Un dialogo con il filosofo Fabrice Hadjadj – Tracce
“L’inferno è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. [Italo Calvino]
“«Chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno». È accaduto, questo! Vogliamo riprendere, scostando la nebbia dell’abitudine dal nostro occhio e dal nostro cuore, vogliamo riprendere la grande notizia, il grande annuncio, il grande fatto, il grande avvenimento. «Chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno»: il Destino, il Destino nostro, si è reso Presenza. Ma Presenza come padre, madre, fratello, amico, come – mentre stavamo camminando – un compagno improvviso di cammino. Un compagno di cammino: Emmanuele, il Dio con noi! È accaduto questo!”. [Luigi Giussani]
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Professore, l’Incarnazione ha incominciato a scandalizzare i primi uomini che incontrarono Gesù, a partire dai suoi migliori amici. Cominciano lì le prime obiezioni “teologiche” al Dio fattosi uomo. «Scandalo per i giudei», diceva san Paolo. Ma anche per l’altra grande religione monoteista, quella islamica, l’incarnazione è una bestemmia contro la purezza assoluta del divino. Come inquadrare le obiezioni di questi due monoteismi che lei conosce bene? «Sono un ebreo dal nome arabo che si è convertito al cristianesimo», si legge in qualche sua autopresentazione.
Credo sia importante distinguere bene la posizione islamica da quella ebraica. Per i musulmani, Dio non può farsi carne perché la sua trascendenza è concepita come una sorta di separazione, di esteriorità, di inaccessibilità. Mentre la tesi ebraica (quella – diciamo – più diffusa, almeno da Maimonide in poi, ma che diventa molto forte in Martin Buber, per esempio) è che Dio ha dato a ogni giudeo la responsabilità di compiere la giustizia, e dunque di essere lui stesso un “Messia”. Non dobbiamo quindi dimenticare che la nozione di “incarnazione” anche nel cristianesimo è legata a una dimensione messianica. Non si tratta di un’incarnazione fine a se stessa, ma di un’incarnazione che è l’avvento del Messia, cioè del salvatore di Israele e, attraverso Israele, di tutte le nazioni. Ma per gli ebrei, appunto, ogni ebreo deve diventare, in un certo senso, il salvatore dell’altro. Ed è questo che crea, in qualche modo, due maniere diverse di percepire uno scandalo nell’incarnazione. Per i musulmani, perché è impossibile che Dio si faccia uomo, e per gli ebrei, perché è impossibile che un uomo non possa essere il Messia. E l’idea che vi sia un uomo, Gesù di Nazareth, che sia più Messia di un altro, va in qualche modo contro l’obbligo per ogni ebreo di essere il profeta, l’artefice della giustizia, eccetera.
Due posizioni diametralmente opposte…
E certamente non si possono mettere sullo stesso piano, perché il Mistero della rivelazione cristiana si colloca nella continuità del giudaismo e persino come compimento del giudaismo; mentre l’islam viene dopo il cristianesimo ed è – direi – in opposizione al cristianesimo. La vera questione è capire come, da una parte, ciò che sembra uno scandalo sia in realtà una benedizione e, dall’altra, che l’incarnazione è un modo per ogni uomo di diventare un alter Christus, un altro Cristo, attraverso il Battesimo, la Cresima e la vita nello Spirito.
