Le tentazioni di Gesù

don Paolo Prosperi

Il tema che mi è stato assegnato è un tema scomodo, un tema inattuale, un tema politically uncorrect, non solo perché oggi parliamo di quaresima, ma perché parliamo di quaresima da un’angolatura, da un punto di vista che è oggi di preferenza schivato, perchè considerato mitologico, persino da tanti teologi. 

Il tema di cui sto parlando è quello dell’esperienza della tentazione, della guerra spirituale. Una guerra che non è semplicemente metaforica, come vogliono alcuni. Non si tratta cioè di una guerra con le nostre passioni soltanto, con le nostre malattie interiori. No, si tratta di una guerra che ci oppone a un avversario reale, misterioso ma reale. La scrittura lo chiama il “maligno” o “Satana” o “Diavolo”. Pochi oggi ne parlano e chi ne parla, spesso ne parla in un modo che non aiuta a rendersi conto del perché sia importante (e salutare!) rendersi conto del fatto che il nostro cuore è in effetti – come diceva Dostoevskij – il campo di battaglia tra Dio e lo Spirito ribelle.

E’ molto interessante da questo punto di vista il fatto che nessuno ha parlato così tanto del diavolo come Gesù. L’Antico testamento ne parla pochissimo. Ora, se Gesù è colui che -come egli stesso ha detto – viene a rivelarci la verità, quella verità che ci fa liberi, allora vuol dire che, paradossalmente, parte di questa pienezza della verità – quella verità che ci aiuta a vivere la nostra vita con più gusto, con più sale, con più consapevolezza, con più maturità – è anche l’aver presente che una dimensione fondamentale della nostra esistenza, che proprio nel tempo di quaresima siamo chiamati a riscoprire, è proprio questo tema, questa realtà della guerra dello spirito. Lo dice bene san Paolo: “La nostra guerra non è contro la carne e il sangue ma contro i principati e le potenze”. (Ef 6,12)

Non è a caso che la prima domenica di quaresima, sempre la Chiesa ci fa entrare nel mistero di questo tempo, che è un tempo di purificazione, un tempo di lotta spirituale, proprio con il racconto delle tentazioni di Gesù. Di fatto, questa è l’icona che la Chiesa tutti gli anni ci mette davanti agli occhi – ci piaccia o no – all’inizio della quaresima: l’immagine di questo Gesù, di questo Figlio di Dio che si lascia condurre dallo Spirito nel deserto, per combattere con il maligno per 40 giorni. Perchè?

La prima risposta che vorrei suggerire e che forse può sembrare banale (ma non lo è) è questa: prima ancora di guardare alla “nostra battaglia” o alle piccole e grandi battaglie, alle piccole o grandi prove in cui ci sentiamo impegnati, la Chiesa ci invita a distogliere lo sguardo da noi stessi, per fissare l’attenzione sul fatto che il Signore ha già combattuto, con noi e per noi, la guerra col Maligno: la battaglia con il maligno non è innanzitutto la mia battaglia. É anche questo. Ma prima ancora è innanzitutto la battaglia di Cristo, la battaglia che egli ha combattuto per primo, vincendola per me.

Non ci può essere uno sguardo sano su questa dimensione così bella, epica, guerresca, cavalleresca della nostra vita, non può esserci uno sguardo sano e perciò anche entusiasmante su questa dimensione della nostra vita, se il punto di partenza non è questo – ecco la saggezza della Chiesa! se vuoi vincere, non guardare innanzitutto a te stesso, ai tuoi problemi… guarda Lui, fissa lo sguardo su di Lui, sul Signore che entra nel deserto per lottare per te e con te.

La prima cosa sia lo stupore rinnovato, per questo Dio che è sceso nella mischia, che si è fatto carne, si è fatto a tal al punto carne da arrivare a sperimentare realmente la debolezza della nostra carne – ebbe fame! – fino al punto da arrivare a lasciarsi tentare, da lasciarsi colpire, da sentire nella sua carne il morso della debolezza della carne, il morso della tentazione, così da vincerla da uomo, come uomo, con noi e per noi. Il primo punto dunque è questo: quello che innanzitutto deve dominare, all’inizio della quaresima, è uno stupore per questo figlio di Dio che, per così dire, è attratto, è affascinato dall’idea di poter vivere la sua comunione col Padre da uomo, nella tribolazione, nella battaglia che è di noi uomini. E così aprirci una via umana, insegnarci come si può essere figli di Dio rimanendo uomini, nel mezzo della tribolazione della storia, senza fuggire dalla battaglia. 

