La torre di Babele

Mattia Ferraresi – Solitudine; pp. 192- 198

La vicenda di Babele e della sua famosa torre è stata spesso raccontata all’incontrario. La versione volgarizzata e ripetuta all’infinito suona all’incirca così: gli uomini si adoperano per costruire una torre alta fino al cielo, Dio si indispettisce per la loro impresa tracotante e li punisce disperdendoli sulla terra e dividendo le lingue, misura terribile che li condanna all’incomunicabilità. In questa variante, l’uomo nobile e ingegnoso viene castigato da una divinità iraconda e capricciosa, che impedisce l’emancipazione delle sue creature e sanziona la superbia con la frammentazione degli idiomi, origine di tutte le incomprensioni umane. Si potrebbe collocare dalle parti di questo racconto l’inizio della solitudine, se soltanto questa riduzione non fosse sostanzialmente falsa. In realtà, la storia della caduta di Babele e della divisione delle lingue è si significativa per illuminare il problema dell’incomunicabilità e della solitudine, ma va letta al contrario. E’ durante la costruzione della torre che gli uomini sono davvero soli, non dopo l’intervento castigatore di Dio. La divisione delle lingue è il momento in cui comincia una vera comunicazione. Occorre ripercorrere passo passo il racconto per accorgersene. 

Una delle narrazioni più note, citate, vagheggiate e rappresentate dell’intera storia umana occupa solo 9 versetti nel libro della Genesi.

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. [Genesi 11,1-9]

Alcuni elementi saltano all’occhio. La concordia innanzi tutto. La comunità umana che parla la stessa lingua si unisce, senza litigi, per costruire una città, con una torre che tocchi il cielo. Poi si nota lo scopo dell’ambiziosa costruzione, che è duplice: “farsi un nome” e “non disperdersi su tutta la terra”, cioè affermare la propria identità e mantenere l’unità del popolo. Dopo essere “sceso” e aver esaminato con cura l’inizio dell’opera, Dio fa un’annotazione di non poco conto: l’opera non è impossibile. Nell’episodio non c’è traccia dell’ira di Dio che pure si rinviene in modo abbondante in altri luoghi della Scrittura, non emerge un giudizio negativo su quanto gli uomini stanno facendo; eppure il Signore decide ugualmente di punire, disperdendo e dividendo. Se guarda con benevolenza il progetto di Babele, perché poi lo interrompe? 

Alcuni indizi per rispondere si trovano nel Midrash, il grandioso corpo di racconti rabbinici tramandato dalla tradizione. Nell’immenso cantiere i lavoratori addossano ordinatamente mattoni grandi come esseri umani, ciascuno dei quali porta inciso il nome di chi lo depone, “come la firma su un decreto”. Nel corso di 43 anni di frenetica attività gli uomini di Babele depongono seicento mila mattoni, raggiungendo un’altezza di dieci mila miglia “senza essere ancora arrivati a destinazione” cioè senza aver raggiunto il cielo. La scena descritta è quella di una fabbrica operosa ed efficiente, dove anche donne, anziani e bambini svolgono le loro mansioni di supporto con diligenza, poiché “non erano pensabili defezioni ne rallentamenti nel ritmo di lavoro”. 

È un luogo di concentrazione ma anche di distrazione: gli uomini sono a tal punto impeganti che trascurano o dimenticano del tutto ciò che accade al di fuori del loro lavoro:

Se una donna era colta da doglie si distraeva il tempo necessario a tagliare il cordone ombelicale e legarsi al petto il neonato. Poi, col bimbo in collo, tornava ai suoi mattoni. Se tutto andava bene, e nessuno ne dubitava, i figli avrebbero ereditato lo scettro di un mondo nuovo e avrebbero comandato agli astri, alla pioggia, al sole, ai venti, alle piante e agli animali; eppure non si trovava il tempo per dare il benvenuto nel mondo a questi futuri superuomini.

Riluce qui la promessa di un mondo nuovo e di generazioni che dominano gli astri e la natura, ma ancora di più gli autori sottolineano il fatto che queste persone sono come accecate: non pensano ad altro che alla costruzione. Ogni altro evento passa inosservato. Il disinteresse per gli uomini che costruiscono, in favore della costruzione, è documentato con potenza narrativa:

Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire.

Il filosofo Silvano Petrosino ha scritto un densissimo libro sulla questione di Babele intitolato “Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio”, nel quale annota: “la costruzione della torre ha così preso il sopravvento o come si dice con un’espressione in questo caso quanto mai appropriata: ha preso la mano”. 

In nome di un comune progetto totalizzante e monolingue, gli uomini hanno dimenticato le loro stesse vite, i desideri, hanno messo nel retro bottega della memoria le naturali esigenze imposte dal nascere e dal vivere. Il morire è diventato un accidente passeggero, mentre il vero male da scongiurare è il rallentamento di quel processo di edificazione su cui si è investito e “sovrainvestito”, come scrive Petrosino. Che aggiunge: “a dispetto dell’indicazione divina non è dunque più l’uomo a nominare/dominare, ma è la Torre: qui, vera perversione dell’architettura o se si vuole architettura stessa della perversione, è sempre e solo la costruzione a esercitare il suo potere sul costruttore. Il prevalere della costruzione sui costruttori è il centro babelico.