Dal punto di vista filosofico, l’assoluta ineffabilità di Dio è sempre stata incompatibile con la “stoltezza” di un Dio che si incarna. E la “religione naturale” degli illuministi può salvare il sublime insegnamento morale di Gesù, ma la sua incarnazione è accettabile solo come mito. Insomma è poesia…
«Stoltezza» è la parola usata da san Paolo nel celebre passaggio «scandalo per i giudei e follia per i pagani». Cos’è l’uno e cosa l’altra? Lo scandalo è quella grossa pietra su cui inciampiamo e che ci fa cadere. La follia, invece, è ciò che si oppone direttamente al logos, alla razionalità dei greci. Perché è una follia per i greci? Perché per loro, generalmente parlando, il corpo è in qualche modo una prigione o, al massimo, un veicolo dell’anima di cui servirsi per uscirne, per elevarsi verso il mondo spirituale. Quindi nell’idea che Dio si faccia carne, ma anche l’idea della resurrezione della carne, cioè di ritornare nel corpo e rimanere per sempre nel corpo, è come se si volesse rimanere in un grado inferiore di esistenza. Ed è per questo che quando Paolo all’Areopago parla di resurrezione, i filosofi smettono subito di ascoltarlo. Plotino, il fondatore della scuola neoplatonica, che si confrontava con i cristiani, diceva che resuscitare è come un rivoltarsi nel sonno: è l’immagine di qualcuno che dormiva, che si è svegliato – e questa è la vita dello spirito – e che ritorna nel sonno del corpo. Ma questo non ha molto senso. Dunque, vediamo bene che in questo caso ciò che è follia è questa affermazione della natura divina della carne. Della carne come tale. Carne che non è più semplicemente un livello inferiore allo spirito, ma che è stata completamente assunta da Dio. A tal punto che nel Sabato Santo, il momento in cui l’anima di Gesù scenderà a prendere i giusti negli inferi e il corpo di Gesù è sepolto, quindi è un corpo senz’anima, ebbene anche in quel momento – insiste Tommaso d’Aquino – Dio è unito, ipostaticamente, a questo corpo. Dunque, Dio è sempre presente a questo corpo, anche in un corpo morto. E questo è incredibile. E ci dice fino a che punto si manifesta un amore per la carne che sembra folle ai pagani e ai filosofi in generale che sono dalla parte, diciamo così, del concetto. Mentre là, Dio viene a toccarci fisicamente.
E la resurrezione sarà resurrezione della carne, non solo dello spirito.
Sì, è così. Ma anche – insisto – il corpo morto di Gesù è un corpo divino. Questo è pazzesco: che il divino si sia addirittura unito al corpo morto. È un evento che fa parte del Credo, perché nel Credo si dice «morì e fu sepolto». Il figlio di Dio, vero Dio, nato dal vero Dio, è stato sepolto. In questa tomba c’è Dio.
La radice profonda dello scandalo dell’Incarnazione è però qualcosa da cui non siamo immuni neanche noi cristiani. Finché l’Incarnazione rimane un bell’enunciato teologico («Dio si è fatto uomo»), possiamo non scandalizzarci. Ma il punto è che l’Incarnazione sta continuando ad accadere. È il metodo che Dio ha scelto per farsi conoscere. Scrive don Giussani in una frase che quest’anno CL ha scelto di mettere nel Volantone di Natale: Dio, il nostro destino, «mentre stavamo camminando» è diventato «un compagno improvviso di cammino». È questo che ci scandalizza?
Sì. L’idea di Dio che cammina con l’uomo è un’idea che si trova in altre sapienze. Ma l’Incarnazione è un evento – direi – sia spirituale sia fisico. E che continua nella Chiesa. Il Verbo si è fatto carne, Dio ha assunto un corpo, ma il luogo dove si comunica il suo sangue, e quindi dove si estende il suo corpo, è la Chiesa. E così, di fatto, questo evento non è solo Dio che si è fatto uno di noi, ma Dio che viene anche a noi attraverso delle persone, cioè dei cristiani, che sono dei testimoni. E dei sacerdoti, che sono i canali della grazia sacramentale. E allora questo metodo dell’incarnazione, cioè di Dio che vuole dare il Suo spirito attraverso la carne, e Dio che vuole dare la Sua infinità attraverso chi ci è prossimo, è un rischio inaudito perché si affida a uomini carnali, a gente comune. E così quel sacerdote è capace di far arrivare Dio sull’altare e di comunicare la Sua grazia, può anche essere un uomo cattivo, forse persino perverso. E così vediamo che c’è un legame molto forte tra questo metodo dell’incarnazione e il primato della carità. Perché Gesù rivela che l’amore di Dio è un doppio comandamento: amare Dio e amare il prossimo come se stessi. Che siano intimamente legati, lo mostra proprio questo metodo di incarnazione, cioè il fatto che devo volgermi al mio prossimo per volgermi a Dio. Ogni volto, in un certo senso, è un comandamento di Dio. Ogni volto ci chiama alla carità. Anche il volto del nemico. Il rischio di un Dio che si affida agli uomini è che quando guardo questo o quel volto, potrei non vederLo più. In due modi: o per troppa antipatia o per troppa simpatia. Il problema non è solo l’odio, ma può essere anche una forma di affettività che non mantiene più la distanza dal mistero dell’altro.