San Bernardo diceva: “Quel che sapeva da sempre come Dio, ha voluto sperimentarlo come uomo”. E la lettera agli Ebrei dice qualcosa di ancor più vertiginoso: “imparò l’obbedienza da ciò che patì”.Ma anche il vangelo di oggi è straordinario: “ebbe fame”. Ebbe fame. E’ Dio! Dio! Ebbe fame. Proprio come me e te. Ha voluto sentire il dolore della fame. Basterebbe fissare questo per sentirci meno soli. Di più: per sentirci in qualche modo fieri di essere uomini – per sentire che c’è qualcosa nella nostra condizione di lottatori misteriosamente grande – così grande che ha attratto Dio stesso. Poteva salvarci forse in altri modi. Invece ha voluto gustare la lotta, con noi, insieme a noi.

Ecco allora. Lasciamoci colpire da questo paradosso: se il Signore ha voluto salvarci non con la bacchetta magica, ma piuttosto lottando da uomo con noi, è perché in questo lottare ci deve essere qualcosa di glorioso, di bello, di grande – un valore, un guadagno, anche se magari non capiamo ancora bene di che gloria si tratti.

Fissiamo lo sguardo su Gesù, su questo Figlio di Dio che entra nel deserto, nella nostra solitudine – che fa sua la nostra solitudine – che vuole sperimentarla, vuole farla sua. Se lo facciamo, con gli occhi della fede, allora ci renderemo conto, pian piano, che questa stessa memoria, come per una misteriosa alchimia, già cambia, già trasfigura il nostro modo di guardare alla nostra solitudine, al nostro dramma, alla nostra battaglia. Perché? Perché ci rivela che non siamo soli. Di più, ci rivela che la nostra battaglia è preziosa, è importante, vale la pena, tanto è vero che il Signore l’ha voluta far sua. Di più ancora: Egli ha anche vinto. Egli combatte e vince per tutti. E’ il vittorioso. La guerra con il maligno, da un certo punto di vista è già vinta.

Egli ha già vinto, eppure – ecco il secondo punto – allo stesso tempo non vuole risparmiarmi la lotta. Ecco un nuovo paradosso. Perché? Se egli ha già vinto – perché devo combattere anche io? Ma è proprio qui il bello. Egli vince, ha già vinto – da un certo punto di vista- per noi, per tutti. E tuttavia non in modo tale da sostituirmi, da scansarmi ogni fatica. Ma piuttosto in modo tale da darmi per far mia la sua vittoria. E questo non è un di meno di generosità, non è un di meno di carità, non è un di meno di Misericordia, bensì un di più di carità, di generosità. Infatti, la generosità del Signore si manifesta forse nel modo supremo proprio in questo: nel fatto di non toglierci l’onore di essere co-protagonisti della sua vittoria. È una cosa molto più grande che se facesse tutto da solo. Ci vuole compagni, commilitoni suoi. La forza ce la dà lui. In un certo senso, ci dà lui tutto l’occorrente. Ma vuole la nostra gloria, non solo la Sua!

Torniamo così al punto iniziale. Perchè è bello questo fatto – che cioè al Signore non basti -per così dire- salvarci, ma che voglia che la vittoria sul male sia anche nostra? Perchè è più amore così, è più generoso così. E Dio tutto fa, tutto orchestra, tutto dispone perchè la sua generosità, la sua sovrabbondante bontà sia resa più manifesta. Il più manifesta possibile. Tutta la forza, tutta l’energia, tutta l’intelligenza necessaria per combattere viene da Lui, viene da questa vittoria che si è già consumata nella sua carne. Ma nello stesso tempo, nella sua generosità, Egli non vuole toglierci l’onore di essere protagonisti, di essere sul campo con Lui, di fare nostra quella vittoria che in realtà è Sua. 

Come è importante questo! Come è importante sentire il nostro istante, la nostra ora, la nostra piccola battaglia quotidiana – che ci sembra così meschina a volte-, come parte di questa guerra cosmica per l’instaurarsi del regno di Dio, perché il regno di Cristo possa conquistare un centimetro in più. Come è importante sentirsi con fierezza protagonisti di questa guerra per la salvezza del mondo – sì, del mondo -, ognuno portando il suo piccolo o grande contributo, nel piccolo pezzo di mondo che ci è affidato, fosse anche identico alle quattro mura della nostra casa.

Sono sempre più convinto, e l’esperienza pastorale me lo ha confermato, che tanta depressione dei giovani oggi, paradossalmente non venga dal fatto di sentirsi inadeguati, o dal fatto di non essere bravi abbastanza, ma piuttosto dall’aver perso il senso di essere coinvolti in una battaglia ideale di vaste proporzioni, dal fatto di non sentirsi parte di nessun esercito, di non sentirsi soldati di nessun Signore – oggi infatti è sospetta qualsiasi forma di appartenenza (diventi subito un sovranista!). Ecco ciò che si è perso. Il sentimento di essere parte di un esercito che lotta per il regno del bene – che è poi l’unica cosa che fa passare in secondo piano la tristezza per il fatto di essere pedone e non cavaliere, di essere basso e non alto…

