta da Ignazio Silone, il film non fu accolto bene da una certa critica di sinistra, la quale rimproverò Fellini di ripudiare il realismo, aprendo invece alla favola e a un discutibile spiritualismo. Per il potente direttore della rivista Nuovo Cinema Guido Aristarco – che secondo lo storico del cinema Claudio Siniscalchi incarna «l’esponente più presente, operoso e metodologicamente ferrato della critica marxista» – Fellini è un regista «anacronistico», che «allontanandosi dal realismo si muove in una direzione sbagliata», indice di «una non matura e profonda coscienza della realtà».

Come l’iper-viscontiano Aristarco, molti altri non perdonarono a La Strada di aver usato un paradigma cinematografico dalla chiave escatologica, né tantomeno di aver oscurato Senso, il melodramma di Luchino Visconti che in quella Mostra di Venezia non si vide assegnare alcun premio.

La diversa sensibilità francese rispetto alla difesa dell’ortodossia neorealista, spesso palesatasi come una sorta di lesa maestà, è raccontata con dovizia di particolari Enrico Giacovelli nel suo TuttoFellini, saggio che raccoglie anche le parole che André Bazin dedicò alla polemica tutta italiana. «La vitalità del cinema italiano ci viene una volta di più confermata dall’ammirevole film di Federico Fellini. […] Con Rossellini egli ha optato per un neorealismo della persona». Bazin, stimato critico di formazione cattolica e maestro di quel François Truffaut che gli dedicò I 400 colpi, continuava così la sua disamina sul film: «Gelsomina e il Matto sono avvolti in un’aura di meraviglioso che sconcerta e irrita Zampanò. Ma non si tratta di un meraviglioso soprannaturale, né gratuito e neppure “poetico”, esso si presenta piuttosto come una qualità della natura».

Papa Francesco: «“La strada” mi è rimasta nel cuore»

La trama del film (scritto da Fellini con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, musicato da Nino Rota e prodotto da un coraggioso Dino De Laurentiis, unico produttore a credere nel progetto) è tanto semplice quanto notoria. Il forzuto mangiafuoco Zampanò, per diecimila lire, compra da una povera donna una delle sue tante figlie: la mite Gelsomina, che del rozzo e violento circense diverrà la serva. Ma ecco che un equilibrista, il Matto, fa irruzione nelle loro vite, divertendosi a stuzzicare Zampanò-Anthony Quinn e finendo per illuminare la mente di Gelsomina-Giulietta Masina, squadernandole – come solo un circense temerario e angelicato può fare – il senso profondo di un’esistenza tutt’altro che inutile.

Ne è consapevole papa Francesco, che de La strada è un commosso estimatore. Venerdì 3 maggio, inaugurando il convegno “La strada di Federico Fellini 70 anni dopo”, tenutosi all’interno della rassegna “La Settima Arte Cinema e Industria”, il Pontefice ha ricordato le emozioni ricevute dalle amate pellicole felliniane, assaporate da bambino in compagnia di nonna Rosa. Nel videomessaggio, breve ma sentito, a detta degli organizzatori inviato quasi a sorpresa, papa Francesco ha pronunciato queste parole:

«Io da ragazzo ho visto tanti film di Fellini ma La strada mi è rimasta nel cuore. Quel film incomincia con le lacrime e finisce con le lacrime; incomincia alla riva del mare e finisce alla riva del mare. Ma soprattutto mi è rimasta nel cuore la scena del Pazzo con la pietrina, che dà il senso della vita a quella ragazza».

Gelsomina, il Matto e la “teologia del sassolino”

Il “Pazzo” citato da Francesco è in realtà il Matto (nel film l’attore statunitense Richard Basehart), cioè il comico-filosofo che mangia gli spaghetti su un filo sospeso a 40 metri di altezza. Un giullare che è l’esatto opposto di Zampanò ma che risulta totalmente “conforme” al cuore fanciullesco della pura Gelsomina, la quale, grazie a lui, assaporerà una consapevolezza inaudita circa il suo autentico posto nel mondo.