Non solo i volti, ma anche i fatti. Dio incarnato ci fa non uscire, ma immergere nella storia, che è fatta di tutta la trama degli avvenimenti quotidiani, anche i più piccoli. Forse anche questo ci scandalizza nella logica dell’Incarnazione, perché ci impegna senza sosta.
È quello che chiamerei l’esemplarità di Nazareth. È vero, ci sono quei tre anni di vita pubblica, ma ci sono anche i trent’anni di Nazareth, quelli durante i quali Gesù non predicava, in cui conduceva la vita di un bambino, di un giovane, di un uomo comune, figlio di Giuseppe e Maria, e mangiava come noi, e dormiva come noi, e doveva sottostare a tutte le servitù fisiologiche come noi. E il fatto che Dio abbia voluto investire la vita umana ordinaria di tutti i giorni, la vita di un abitante del villaggio di Nazareth, la vita di un falegname, con i suoi clienti, i suoi ordini, i tetti delle case da riparare, la vita più ordinaria possibile, significa che è proprio in questa banalità che avverrà la cosa più mistica. E questa è la grande novità del cristianesimo. Il mistico non è negli stati eccezionali, è nella vita ordinaria. La mistica non consiste, come ad esempio nelle religioni dell’India, nell’appartenere a una casta molto alta o nell’essere in uno stato di purezza che ti astrae completamente. Qui invece possiamo dire che quest’uomo che intaglia una tavola di legno è Dio. Questo trasforma completamente la dimensione mistica, ma ci riporta anche a una nozione di Dio molto pura, perché Dio è il creatore di tutto e quindi è in un certo senso normale incontrarlo in ogni cosa. «Qualunque cosa facciate, fatela nel nome del Signore Gesù Cristo», diceva Paolo. «Sia che mangiate sia che beviate», sia sempre nel nome del Signore Gesù. Ma perché questo è possibile? Non perché appiccichiamo il nome di Dio. È perché Lui stesso ha fatto ciò che noi facciamo. Non solo come Creatore (Egli è il Creatore di tutte le cose), ma in quanto Salvatore, e attraverso l’Incarnazione, Egli è stato un uomo che ha usato queste cose quotidiane.
Quella del Dio incarnato è una salvezza che ha dovuto fare i conti e porre rimedio alla radice della nostra capacità di male. Forse proprio quella travolgente logica di misericordia che Gesù ha portato dentro la storia è il punto che più ci scandalizza, perché butta per aria il nostro protagonismo egocentrico e ci costringe a riconoscere la nostra miseria continuamente perdonata.
Sì, è così. E in proposito san Paolo dice che Gesù non ha commesso il peccato, ma è diventato peccato per noi. È una frase molto sorprendente, perché significa che ha assunto pienamente la condizione dei peccatori, una condizione sofferente, mortale. Potremmo immaginare che Dio ci perdoni in modo puramente spirituale. Ma cosa significa questo perdono attraverso la carne di Cristo? È soprattutto questa la domanda. Non è semplicemente la questione del perdono, o di un Dio misericordioso: anche i musulmani dicono che Allah lo sia. Allora la vera questione è cosa distingua un Dio che mostra misericordia diventando uno di noi. Qui possiamo vedere che la misericordia non consiste prima di tutto in un grande discorso, non sta prima di tutto in una sorta di atti – direi – giuridici, dove si cancella il debito, ma in una prossimità, nell’essere pronti a raggiungere il peccatore dove si trova, nello stare con lui. E così, qui c’è di fatto una sorta di primato della comunione, il farsi carne è davvero un essere con noi, un essere, come dice l’angelo a Maria nell’Annunciazione, l’Emmanuele, il Dio con noi. Un re lontano può fare misericordia dicendo: “Tu mi dovevi tot e ora non mi devi più nulla”. Qui no, qui Lui è vicino alla persona che ha commesso il male e prima di tutto vuole essere con lei. Sì, farsi carne è rendersi vicino. Al fondo, dunque, la questione non è semplicemente cancellare il debito. La questione è essere insieme.
Fin dentro l’inferno?