Tanti psicologi, nell’assenza di grandi ideali, pensano che l’unico problema della vita sia arrivare all’auto-accettazione. Vado bene così, questo è il giudizio cui un uomo deve poter arrivare per essere maturo: accettati, e tutto andrà bene. Certamente, in tanti casi questo è vero. Ma non basta. La pace non si raggiunge mediante l’auto-assoluzione ad oltranza. A dire soltanto: vado bene così, ciò che si ottiene non è la pace, ma il rattrappirsi dell’io. Perché quello di cui io ho veramente bisogno, più ancora che sentirmi a posto, che sentirmi perfetto, è sentirmi parte di una compagnia che vive una grande avventura, sentire di avere una missione grande, a prescindere dalle mie capacità, virtù, purezze sempre poi così astratte.

Tante volte rischiamo di costruirci un Dio a nostra misura, un Dio flaccido che chiamiamo misericordioso, ma che in realtà col vero Dio della misericordia, che si è rivelato in Gesù Cristo, ha molto poco a che fare. Perché avere misericordia, cioè letteralmente avere a cuore il misero, significa piegarsi per innalzare chi è misero, non accarezzarlo e poi lasciarlo nel fango in cui è. Una Misericordia che non ha la forza per risollevare l’amato, di trasformarlo, di dargli le armi di cui ha bisogno per alzarsi, per rialzarsi ed ergersi dignitoso, che Misericordia è? Che amore è? L’amore vuole unità con l’amato. L’amore vuole dare all’amato ciò che è proprio – vuole sollevare l’amato. Allora certo, la forza della grazia non viene da noi. Noi non siamo niente, siamo deboli, siamo fragili, siamo pieni di ferite. Eppure Dio non ci amerebbe, non sarebbe un Dio veramente amante se non fosse un Dio che davvero scende per comunicarci la sua vita, ciò che è suo, per dare a noi la forza che è Sua.

Ma chiediamoci ora -terzo passaggio- in che cosa consiste questa battaglia di Cristo? In cosa consiste questa guerra con il nemico che egli ha voluto affrontare per noi, in nostra vece – facendosi, per così dire, nostro condottiero? 

Nei vangeli sinottici troviamo tre versioni sensibilmente diverse del racconto delle tentazioni: quella di Marco, quella di Matteo e quella di Luca. Ciò che però hanno in comune è, primo, che tutte ci dicono di un tempo di 40 giorni trascorso da Gesù nel deserto e, secondo, che Gesù va nel deserto per essere tentato dal diavolo.

Innanzitutto c’è dunque quest’enfasi sul numero dei giorni, 40. Perchè 40? Il numero 40 sembra che simbolizzi nella Scrittura la totalità della storia, del cammino di Israele nella storia. Il numero 40, insomma, indicherebbe il tempo necessario per maturare, per essere educato, per crescere nella sequela della parola di Dio. 40 sono infatti gli anni che Israele ha trascorso nel deserto sulla via dall’Egitto verso la Terra promessa. E 40 sono i giorni che Mosè ha trascorso sul monte prima di ricevere le tavole della legge. 40 devono così essere anche i giorni che Gesù trascorre nel deserto tentato da Satana. In realtà però questo numero allude al fatto che il tempo della tentazione non finisce per Gesù alla fine dei 40 giorni. In qualche modo, il tempo della tentazione si estende lungo tutto l’arco della vicenda umana di Gesù, per culminare – come suggerisce Luca – alla fine del suo racconto delle tentazioni: “allora Satana si ritirò per tornare più tardi”nell’ora della passione del Signore. In realtà la battaglia combattuta da Gesù nel deserto di Gerico, non è che l’anticipo di una lotta ben più furiosa, che Gesù dovrà combattere durante i giorni e le notti della Settimana Santa. 

In realtà il deserto – in Greco eremos, che significa luogo di solitudine – inteso come spazio fisico, non è che il simbolo di un deserto ben più arido e rovente in cui il Signore dovrà entrare: il deserto dell’ora della croce, l’ora della grande sete, l’ora in cui egli dovrà patire una solitudine e una fame infinitamente più intensa di quella patita già nel deserto. In questo senso il ministero di Gesù inizia con le tentazioni ma in realtà è un crescendo. Le tentazioni descrivono una dinamica che deve aver caratterizzato tutto il ministero di Gesù, tutta la sua missione.

Lo stesso è vero per noi. La quaresima è un tempo paradigmatico, un tempo educativo. Ma in realtà tutta la vita è prova, tutta la vita è una guerra per l’affermarsi in noi e attorno a noi del Regno di Cristo. In quaresima siamo chiamati ad immergerci di più in quella che è una dimensione permanente della nostra vita.

