È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo storico e un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono quelli che sono stati tracciati fra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che, invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano di là dalle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso.
[A. MacIntyre, Dopo la virtù]
Fu la fatica disciplinata e incessante dei monaci che arrestò la marcia della barbarie nell’Europa occidentale e che rese di nuovo alla coltura terre che erano state abbandonate e spopolate al tempo delle invasioni. In un passo assai conosciuto sulla missione di san Benedetto, Newman scrive che il santo “trovò il mondo sociale e materiale in rovina, e la sua missione fu di rimetterlo in sesto, non con metodi scientifici, ma con mezzi naturali, non accanendovisi con la pretesa di farlo entro un tempo determinato o facendo uso d’un rimedio straordinario o per mezzo di grandi gesta; ma in modo così calmo, paziente, graduale, che ben sovente si ignorò questo lavoro fino al momento in cui lo si trovò finito. Si trattò di una restaurazione più che di un’opera caritatevole, di una correzione o d’una conversione. Il nuovo edificio, ch’esso aiutò a far nascere, fu più una crescita che una costruzione. Uomini silenziosi […] sterrando e costruendo, e altri uomini silenziosi, che non si vedevano, stavano seduti, nel freddo del chiostro, affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti ch’essi avevano salvato. Nessuno di loro protestava, nessuno si lamentava, nessuno attirava l’attenzione su ciò che si faceva; ma poco per volta i boschi paludosi divenivano eremitaggio, casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola e infine città”.
[C. Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale]
“Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile […] nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere.”
[Benedetto XVI discorso al mondo della cultura; College des Bernardins Parigi 2008]
[…] Una volta questa compagnia, o questa strada, aveva un perimetro imponente, imponente dal punto di vista della robustezza delle mura e dal punto di vista del suo slancio estetico. Nulla di più bello e di più affascinante, nelle lontane epoche, più del monastero. Le mura erano difesa dai nemici anche fisici, la bellezza della sua architettura aveva un solo rivale: la bellezza del canto e della preghiera che in quelle mura e sotto quelle volte si faceva. Ora la cosa è diventata più spirituale, ora la cosa è diventata più sottile, sembra più inconsistente; non ci sono quelle mura di un metro e più di profondità, non ci sono quelle volute architettoniche, quegli spazi che da soli attiravano l’anima, non c’è più quel suggerimento affascinante del canto e della preghiera regolare. C’è una compagnia, quella tra di noi, la nostra amicizia, una compagnia in cui tutto quanto dipende dalla buona volontà, dipende dalla volontà dei componenti. Questa compagnia deve sostituire quelle mura, deve rintracciare l’eco di quei canti, di quelle preghiere, deve saper ispirare uno sguardo che faccia percepire almeno in qualche modo l’attrattiva fisica di Dio nella sua realtà dentro il mondo, l’attrattiva del segno di Cristo, quell’attrattiva che è segno di Cristo.
[Giussani; Contributo a “Uomini con lo sguardo verso Dio: E la civiltà rinasce”; Tracce, 2006]