La scena citata dal Papa nel videomessaggio è quella che vede da una parte Gelsomina in preda allo sconforto («Io non servo a niente, cosa ci sto a fare in questo mondo?») e dall’altra il Matto snocciolare quella che è stata ribattezzata la “teologia del sassolino”. Vale la pena riportare le battute, delicate e senza tempo, che non a caso Fellini scrisse con l’ausilio di padre Eugenio Bruno, gesuita a lungo responsabile del Centro culturale San Fedele (la notizia della collaborazione tra il regista e il gesuita è stata resa nota solo recentemente da padre Antonio Spadaro, a cui va il merito di aver approfondito per primo il rapporto tra papa Francesco e il neorealismo).

Il Matto: «Questo sasso a qualcosa deve servire. Io sono ignorante, ma ho letto qualche libro. Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì, per esempio. […] Be’, anche questo serve a qualcosa: anche questo sassetto».

Gelsomina: «E a cosa serve?».

Il Matto: «Serve… Ma che ne so io? Se lo sapessi, sai chi sarei? […] Il Padreterno, che sa tutto: quando nasci, quando muori. E chi può saperlo? No, non so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché, se questo è inutile, allora è inutile tutto: anche le stelle. E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo».

Il clown-teologo di Kierkegaard

Come sostiene Vincenzo Mollica, fresco vincitore di un David di Donatello “speciale”, primo cronista a meritare il riconoscimento, La strada si comprende appieno solo trasportandola su un piano metafisico. Ma c’è di più. Non dovrebbe stupire il fatto che sia proprio un clown, il Matto dalle ali d’angelo, a introiettare nel personaggio chapliniano di Gelsomina un’idea, fino a quel momento a lei totalmente sconosciuta: che ogni essere umano ha in sé un fine, una dignità, e che ognuno possa rivendicare il desiderio di amare ed essere amato.

Non dovrebbe stupire, dicevamo, perché già Kierkegaard aveva scritto di un clown sospeso tra profezia e teologia. L’apologo che il filosofo danese pubblicò in Aut-Aut (opera del 1843) e che Joseph Ratzinger riprese in Introduzione al cristianesimo, è (ancora!) teologico e felliniano insieme:

«Accadde in un teatro che le quinte prendessero fuoco. Il pagliaccio venne a darne notizia al pubblico. Tutti credettero che fosse soltanto una battuta di spirito e il pagliaccio fu applaudito. Allora egli ripeté l’avviso, ma il divertimento aumentò ancora. Ecco, penso che il mondo perirà tra il divertimento universale della gente di spirito, che crederà che sia uno scherzo».

Uno «sguardo di svelamento»

Nel settantesimo anniversario del film, ormai a debita distanza dalla faida Visconti-Fellini, la critica riconosce che La strada ha anticipato e superato il neorealismo, facendo in modo, spiega Enrico Giacovelli, che «prendesse corpo quella singola­re coesistenza di realismo e meraviglioso». Identica è la linea del poeta Andrea Zanzotto, amico e collaboratore di Fellini: «La strada? Qualcosa che è insieme magico e quotidiano».

«Il cinema neorealista», chiosò elegantemente papa Francesco in un’intervista realizzata da monsignor Dario Viganò per il libro Lo sguardo: porta del cuore. Il neorealismo tra memoria e attualità, «ha avuto questo potere, proprio della grande arte, di saper cogliere nell’inverno ciò che era già primavera. È uno sguardo che nelle tenebre custodisce il gusto e il senso della luce. È uno sguardo di svelamento: là dove noi non vediamo che un limite, l’occhio del poeta e dell’artista costruisce passaggi, apre brecce negli sbarramenti, scorge i segni di una realtà più bella e più grande. Abbiamo tanto bisogno di questo sguardo».

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