Passiamo oltre: prima domanda, come comprendere il significato profondo e per così dire simbolico, cioè appunto ricco di significato, di questo andare nel deserto? Perché nel deserto? Che cosa è il deserto? Che luogo è? Seconda domanda: chi è questo personaggio misterioso, Satana come lo chiama il Vangelo di Marco, il diavolo come è piuttosto chiamato nel Vangelo di Matteo?

Lasciamo per ora da parte la prima domanda, cioè il tema del deserto. Vi torneremo poi parlando della prima tentazione – infatti il deserto è legato, da un punto di vista simbolico, soprattutto alla prima tentazione, come vedremo. Concentriamoci invece sulla seconda domanda – la più spinosa: chi è il diavolo? Sappiamo che il diavolo è un angelo caduto. Il più grande e potente, secondo la tradizione: Lucifero, l’angelo ribelle. Sarebbe interessante dedicare un’intera meditazione a questo tema di cui di fatto nessuno più parla, sia perché, come ho già detto, lo si considera oggi mitologico, sia perchè in effetti si tratta di un mistero profondissimo e di cui la Tradizione non ha detto molto – un mistero in effetti difficile se non impossibile da sondare. E tuttavia un mistero, io credo, di una grandissima attualità. Viviamo nel tempo del liberalismo. Il liberalismo è la grande ideologia del nostro tempo, una ideologia, come la parola liberalismo ben dice, che fa appunto della libertà il valore supremo, il valore assoluto, sull’altare del quale sacrificare tutti gli altri. Ma che cosa è vera libertà? Domanda tutt’altro che facile. Ed è per questo, io credo, che il tema della caduta dell’angelo ribelle, sia oggi più che mai degno di meditazione. Non è forse per brama di libertà che Lucifero si è ribellato a Dio? Ma perché lo ha fatto? Misteri – “domande nell’oscurità”, direbbe Gandalf… Non possiamo addentrarci in questo complesso problema. È forse prudente non farlo. Certo è che il fascino dell’anarchia, dell’auto-determinazione assoluta, è un fascino che forse mai l’umanità ha avvertito potentemente come oggi – oggi che l’uomo sembra aver raggiunto, grazie alla tecnologia il potere di cambiare persino il proprio genere e forse un giorno di eliminare malattie e morte? 

Per quanto qui ci riguarda, e cioè il “ruolo” di Satana come tentatore dell’uomo, mi pare importante fissare l’attenzione sull’espressione, così pregnante, usata da Gesù nel vangelo di Giovanni. In Gv 8,44 Gesù dice del diavolo che egli è menzognero e “padre della menzogna”.Questa espressione può essere intesa in diversi modi: si tratta solo della menzogna con cui egli ha ingannato Adamo ed Eva al principio oppure c’è una menzogna ancor più originaria? Non mi soffermo su questo. A noi interessa il modo in cui Satana seduce l’uomo e interferisce nel piano buono di Dio: con la menzogna. Il riferimento di Gesù è chiaramente a Genesi 3: il famoso racconto della caduta.

La prima menzogna mediante cui il serpenteha cercato, e con successo, di sedurre l’uomo per rovinarlo, è quella di cui la Scrittura ci parla in Genesi 3. Ma domandiamoci: che cosa è la menzogna? E da dove viene il suo devastante potere? La menzogna, in particolare quel tipo di menzogna che ha il potere di sedurci, e perciò di tentarci, di diventare occasione di tentazione, è sempre una parola che contiene un misto di falso e di vero. Se non contenesse una apparenza di verità, un qualcosa che la fa sembrare credibile e interessante, non avrebbe forza attrattiva. Una menzogna efficace, non può essere palesemente falsa, interamente, trasparentemente falsa. Se no chi ci cascherebbe? In questa luce, il nome stesso che la bibbia dà all’angelo caduto, diventa interessante: la parola diavolo, infatti, viene dal Greco diabolos, che vuol dire divisore, colui che divide. Il Demonio è il Divisore. Divisore di che? Di tante cose. Innanzitutto, delle parti della realtà. Il diavolo separa, divide ciò che è unito, divide la realtà in pezzi isolati, così che noi non li vediamo più per quello che sono – cioè appunto parti di un tutto, di una totalità piena di senso – ma isolatamente. Il diavolo, è colui che ti mette i paraocchi e ti fa guardare un pezzo della realtà come ci fosse solo quella: questa è tutta la verità.Quando invece quel particolare è parte di un contesto! Certo, quel pezzo su cui lui ti fa fissare gli occhi è reale, esiste. Ecco la parte di verità, l’apparenza di verità. Ma non è tutto! Staccato dal quadro totale, quel particolare diventa bugia, diventa qualcosa di mostruoso, di non reale. Altro da ciò che è.