Il dettaglio del nome di ciascuno posto sui mattoni è un’immagine poderosa per descrivere l’identificazione tra il soggetto e l’opera che costruisce, specialmente se si considera che “dare il nome” è un tema decisivo della narrazione biblica. In quel cantiere animato de uno strano misto di concordia e dimenticanza, di perfetta concentrazione e di puro obblio, “l’identità dell’uomo si confonde con quella del mattone: è il mattone ad avere un nome e ogni nome è il nome di un mattone”.

A Babele non va in scena alcun conflitto. Di norma nella Bibbia l’allontanamento dell’uomo dal rapporto con Dio, l’idolatria, sfocia in una scena di violenza, si manifesta con il litigio, l’inimicizia, la rivalità, fino all’omicidio e alla strage. È soltanto a quel punto che il Signore interviene.

A Babele non accadde nulla di tutto ciò, il lavoro procede nel modo più armonioso, guidato da un nobile intento comune che non viene posto in discussione. “La torre da essi costruita, -scrive Petrosino- alla fine prende il sopravvento e domina sugli uomini stessi. Affinché questo dominio si produca non sono necessari ne il potere ne la malvagità di qualcuno, è invece sufficiente, magari per realizzare un impresa grandiosa, dimenticarsi di se, del proprio desiderio, dell’altro e abbandonarsi, con la promessa di un qualche “alleviamento” a quella attività macchinale a cui compete, come genialmente ha riconosciuto Nietzsche, “l’assoluta regolarità, la puntuale irriflessa obbedienza, l’acquisizione, una volta per tutte di un determinato modo di vivere, il riempimento del tempo, una certa autorizzazione, anzi una certa costrizione educativa all’impersonalità””.

Dimenticarsi di se e dell’altro: questo è il prezzo altissimo che la costruzione esige. Gli uomini la edificano insieme, parlando la stessa lingua, ma non lavorano di concerto; non si muovono sinfonicamente ma meccanicamente, come automi in una catena di montaggio, e le parole sono puri segni funzionali per assegnare compiti, ordini, indicazioni su come porre il mattone successivo. A un certo punto tutti hanno sentito migliaia di volte le stesse cose, sanno già cosa fare, sono abituati all’irriflessa obbedienza e autorizzati all’impersonalità. Il loro è un fare senza costruire, un parlare senza dire, un sentire senza ascoltare. Questa è la profonda solitudine di Babele.

Qui si innesta un altro elemento: nel racconto di Babele non si parla di colpa, non c’è condanna ne collera da parte di Dio. Nel Midrasch, al contrario, va in scena un poetico dialogo in cui sono gli angeli che tentano di convincere Dio a intervenire per fermare gli uomini accecati da questa “fatica insensata” [“tu sai che continueranno a guardare in su, Eterno!”], mentre il Signore in qualche modo resiste ai loro suggerimenti spiegando loro che i lavoratori “sono in pace uno con l’altro”, “ faticano di loro spontanea volontà” e la Legge non prevede punizioni per chi costruisce di comune accordo. 

L’Eterno guarda perfino con simpatia l’intento che li muove, ne riconosce la dignità, non teme come una minaccia la loro opera. Ciò che fa scattare la discesa divina è che la costruzione ha preso il sopravvento sulla vita dei costruttori. Gli abitanti di Babele si sono dimenticati di se stessi. I midrascim hanno reso così il ragionamento di Dio: “Li vedo. Si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione. Li ho lasciati fare finora perché non si ingannano e non si uccidono a vicenda, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo, tra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare”. L’Eterno interviene per rianimare queste macchine, per costringere gli uomini a pensare. Quando pronuncia queste parole, il Signore non è irato è “rattristato”. 

Di che natura è la punizione inflitta a Babele? I lavoratori, che fino a quel momento avevano trasmesso con un idioma universale le uniche informazioni meritevoli di essere comunicate, si trovano d’improvviso smarriti sui termini elementari: “Uno chiedo un mattone, e l’altro gli porta della calce: il primo insorge contro il secondo e gli rompe il cranio” è attraverso l’ostacolo del linguaggio che i costruttori si trovano a dover considerare l’altro, che fino ad allora era stato un impersonale ingranaggio inserito in una organizzazione di mirabile efficienza. Da pezzo inerte del cantiere, l’altro diventa un soggetto con cui interagire, se non altro per disporre di un nuovo mattone. La differenza linguistica diventa così quasi paradossalmente lo strumento di una comunicazione che si era interrotta quando la costruzione aveva preso il sopravvento sui costruttori. In questa versione del racconto la divisione delle lingue è l’antidoto alla solitudine non il suo trionfo. La difficoltà nel comunicare risveglia gli uomini di Babele dal loro efficientistico torpore. Per la prima volta dopo molto tempo, si accorgono di essere circondati da persone. 

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