Ho visto i due testi del dialogo a distanza tra Calvino e don Giussani. Premesso che ho una grandissima ammirazione per Italo Calvino, qui ovviamente la parola “inferno” non ha il significato teologico di autoesclusione irrevocabile. Quello che qui si chiama “inferno” è il luogo della disgrazia, della calamità, della sofferenza e dell’ingiustizia. E Calvino ha ragione di dire che, di fronte a questo, vi sono diverse possibilità: sia diventare complici della perversione, sia pretendere di essere estranei a questa perversione, di giocare la parte di chi è puro (“io non c’entro”). Altra cosa è riconoscere anzitutto questa perversione nel proprio cuore. E quando un uomo si accorge di essere un peccatore, è già nella luce della grazia. E così, è scoprire che questa perversione non è semplicemente nel mondo fuori di me, ma è anche dentro di me: è quando lo riconosco che posso iniziare a smettere di esserne complice. A quel punto, naturalmente, significa che ho riconosciuto qualcosa che era “nel” mondo, in questo mondo perverso, ma che non era “di” questo mondo perverso. Di cosa si tratta? Se questa ferita mi fa orrore è solo perché, prima, ho visto la bontà della carne. Se la carne non fosse buona, la ferita non farebbe male. La carne è buona perché c’è qualcosa nel mondo, nella sua profondità, che rimane buono e che rimane, come dire, quasi inalienabilmente buono. Il male ha sempre bisogno di questa bontà per essere. Come si dice in metafisica: il male è solo una privazione di qualcosa che è buono. È questo ciò che rivela anche il mistero dell’Incarnazione. All’improvviso Dio avrebbe potuto fare quello che fece al tempo del Diluvio, cancellare tutta la carne dalla terra. A quel punto la questione della salvezza non sarebbe più stata quella della carne, ma quella degli spiriti. Ed ecco che invece Egli si fa carne e riafferma la bontà di quella carne, anche se quella carne si è corrotta, ha preso la strada sbagliata, anche se potremmo odiarla, anche se noi stessi non sopportiamo il nostro fascino. Ma ecco che Lui riafferma questa bontà. Quindi si potrebbe dire che non può esistere l’inferno se non esiste il paradiso. Poiché l’essenza stessa dell’inferno è la privazione del paradiso. Quindi, nel momento stesso in cui vedo questa privazione, in cui soffro di questa privazione, riconosco che non c’è solo questa privazione: c’è qualcosa di buono che ne è stato toccato ma che rimane buono, e che bisogna considerare, che bisogna salvare.
Tutto questo può essere solo un processo mentale, intellettuale, o è provocato da qualcuno che, come dice la citazione, irrompe nella mia vita? E lo fa continuamente.
Non è un processo mentale, perché è sempre legato a un evento, a un incontro. E non è affatto comodo. Perché accettare di essere salvati significa prima di tutto riconoscere che siamo perduti. E il nostro orgoglio, come la nostra comodità, non vuole ammettere che siamo perduti. Ed è per questo che abbiamo bisogno, non solo di Dio, ma anche degli altri, e quindi di essere costantemente, come dire, disturbati, aperti all’avventura, con le nostre ambizioni costantemente stravolte dall’evento della salvezza. Potremmo prendere – per citare un altro testo letterario – la Vita nova di Dante, che, a ben guardare, recupera tutte le dimensioni di quello che abbiamo detto sull’Incarnazione: qui c’è una giovane donna, una passante, che a Firenze gli fa semplicemente un saluto, gli dice “ciao”, e questo saluto ordinario aprirà tutto il mistero e tutta la questione della salvezza con la “S” maiuscola, sia del dramma dell’esistenza sia di ciò che ci condurrà di dramma in dramma attraverso l’inferno, attraverso il purgatorio, ma anche attraverso il dramma del paradiso, perché il paradiso è drammatico nella Commedia, è anche un luogo dove c’è una sorta di gioia così forte che non smette mai di infrangersi, di frantumare ogni orgoglio. E così, da questo semplice saluto della vita quotidiana, Bice Portinari diventerà Beatrice, e Dante si aprirà all’intera avventura. E dovrà abbandonare completamente la sua zona di comfort, dovrà accettare di vivere con questo cuore, questo cuore lacerato dal desiderio e dall’amore. Qui non c’è una strategia per il benessere o la comodità: al contrario, qui accade qualcosa che ci introduce al comandamento dell’amore e della giustizia, che ci lascia senza riposo finché non riposiamo in Dio.