Basta leggere attentamente il racconto di Genesi 3 per rendersi conto di come questo sia esattamente il modo con cui il serpente astuto agisce, mette in atto i suoi loschi piani…

Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “E’ vero che Dio ha detto che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”

Attenzione! Sentite dove sta la bugia? Dio aveva dato ad Adamo ed Eva da mangiare di tutti gli alberi del giardino eccetto uno. Il diavolo non mente su tutto. In effetti un divieto c’è stato. Ma egli lo ingrandisce, assolutizza quell’aspetto, fa sì che Eva veda solo quello e si dimentichi della generosità che il Signore ha dimostrato concedendole di mangiare di TUTTI gli altri alberi. Il diavolo agisce così: la sua arma è la lente di ingrandimento, potremmo dire. Guarda li, guarda li, guarda li… senza guardare il resto!

Non morirete affatto, anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza.

Anche qui, notiamo l’ironia dello scrittore sacro: come fai a vedere che un frutto è buono senza averlo mai gustato? Non puoi saperlo a priori, quindi si capisce che questo giudizio è infondato, viene da un annebbiamento della vista. Prodotta da che? Appunto dal fatto che Eva ha guardato nella lentedel diavolo, quella lente che gli ha fatto vedere quel frutto in un modo deformato. Il peccato, potremmo dire, comincia lì… poi è già troppo tardi. Mi pare istruttivo! 

Prese del suo frutto e ne mangiò. Poi lo diede anche al marito che era con lei e anch’egli ne mangiò.

Voglio farvi notare solo altre due cose semplici -si potrebbe commentare a lungo questo testo, come vedete è pieno di dettagli ricchi di senso profondo. La prima è questa: la proposta del serpente astuto non sarebbe seducente – il frutto non potrebbe apparire buono agli occhi di Eva – se in effetti, quel che il Serpente promette, non fosse qualcosa in effetti buono, in effetti desiderabile: acquistare saggezza (si noti anche qui l’ironia: l’inizio della sapienza – dice la Bibbia – è il timore del Signore. Col suo atto Eva sta facendo, per ottenere sapienza, una cosa che è il contrario di un atto di sapienza!). Insomma, se l’uomo non fosse in effetti destinato a diventare come Dio – diventerete come Dio! Questo ha promesso il Serpente – Eva non avrebbe mai allungato la mano verso il frutto dell’albero, perchè vi avrebbe visto nulla di invitante.

In effetti, anche poco prima, in Genesi 1,26-27, ci era stato detto che l’uomo è stato creato ad “immagine e somiglianza di Dio”:siamo fatti per risplendere gloriosi come dei: “Vi ho detto: Siete dei”dice il salmo (Sal 82, 6; Gv 10, 34). Certo, bisognerà poi capire in che senso abbiamo questa vocazione a diventare come Dio e che cosa davvero vuol dire per l’uomo risplendere di gloria simile a quella di Dio: “Di gloria e di onore lo hai coronato. Lo hai fatto poco meno di te. Ogni cosa gli ha sottomesso” dice il salmo 8. Siamo fatti per la grandezza, per essere poco menodi Dio, e lo sentiamo dentro, sentiamo questo slancio verso la gloria, verso l’altezza, verso la grandezza, verso la vita divina.

Allora non è in questo desiderio di grandezza, di elevazione, che sta il peccato di Adamo. Ma piuttosto nel modo in cui Adamo ed Eva si sono mossi verso quella che, in effetti, era la meta per cui erano fatti. Il che presuppone, certamente, anche una certa ignoranza circa la natura di questa meta! In Gesù soltanto noi scopriamo in cosa consiste la vera altezza – che è quella dell’amore che serve!

Ma restiamo su Adamo, per ora: c’è dunque nella bugia del diavolo una parte di verità e una parte di menzogna. La verità è che Adamo non può mangiare tutto, non può fare tutto quel che vuole, deve obbedire, deve fidarsi. La menzogna è che questo fidarsi è dovuto alla gelosia di Dio, che lo vuol tenere sotto.

Il peccato di Adamo, dunque, – questo è così importante da tener presente – non stette nel volere troppo“Tutto è vostro-dice san Paolo – ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”. Il peccato non sta nel volere essere come Dio. Ma nel voler diventare come Dio – diceva Massimo il Confessore – senza Dio e indipendentemente da Lui, senza obbedienza, senza dipendenza, senza figliolanza: ecco la parola chiave, la parola decisiva. La vera strada verso la gloria è la figliolanza, è la sequela di colui che è interamente Figlio, Gesù Cristo.

Tutti ardiamo del desiderio di vita, di libertà, di grandezza, di gloria. Vogliamo la vita – ma la vera domanda è: che cos’è questa vita che desideriamo, questa vita divina, questa vita-vita? Il diavolo propone a Gesù, in fondo, la via dell’autonomia. Diventare come Dio significa per l’uomo espandere il proprio potere, la propria autonomia, la propria capacità di dominio, di gestione della realtà: far andar le cose bene, per il verso giusto, da sé, con le proprie forze. 

