Recalcati – La Repubblica
Alla fine degli anni Novanta anche la crisi economica giapponese aveva avuto tra le sue conseguenze un aumento significativo del numero di suicidi. Si trattava per lo più di uomini al di sopra dei cinquanta anni che si trovarono messi ai margini dei processi di ristrutturazione industriale. Spesso sceglievano di gettarsi sotto i treni che entravano in stazione. L’ ampiezza di questo fenomeno condusse una compagnia dei treni di Tokyo ad installare dei cosiddetti “specchi anti-suicidio”. Gli psicologi giapponesi pensavano che restituire al soggetto la sua immagine avrebbe potuto avere un effetto dissuasivo: vedere la propria immagine di uomo avrebbe dovuto smorzare la spinta a suicidarsi. Una iniezione di narcisismo per contrastare il sentimento depressivo che li conduceva nel baratro. Pensiero ingenuo.
L’ immagine di sé non è l’immagine che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi.Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. E non saranno certo gli specchi anti-suicidio a frenare questa decisione estrema.
Non solo di pane vive l’uomo, recita, com’ è noto, la celebre massima evangelica. Gli psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità: la vita umana non si realizza solo attraverso l’appagamento dei bisogni primari, naturali, istintuali. La vita si umanizza attraverso l’acquisizione di una dignità simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di appartenenza.