
don Luigi Giussani – Perché la Chiesa pp. 21-24Una illuminazione interiore
Affrontiamo ora il secondo atteggiamento: si tratta della posizione protestante, che è profondamente religiosa e come tale percepisce con chiarezza la distanza sterminata che c’è fra l’uomo e Dio: Dio, il diverso, l’Altro, il Mistero. Il «perché ultimo» è riconosciuto come ben più grande dell’uomo, per sua natura inimmaginabile dall’umana mente, sorgente di una possibilità indefinibile dall’umana immaginazione. Per questo l’uomo religioso vive intensamente la categoria della possibilità. Come disse l’angelo a Maria di fronte al suo turbamento quando le veniva annunciato il concepimento di Gesù: «Nulla è impossibile a Dio».
Questo atteggiamento che stiamo affrontando è ben disposto dunque a comprendere che, se a Dio tutto è possibile, anche sarà possibile il contenuto del grande annuncio: Dio reso presenza. Dio è reso contenuto di una esperienza presente, ma non attraverso e dentro l’umano, perché esso è indegno e incommensurabile con il divino. Più precisamente: Dio si è reso presenza nell’umanità solo in un punto, Cristo.
Ma, allora, come oggi l’uomo potrà raggiungere la certezza di questa presenza, la verità di tale esperienza? L’uomo vi è impotente, trattandosi fatalmente di un mistero. È lo Spirito stesso di Dio che illumina il cuore e, per ispirazione, fa «sentire» la verità della per sona di Gesù. Si tratta di un riconoscimento attraverso una esperienza interiore.
È questo il fulcro dell’atteggiamento protestante. A contatto col testo che Dio ha voluto l’uomo realizzasse come memoria dei suoi rapporti con Lui, la Bibbia, o a contatto con frammenti generati da una storia di fede, o sollecitato dagli accenti di una certa tradizione o di una presente evocazione, il cuore dell’uomo si accende e capisce ciò che è giusto e ciò che non è giusto circa Gesù. Il metodo protestante, perciò, per raggiungere il fatto di Cristo lontano – quello che il grande teologo Karl Barth chiamava «contatto per tangente», una entrata velocissima, non misurabile, inimmaginabile, di Dio dentro la storia dell’uomo sulla terra -è un rapporto interiore e diretto con lo Spirito. È un incontro interiore.
Questa era, tecnicamente parlando, l’esperienza dei profeti: il profeta si distingueva dagli altri del suo popolo proprio perché, di fronte agli avvenimenti, sentiva un annuncio che gli altri non sentivano, ne aveva illuminata la coscienza ed era reso artefice di interpretazione della realtà propria di Dio. Ecco per ché il protestantesimo ha sempre operato una grande valorizzazione di queste figure veterotestamentarie: perché le ha sentite rappresentative dell’atteggiamento a sé più consono. Vedremo poi se, fino in fondo, giustificatamente.
Del resto, questo atteggiamento culturale è quanto c’è di più facile e apparentemente più comprensibile anche per i cattolici. Di fronte a ciò che non si «sente» si è freddi e perplessi, di fronte a ciò che si «sente» si è sicuri e fiduciosi. Se si assume questo come criterio, ognuno è giudice di se stesso, ognuno è profeta di se stesso.
Perciò, se da un certo punto di vista l’atteggiamento protestante è l’opposto di quello razionalistico – perché è religioso in modo purissimo, dominato come è dal fatto che l’Essere è totalmente altro da qualunque umana misura e a Lui tutto è possibile -, dall’altro esiste come pericolo una certa identità tra i due atteggiamenti (non per nulla il razionalismo in campo cristiano è stato diffuso in ambito protestante). Il denominatore comune, infatti, è un ultimo soggettivismo.
Il soggettivismo protestante ha due riflessi interrogativi. Innanzitutto, come si può distinguere se ciò che l’uomo «sente» è il risultato dell’influsso dello Spirito o è l’idealizzazione dei suoi pensieri? Come si può liberare questa metodologia dall’ambiguità? Riandiamo all’esempio dei profeti d’Israele. Dobbiamo ricordare che i profeti d’Israele avevano un grande strumento per mettersi al riparo da questo pericolo di soggettivismo. Il profeta era dato per il popolo ed era proprio il rapporto con il popolo a verificare la sua parola; il tempo e la storia del popolo erano come la verifica della sua parola. La sfida del profeta al popolo è nel tempo: il tempo mi darà ragione, dice il profeta. Così il profeta, nel senso reale del termine, ha di sé una verifica obiettiva: il popolo e il tempo, la storia del popolo. Ma in una situazione in cui ogni uomo fosse profeta di se stesso, come si distinguerebbe una illuminazione dello Spirito dalla codificazione del proprio concetto, un’esperienza determinata dall’Alto dalla espressione di un proprio parere, l’esperienza di Dio in me dalla pretesa di una passione di me?
Il secondo riflesso somiglia alla prima osservazione da noi fatta in merito all’atteggiamento razionalistico: di fatto anche l’atteggiamento protestante dà luogo a una infinità di interpretazioni, di soluzioni diverse, a una inevitabile confusione di teorie. Come potrebbe mai essere che lo stesso Spirito, intendendo entrare in contatto con l’uomo per aiutarlo, abbia voluto usare un metodo moltiplicatore della confusione, di cui l’uomo purtroppo era già perfettamente capace anche da solo?
Ma l’obiezione di fondo non è certo questa: il Signore avrebbe potuto voler utilizzare come strumento per far comprendere il suo annuncio un puro rapporto individuale con lo spirito umano. A priori non si potrebbe dire sì o no a una simile eventualità.
La vera obiezione è che questo atteggiamento non rispetta i dati dell’annuncio cristiano, i connotati originali di questo annuncio: un divino che si è fatto uomo, un uomo che mangiava, beveva, dormiva, che si poteva incontrare per la strada, qualcuno che uscendo di casa si poteva incontrare al centro di un piccolo assembramento di altri uomini mentre parlava, e le sue parole colpivano l’anima. Le sue parole cambiavano dentro, ma venivano dal di fuori. Cioè: l’annuncio cristiano è un fatto integralmente umano secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi e oggettivi. L’atteggiamento protestante annulla questa integralità, riduce l’esperienza cristiana a esperienza meramente interiore. È un apriorismo cui non ha diritto.