Pensiamo a quanto questa idea di somiglianza divina è impressa nella psicologia dell’uomo contemporaneo e quindi anche nella nostra. Tu sei la tua performance, la tua capacità –come si dice in America, il paese da cui vengo – make the difference, fare la differenza: l’ideale è il self-made man. Contro questa concezione, questo miraggio, si erge la via di Gesù, per il quale essere Figlio di Dio, essere divino, vuol dire qualcos’altro, vuol dire l’opposto, vuol dire radicale obbedienza, vuol dire sequela del Padre, nella fiducia che Egli non tradisce.

Chi ha ragione? E perché Gesù ha ragione? Perché la via di Gesù è più vera – quella cioè che a conti fatti porta davvero alla gioia, alla pienezza della vita, alla gloria, mentre l’altra via è illusione – cioè non dà ciò che promette? Perché in fondo è tutta qui la questione: chi ha ragione? Satana o Gesù?

La differenza tra le due vie non sta nella meta che promettono. La differenza sta nella via. In fondo, tutte le cose che il diavolo suggerisce a Gesù di fare, sembrano modi per realizzare quello che è in effetti la missione e quindi il contenuto del desiderio di Gesù: diventare re dell’universo – il vero Adamo – il re che dà inizio ad una nuova era, un’era di vita piena – di vita “in abbondanza”.

Per rispondere alla domanda posta, dovremmo commentare nel dettaglio ciascuna tentazione. Purtroppo però ho già parlato molto. Quindi mi limiterò a commentare un poco la prima – facendo magari qualche accenno alla seconda, che è la più sottile, quella su cui di solito ci si sofferma meno, perché in effetti è più misteriosa. Ritengo però sia particolarmente attuale – per questo vorrei farvi almeno un accenno. 

Le tentazioni, almeno secondo la presentazione di Matteo e Luca – lo sappiamo – sono tre. La prima è la tentazione materialista“Se sei il figlio di Dio, dì a queste pietre di diventare pane”. La seconda, sarei tentato di chiamarla tentazione liberista“se sei figlio di Dio, buttati giù, non aver paura, sei libero, puoi far quello che vuoi, se il figlio di Dio!”. Non è quello che ci dice anche san Paolo? Non è forse la “libertà dei figli di Dio”, l’affrancamento dal giogo della legge, il grande dono che Cristo ci ha portato? Infine la terza tentazione, la tentazione del potere– in cui viene infine alla luce l’immagine, l’idea che Satana ha di quel che vuol dire diventare come Dio (forse perché fin dal principio si è immaginatoche Dio sia Lui stesso un padre-padrone?) 

Bene, cominciamo con la prima – la tentazione materialista. É venuto il momento di tornare al tema del deserto – che se ricordate avevamo prima lasciato in sospeso. Come già detto, è certamente plausibile che, da un punto di vista storico, Gesù abbia combattuto col diavolo nel deserto come dice Marco. Tuttavia, se ci atteniamo al racconto di Luca e Matteo, scopriamo una cosa interessante: in realtà il deserto fa da “ambientazione” soltanto alla prima tentazione, perché la seconda si svolge sulla cima del pinnacolo del tempio, dove il diavolo trasporta Gesù, mentre la terza su un monte altissimo. E ciò significa: il deserto, da un punto di vista simbolico, è legato in modo particolare al tema del pane, alla prova della fame. Perchè? In che senso? 

Cominciamo appunto dalla fame. Abbiamo parlato prima della caduta di Adamo – che specialmente in Marco chiaramente fa da sfondoalla lotta di Gesù con il Serpente– infatti si dice che le “bestie servivano Gesù”chiara allusione all’Adamo della Genesi. Ebbene, è interessante che anche nel caso di Adamo la caduta in tentazione ha a che fare col mangiare, col cibo. Perchè? Perchè il tema del mangiare è così importante? 

Si potrebbero dire tante cose. Mi concentro su una sola delle possibili risposte che diviene chiara leggendo attentamente il racconto di Matteo: “Gesù pieno di Spirito Santo si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove per quaranta giorni fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: Se tu sei figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane. Gesù gli rispose: Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo”. 

Primo, “ebbe fame”.Gesù sperimenta nella sua carne cosa vuol dire per l’uomo “aver fame”– quale prova sia il bisogno di salvezza fisica. L’uomo è spirito, ma è anche corpo. Noi non siamo angeli. Siamo carne, e quando la carne soffre tutto quanto, ragione e cuore, tutto l’uomo si indebolisce. Gesù per la prima volta è come se assaggiasse cosa vuol dire per l’uomo trovarsi nella misera umiliante situazione di bisogno in cui dopo la caduta si trova, pieno di bisogni, acciacchi, malattie – angosciato di continuo dalla minaccia della morte. Mai come ora, in tempo di Covid, possiamo renderci conto di quel che deve aver provato Gesù nel fare questa esperienza. Ecco allora la prima grande tentazione: eliminiamo la fame, eliminiamo la malattia, magari la morte… eliminiamo l’indigenza materiale, il bisogno materiale dell’uomo, liberiamocene. E allora tutto andrà meglio, gli uomini diverranno migliori. Diverranno anche più spirituali, forse… 

Mi pare evidente l’attualità straordinaria di questa tentazione. Che cos’è il transumanesimo – cioè quell’ideologia sempre più popolare – che si propone di instaurare un regno di perfetta felicità eliminando per via tecnologico-scientifica fame, malattia, debolezze fisiche e mentali – e forse un giorno la morte? Ma se anche si riuscisse a fare tutto questo, si sarebbe con ciò data all’uomo la felicità, la vita piena che desidera? La prima tentazione è l’identificazione della vita, di questa vita divinadi cui abbiamo parlato, con il benessere: Se c’è la salute c’è tutto– c’è tutto. 

Certamente, come abbiamo detto prima, Gesù capisce bene quanto seria sia la questione del benessere. Non siamo angeli, siamo esseri di carne. La nostra felicità è quindi legata inevitabilmente anche allo stato del nostro corpo. Ma ecco dove la bugia diabolica – diabolica nel senso detto sopra – si inserisce: il benessere è un bene ma non tutto il bene – è parte di un tutto. Non è un assoluto. Come è importante ripetercelo in questo tempo che ci tocca vivere: non di solo pane vive l’uomo. Non di solo pane – e nemmeno di sola salute – vive l’uomo!

Di che cosa dunque vive l’uomo? Che cosa soddisfa davvero il bisogno di vita dell’uomo? Gesù dice: “ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.Che tradurrei così: il pane non basta, non ha un saporesufficiente a nutrirmi davvero, se non lo ricevo come parola di Dio, cioè se non vedo nel pane un dono di Dio, cioè un segno d’amore, un segno dell’amore del Padre. É questo che da vita vera: l’amore – l’uomo alla fine ha sete e fame d’amore e trova vita, quando diviene capace di sentire ogni cosa, ogni volto, come parola di Dio, cioè piena di infinito, della voce dell’Infinito. Senza questa esperienza – paradossalmente – anche il pane più buono stufa, prima o poi da nausea. Parafrasando le parole di Gesù, si potrebbe dire – non sono le pietre che divengono pane – ma il pane che diviene pietra, che perde gusto. Il giardino pieno di frutti diventa deserto.

Ecco che allora si capisce il deserto. Da una parte il deserto è simbolo del luogo in cui l’uomo – Adamo – si è ritrovato a causa del suo peccato, cioè del suo distacco da Dio. In realtà il deserto non è un luogo diverso dal giardino, dalla realtà in cui viviamo. Il deserto è la realtà vuota di Dio, vuota di mistero, muta, che non sa dire altro che se stessa… si può essere in una città piena di gente e sentirsi nel deserto, come dice la Traviata: “sola, abbandonata, in questo popoloso deserto che appellano Parigi…” 

D’altronde il deserto non è solo luogo di castigo. O meglio il castigo, nella bibbia ha sempre scopo educativo, è strada di purificazione. Quello stesso deserto che è contrappasso diviene allora anche luogo di grazia. Perchè? Perchè nel deserto, proprio perchè non hai nulla più cui attaccarti, puoi renderti conto di quella fame più vera, profonda, che quando te la godiè come soffocata, più facilmente dimenticata. Ecco allora il valore dell’astinenza. Il valore dell’astinenza, sta proprio in questa memoria attiva del fatto che “non di solo pane vive l’uomo”– lo scopo dell’astinenza, del volontario andare nel deserto, è il risveglio della fame e sete di Dio – quella fame e sete che poi, ecco la questione, è ciò che ci porta a gustare il pane cento volte tanto – come dicevo prima.

L’astinenza, ha come scopo il recupero del sentimento della “donatezza”, per così dire, del pane (non è vero lo stesso della castità?). Chi non vive il gusto di questa povertà attiva, di questa arsuravolontaria, non si perde soltanto Dio. Ecco l’ironia della questione: si perde anche il mondo, il gusto pieno del mondo. Senza Dio anche il pane materiale, anche il volto della donna che ami, tutto ciò che è buono e bello al mondo, il lavoro che ami, il gioco, tutto si svuota del suo gusto, della sua bellezza, del suo splendore. Il giardino diventa deserto.

Ecco allora il paradosso: quanto più vedi il Mistero presente in ogni cosa, tanto più davvero anche le pietre diventano pane, anche le circostanze dure si riempiono di significato, di valore, di appello… invece, senza memoria del Mistero anche il pane diventa pietra! Ecco allora perchè davvero è Gesù, e non il diavolo che ha ragione: di fatto, senza Dio si perde il mondo, si perde il gusto del mondo, della donna, del fiore. Ed ecco anche perchè il deserto è in qualche modo necessario per ritornare nel giardino, nella terra promessa. Perché il Signore ci chiede digiuno? Non per flagellarci, non per toglierci il gusto, il sapore della vita in questo mondo, ma paradossalmente per accrescerlo, per guarire i nostri sensi, per farci gustare pienamente quelle realtà che ci sono affidate, che ci sono donate perché siano nostre, perché le possediamo con verità, perché le gustiamo con verità. “Tutto è vostro”dice San Paolo. Ma diventa vostro, solo nella misura in cui ricominciate a vedere tutto ciò che vi è dato di toccare, vedere, gustare, baciare come segno del mistero che in ogni istante fa ogni cosa.

Capiamo allora anche un’altra cosa, e cioè che in fondo tra le diverse dimensioni della quaresima, le tre grandi vie di conversione che la Chiesa ci propone: digiuno, preghiera ed elemosina, c’è in realtà una circolarità virtuosa. Sono dimensioni di un’unico dinamismo, che non possono mai essere separate l’una dall’altra. L’astinenza, infatti, non è fine a se stessa. Essa è piuttosto quella presa di distanza, quel distacco che mi permette di recuperare uno sguardo più vero sul volto della persona che ho davanti, uno sguardo trasformato dalla memoria di Dio – che è la preghiera. Senza distacco, senza un certo ritiro nel deserto non c’è preghiera, e senza preghiera non cambia il nostro sguardo sugli altri – quel cambiamento in cui consiste la carità, ecco il terzo elemento. 

Visto che mi sono dilungato sulla prima tentazione, solo un accenno alla seconda (nella versione matteana, perchè in Luca è l’ultima – fatto intrigante: chissà perchè…)

“Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: se sei figlio di Dio gettati giù perché sta scritto, ai suoi angeli darà ordine a tuo riguardo ed essi ti sorreggeranno con le loro mani perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede. Gesù gli rispose: sta scritto anche: non tentare il Signore Dio tuo”.

Mi sembra che questa tentazione – che certamente è la più sottile, la più difficile da capire, forse può anche sembrare la più distante – descriva invece una dinamica molto diffusa oggi, soprattutto tra noi – voglio dire nella Chiesa. Infatti, dove si svolge la tentazione? Sul pinnacolo del tempio. E ciò significa: Si tratta di una tentazione che è tipica di chi sa di essere nel tempio, di chi sente di poter confidare in una relazione con Dio su cui può fare affidamento, forse troppo affidamento: “Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo”…

È la presunzione di cui parla san Paolo quando dice: “Purchè la vostra libertà non diventi pretesto per vivere secondo la carne.”Questa presunzione per cui nel nome della Misericordia, ci sentiamo in fondo sempre a priori giustificati, liberi, ma in un senso falso, in fondo gnostico. Gnostico nel senso che confondiamo la fede nella Misericordia, la certezza nella potenza del perdono di Cristo, con una sorta di permanente auto-assoluzione, che sfoca i contorni del bene e del male. Tutto diventa banale, tutto diventa uguale, tutto diventa indifferente… E così ancora una volta l’inganno del maligno viene a galla.

Come nella prima tentazione l’ironia stava nel fatto che nell’assolutizzare il pane, se ne perde il gusto, così lo stesso è vero di questa falsa libertà, di questa libertà, libertina, gnostica. Questa libertà per cui in nome della fedenel Dio buono, non ci accusiamo più di nulla, in realtà si auto-annulla, si dimostra una libertà ben povera. Questa libertà, diciamocelo, è la morte della libertà. Perchè? Perchè se tutto è uguale, se tutto fa lo stesso, allora le mie scelte non fanno più nessuna benedetta differenza. E allora dove sta il valore della mia libertà, del mio scegliere? Se tutto è uguale, allora vuol dire che a Dio non importa nulla se scelgo a o b, x o y – vuol dire che la mia libertà ai suoi occhi non conta nulla. E invece conta, conta! Agli occhi di Dio tutto conta. Egli perdona tutto. E nel contempo sempre si attende la mia risposta. Mi dà fiducia. Tutte e due le cose sono vere! Come ogni piccola decisione, come ogni gesto diventerebbe elettrico, se in ogni istante ci sentissimo davanti allo sguardo di Cristo… La serietà di ogni istante!

Chiediamo in questa quaresima di recuperare questo senso della grandezza di ogni istante, della serietà di ogni giornata. In ogni circostanza, in ogni sfida che ci è messa davanti in fondo siamo chiamati a partecipare a questa grande lotta del Signore per l’affermarsi del suo regno nel mondo. Chiediamo di vivere questa lotta con umiltà, con pazienza ma anche con perseveranza certi che lui è con noi e ci porta alla vittoria.